Ieri Souad Sbai ha pubblicato un articolo sul caso Hina (qui).

La nostra parlamentare ci descrive nei particolari la sentenza che ha portato alla condanna del padre di Hina a 30 anni di reclusione.

Di fatto la Corte di Cassazione ha accolto l’impianto accusatorio costruito dall’avvocato di parte civile, Loredana Gemelli, che nella fase istruttoria del processo aveva dimostrato una verità ben più sconcertante rispetto a quella del delitto di onore. Hina Saleem era infatti oggetto di violenza sessuale da parte del padre: ecco perché, secondo i giudici, «la motivazione assorbente dell’agire dell’imputato è scaturita da un patologico e distorto rapporto di “possesso parentale”».

Possesso-dominio, per essere più precisi. Quella stessa devianza che si ingenera in condizioni di particolare sottomissione della donna.  Quella devianza le cui distorsioni avevano condotto Hina a sporgere una prima denuncia (e a essere successivamente allontanata dalla famiglia con provvedimento d’urgenza dal Tribunale per i Minori) per violenze e molestie paterne, poi ritrattata sotto la promessa di una mai concessa libertà: quella di andare a vivere con il suo ragazzo.

Hina dunque è stata vittima di un omicidio premeditato il cui movente è stato diluito nel brodo di usanze tribali primordiali al fine di aggirare il corso della giustizia puntando ad ottenere in sede processuale uno sconto di pena dovuto al rituale perpetrarsi della catena «donna-musulmana-innamorata-di-un-occidentale-disonore-della-famiglia». Una catena che avrebbe puntato a e ottenuto un ammorbidimento della sentenza in base all’assunto secondo il quale: “Sono musulmani, sono le loro tradizioni, sono abituati così».

Ecco, mi sono detto. Sbai ha ragione anzi, ragionissima.

Tanto più che la sua analisi continua così (ho tagliato qualcosa):

Mi sembra allora che la vicenda di Hina sia molto più complessa di quanto dipinta dai giornali o di quanto alcuni giornalisti e studiosi si siano affrettati ora ad affermare, ora a spergiurare di fronte all’opinione pubblica, dimostrando di non conoscere alcun atto processuale. Si tratta di una vicenda consumata in un contesto di degrado, dove la religione e la cultura sono state piegate alle perversioni di un padre e sventolate come cartina di tornasole di fronte alla comunità. Questo è il vero dramma di questa storia e questo deve servirci da monito affinché brutalità di tal fatta non possano più accadere.

Tutto ok, quindi?

Non proprio. Nell’articolo si innesta una polemica con Franco Frizzi di medarabnews, che il giorno 22 febbraio, fra le altre cose:

si è affrettato a bollare le manifestazioni a favore della povera Hina come brodaglia annacquata di luoghi comuni sull’Islam e sull’islamofobia, parlando di “accanimento ideologico” da cui avrebbe preso piede la costruzione di «uno schema culturale secondo il quale con l’assassinio di Hina Saleem ci si trovava di fronte a un classico omicidio d’onore, maturato nell’incomprensione, nell’ignoranza e nell’islamismo radicale».

Secondo la Sbai, quindi, le parole di Frizzi sono sbagliate, ma a me sembra che tutto il suo articolo sia teso a dimostrare proprio che dietro a questa sbandierata “islamità” dell’omicidio ci sia stato ben altro.

Dove vuole andare a parare Souad?

È allora necessario affermare una volta di più che non vi sarà spazio nel nostro ordinamento per l’introduzione, seppure alla chetichella, o sotto mentite spoglie, della Sharia. Ma che al contrario bisognerà lavorare sodo per fare in modo che i diritti individuali, la dignità e l’integrità della persona vengano garantite al di la di qualsiasi giustificazione, culturale o religiosa che sia. Bisognerà valutare l’opportunità di considerare che ciò che oggi è interpretato come attenuante culturale venga invece trasformata in una vera e propria aggravante. Con tutte le conseguenze sul piano sanzionatorio.

Ah, ecco. La teoria è questa: il dato religioso e culturale, secondo la Sbai, deve costituire un’aggravante e non un’attenuante.

Sul tema mi son scornato con Giovanni Fontana per giorni e quindi vorrei dire 2 parole.

Le attenuanti per motivi religiosi e culturali non sono previste mai nel caso che ci si trovi in ambito penale.

Come ribadito dalla Sentenza della Corte di Cassazione (Penale) del 29 maggio 2009, n. 22700 (vedi qui) vige in ambito penale il principio di obbligatorietà della legge penale:

La legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale.
La legge penale italiana obbliga altresì tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano all’estero, ma limitatamente ai casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto internazionale.

Quindi il problema nel caso di Hina Saleem non sussisteva.

Sono casomai i difensori e gli stessi autori del delitto ad aver agitato in maniera maldestra l’eccezione del motivo culturale e religioso.

Quanto invece all’idea di considerare i motivi religiosi e culturali un’aggravante ci troviamo di fronte a un’evidente assurdità.

Vivremmo in un paese in cui i magistrati, negli atti accusatori, vanno in cerca di “motivi culturali e religiosi” che possono aver spinto al delitto gli accusati.

Immagino requisitorie del tipo: “Il Bianchi non ha colpito il Rossi in quanto normale cittadino, ma in quanto mormone! Per questo chiediamo che la pena sia scontata in carcere” o anche: “Il testimone di Geova, con protervia, si rifiutava di firmare per la trasfusione, determinando il decesso … ” oppure: “A quel punto il musulmano, circondato di carni di maiale, non poteva non uccidere” e infine “L’ateismo del Persichelli non gli permise di perdonare su base pietistica il Quagliotta, e ciò costituisce un’aggravante ineludibile” etc.  etc.

Non sono un giurista, quindi posso sbagliarmi. Ma da profano (sarà un’aggravante?) mi chiedo: perché cambiare leggi e ordinamenti che funzionano bene?

Lorenzo DeclichLe destre e l'islamcorte di cassazione,franco frizzi,hina,islam,italia,medarabnews,suad sbai
Ieri Souad Sbai ha pubblicato un articolo sul caso Hina (qui). La nostra parlamentare ci descrive nei particolari la sentenza che ha portato alla condanna del padre di Hina a 30 anni di reclusione. Di fatto la Corte di Cassazione ha accolto l’impianto accusatorio costruito dall’avvocato di parte civile, Loredana Gemelli,...