Della prima moschea che vidi in vita mia, mi impressionò la concezione dello spazio.

C’era solo un’ampia, ampissima sala e nessuna focalizzazione su un punto preciso (un altare, un luogo dove un officiante facesse qualcosa), il ché mi dava una particolare percezione di “non finitezza”, regalandomi una sensazione di pace e tranquillità.

Lo spazio della moschea, la sua architettura, sono diretta traduzione funzionale del rituale della preghiera.

La salat è un atto in primo luogo personale, singolare, che può essere eseguito ovunque a condizione che ci si sia orientati nella direzione giusta, ovvero verso la Mecca.

La salat è composta di una serie di atti da compiere con estrema concentrazione e lasciando fuori da sé qualsiasi tipo di influenza esterna.

La moschea dunque non è altro che un luogo orientato verso la Mecca in cui c’è spazio per compiere la preghiera con calma.

Gli imam, ovvero quelli che “dirigono la preghiera”, hanno proprio lo scopo di generare un unisono quando, durante le preghiere comuni (quella del venerdì in special modo), si rischia di andare ognuno per fatti propri, deconcentrandosi e deconcentrando gli altri.

Tutto questo per dirvi che a me il tappetino elettronico che ti avverte quando hai finito di pregare non mi convince molto, anzi per niente.

E’ un po’ come la voce elettronica che al casello autostradale ti dice “arrivederci”: una cosa ipocrita.

Forse sono un po’ troppo cattivo e forse, anzi certamente, non ho la sensibilità di un musulmano, ma questo tappetino lo vedo come un prodotto tipico dell’islamercato: un oggetto senz’anima comprando il quale puoi “manifestare” il tuo collegamento a un’identità, e grazie al quale puoi permetterti di non eseguire con troppa attenzione a ciò che invece andrebbe eseguito con la massima attenzione.

https://in30secondi.altervista.org/wp-content/uploads/2010/06/nomad_prayer1.jpghttps://in30secondi.altervista.org/wp-content/uploads/2010/06/nomad_prayer1-150x150.jpgLorenzo DeclichIslamercatoglobalizzazione,islam,spiritualità
Della prima moschea che vidi in vita mia, mi impressionò la concezione dello spazio. C'era solo un'ampia, ampissima sala e nessuna focalizzazione su un punto preciso (un altare, un luogo dove un officiante facesse qualcosa), il ché mi dava una particolare percezione di 'non finitezza', regalandomi una sensazione di pace...