1. LO SCORSO 12 MARZO ABŪ YAHYĀ AL-LĪBĪ, il libico emerso negli ultimi anni come uno dei leader del nucleo centrale di al-Qā‘ida, e che presiede il suo consiglio (šurā) in assenza di Osama bin Laden e Ayman al-Ẓawāhirī, appare in un video di as-Saḥāb, la principale agenzia informativa del gruppo terroristico in Pakistan e Afghanistan. In un discorso di una trentina di minuti si rivolge ai ribelli libici invitandoli alla lotta e offrendo loro appoggio militare. La retorica è quella qaidista: il faraone va abbattuto, la Libia deve diventare uno Stato islamico.

Passa un giorno e la stessa as-Sahab diffonde un video dello stesso tenore in cui a parlare è ‘Aṯiyyatullāh ‘Abd al-Raḥmān , un altro qaidista libico di stanza in Afpak e che era stato dato per morto in un attacco drone della Cia nel Waziristan Settentrionale all’inizio di ottobre 2010. ‘Aṯiyyatullāh si firma nel video col suo vero nome , Ğamāl Ibrāhīm ‘Ištāwī, completo di toponimico originale al-Miṣrāṯī, cioè di Misurata, proprio per sottolineare il proprio coinvolgimento personale nel discorso che porta a nome di al-Qā‘ida e il suo essere anche un patriota (appare d’altronde vestito alla libica).

Cosa sta succedendo? Siamo probabilmente di fronte a una nuova strategia di al-Qā‘ida. Syed Salem Shahzad su Asia Times, basandosi su fonti pakistane e afghane, ne anticipa le linee il 9 marzo scorso nel suo «Libyan test for refocused al-Qaeda», tradotto in italiano da Medarabnews, nel quale constata che il gruppo terroristico dopo essersi trovato nel ruolo di spettatore in rivolte essenzialmente laiche, si sta riposizionando avendo il timore di venire marginalizzato. E lo scenario libico, che i qaidisti conoscono bene, potrebbe offrirgli un trampolino di lancio. «Il più potente gruppo libico vicino ad al-Qā‘ida» scrive Shahzad, «il Lifg (Libyan Islamic Fighting Group), teme di essere emarginato, sostengono i membri del campo di militanti libici nella zona tribale del Pakistan che corrisponde al Waziristan Settentrionale. Ritengono che al-Qā‘ida debba scendere in campo per dare un punto di riferimento ideologico all’opposizione armata, e per evitare che la situazione cada nelle mani degli agitatori filoccidentali». Per Shahzad, al-Qā‘ida «cercherà di svolgere un ruolo attivo in Libia, e ciò avverrà in collegamento con i partiti islamici al fine di sostenere le masse, e tale ruolo non includerà le azioni terroristiche che hanno caratterizzato le operazioni compiute da al-Qā‘ida negli anni passati, in particolare in Iraq»1. Questa nuova prospettiva sembra essere confermata nella messa in video dei due personaggi citati.

Arriviamo al 15 marzo, quando, in un’intervista rilasciata a Fausto Biloslavo del Giornale , Muammar Gheddafi agita il rischio qaidista dicendo di essere in campo per combatterlo ma anche – colpo di scena – che si alleerà con al-Qā‘ida se mai questa per lui fosse l’ultima opzione2.

Quanto riportato da Biloslavo, giornalista embedded alla corte di Gheddafi, sembra saltare completamente il 22 marzo, quando Roberto Bongiorni del Sole 24 Ore si reca a Derna e intervista ‘Abd al-Hakīm al-Haṣādī, il «responsabile della difesa della città», un uomo che si presenta «protetto da una guardia del corpo, lo sguardo nascosto da occhiali a specchio, (…) con un giubbotto di pelle sopra la galābiya, da cui affiorano le sagome di due grandi pistole»3.

Al-Haṣādī è la stessa persona che era stata indicata il 23 febbraio dal viceministro degli Esteri Hālid al-Ka’īm come appartenente ad al-Qā‘ida, ex detenuto di Guantánamo e fondatore di un emirato islamico a Derna, dove sarebbe stato imposto il burqa. L’intervista è molto istruttiva, pur avendo il difetto di raccontarci molto di chi non è al-Haṣādī e poco di chi al-Haṣādī sia davvero. L’intervistato dichiara di non appartenere ad al-Qā‘ida, di non essere un ex di Guantánamo e di non aver fondato un emirato islamico a Derna. E non dice il falso su almeno due cose su tre. L’attribuzione di ex di Guantánamo è infatti erronea, nata a causa delle affermazioni tendenziose di Gheddafi e del modo in cui viene citato un ex prigioniero di Guantánamo in un cable di WikiLeaks, in cui Abū Sufyān Ibrāhīm Aḥmad Ḥammūda Bin Qumū (nell’articolo di Bongiorni Sufyan al-Koumi, nel mio precedente articolo su Limes4 Abu Sofian Ben Guemou) viene chiamato Sufian Ahmed el-Gomo al-Hassadi. Inoltre, al-Ha ṣā d ī non ha fondato un emirato islamico a Derna, se è vero che Derna fa parte, secondo il Consiglio nazionale di transizione, della nuova Repubblica libica (il rappresentante di Derna nel Consiglio è ‘Āšūr Ḥāmid).

Nell’intervista di Bongiorni, al-Haṣādī afferma: «Non sono mai stato a Guantánamo. Sono stato catturato nel 2002 a Peshawar in Pakistan, mentre tornavo dall’Afghanistan dove combattevo contro l’invasione straniera. Sono stato consegnato agli americani, detenuto qualche mese a Islamabad, consegnato in Libia e scarcerato nel 2008». Quindi, l’uomo è a tutti gli effetti un jihadista, «l’invasione straniera» è quella americana e, si noti bene, la sua liberazione è avvenuta in Libia, nel quadro del programma di riabilitazione di Sayf alIslām Gheddafi.


2. Ma che genere di jihadista abbiamo di fronte? Al-Haṣādī era uno di quei famosi «arabi afghani», tra i quali militavano moltissimi libici, che combatterono innanzitutto in Afghanistan, contro i sovietici prima e gli americani poi. Agli albori della nascita della al- Ğamā‘a al-Islāmiyya al-Muqātila bi-Lībyā, il Lifg, c’è infatti l’esperienza afghana – siamo negli anni Ottanta – durante la quale nacque «la base», al-Qā‘ida, dall’iniziativa del saudita Osama bin Laden.

Secondo le fonti, al-Qā‘ida, che nasce come un coordinamento di gruppi di «arabi afghani» provenienti da diversi paesi, aveva in sé dall’inizio un buon contingente libico, che si gonfiò a dismisura a partire dal 1989 quando il gruppo di jihadisti libico (che diverrà poi, mutando, il Lifg) subisce un brutto colpo con l’arresto del suo leader, ‘Awaḍ al-Zawāwī.

Il Lifg nasce nei primi anni Novanta, ha il suo focus soltanto sulla Libia e sull’opposizione armata al regime di Gheddafi, tanto che i suoi leader, quando gli si chiede del loro rapporto con al-Qā‘ida , sottolineano che l’organizzazione non ha mai combattuto al di fuori del paese.

Il fatto è che il Lifg vero e proprio, sebbene un’organizzazione libica jihadista anti-Gheddafi sia già attiva molto prima, nasce proprio dall’esperienza afghana, con tutto ciò che questo comporta a livello di contatti con al-Qā‘ida .

Tuttavia, essendo al-Qā‘ida originariamente la base di una rete di organizzazioni più che un’organizzazione a sé stante, il contingente libico degli «arabi afghani », che poi diventerà Lifg, rivendica da subito la propria autonomia, mentre parallelamente alcuni libici, come i due citati in principio, scaleranno le gerarchie qaidiste.

Quando, principalmente dopo l’11 settembre, al-Qā‘ida da rete di organizzazioni diviene un brand – esempi di oggi sono al-Qā‘ida nel Maghreb islamico (Aqmi) o al-Qā‘ida nella Penisola Araba – il centro di al-Qā‘ida e il Lifg prendono definitivamente due strade diverse, anche se ovviamente i contatti rimangono.

Nel frattempo, il Lifg era stato fatto oggetto di una repressione spietata e senza quartiere, salvo poi essere riammesso in dosi omeopatiche e non senza malizia nella società libica dai Gheddafi.

Per riassumere le relazioni e le non relazioni fra Lifg e al-Qā‘ida: il primo non è al-Qā‘ida e diventa Lifg solo nel momento in cui torna in Libia; molti suoi membri sono «arabi afghani»; molti sono o sono stati qaidisti; alcuni «arabi afghani » libici sono tuttora qaidisti.

Al-Haṣādī sembra essere, mettiamola così, un jihadista patriottico, un «arabo afghano» che forse non ha mai amato al-Qā‘ida ma che con al-Qā‘ida ha avuto certamente a che fare, visto anche il buon numero di libici di Derna che ha inviato a combattere in Iraq, e che oggi si concentra su quello che probabilmente era l’obiettivo primario suo e dei suoi amici: il ribaltamento del regime di Muammar Gheddafi.

Leggendo in questa luce le altre sue dichiarazioni avremo un quadro più chiaro. Riguardo agli invii di jihadisti in Iraq, dice: «Ne ho inviati circa 25 (…) alcuni sono tornati e oggi sono sul fronte di Ağdabiyya; sono patrioti e buoni musulmani, non terroristi». Riguardo ad al-Qā‘ida afferma: «Condanno gli attentati dell’11 settembre, e quelli contro i civili innocenti in generale. Ma i membri di al-Qā‘ida sono anche buoni musulmani che lottano contro l’invasore». Ma quello che colpisce forse ancora di più è che al-Ha ṣā d ī si dichiara assolutamente favorevole alla no-fly zone sotto l’egida dell’Onu.


3. Intanto, l’intervista di Fausto Biloslavo ha superato le barriere linguistiche e fatto il giro del mondo. È stata ripresa dal New York Times , dal Washington Post e anche da uno dei siti dei rivoltosi, feb17.info. Nel web e altrove, rimbalza soprattutto l’affermazione che Gheddafi «potrebbe allearsi con al-Qā‘ida » e in Italia le agenzie riportano il dibattito apertosi in un sito jihadista, nel quale si definisce Gheddafi un pazzo. Allo stesso tempo, però, viene diffuso un proclama dell’Aqmi, cioè al-Qā‘ida nel Maghreb islamico, che invita quelli che definisce propagandisticamente «rivoltosi musulmani» a «non fidarsi di Usa e Nato». I media, tuttavia, non rilevano che l’Aqmi non è al-Qā‘ida e che finora non ha mai agito in Libia.

A questo punto, il disorientamento regna: con chi sta al-Qā‘ida? È utilizzabile da Gheddafi per i propri fini? I «volenterosi» hanno preso in considerazione, prima di attaccare, l’influenza dei qaidisti libici, quasi tutti provenienti dalle aree ora in mano agli insorti? Hanno tenuto conto di personaggi come al-Haṣādī, un «arabo afghano» jihadista non esattamente qaidista che invia i jihadisti del Lifg in Iraq e, incaricato della difesa di Derna dal Consiglio nazionale di transizione della Repubblica libica, è favorevole alla no-fly zone?

Scott Stewart di Stratfor, nel suo Libya’s Terrorism Option, ci aiuta a capirne di più attraverso un’indagine sulle varie opzioni politico-strategiche in mano al qā’id di Tripoli. Stewart osserva che di fronte alla possibilità di perdere tutto, Gheddafi potrebbe reagire – e caratterialmente ha dimostrato di poterlo fare senza indugi – con azioni terroristiche di vario tipo: se «la storia ci ricorda che Gheddafi ha sempre fatto uso del suo corpo diplomatico per compiere ogni sorta di nefandezze», scrive Stewart, «pianificando attacchi terroristici o fomentando colpi di Stato», le defezioni subite fra le file dei diplomatici nelle ultime settimane aiuteranno a tenere lontano questo pericolo. Tuttavia, «i diplomatici non sono l’unica fonte da cui Gheddafi può attingere per ottenere un vantaggio, perché il dittatore può sempre spingere in maniera eterodiretta su gruppi terroristici come l’Aqmi o il Lifg»5.

Sì, ma come? Tenendo conto degli obiettivi generali di al-Qā‘ida, al di fuori della guerra che si sta consumando in queste settimane, ma soprattutto della nuova strategia di cui si è detto all’inizio – uscire dallo steccato collaborando con possibili nuovi interlocutori – è possibile, anzi è probabile che l’Aqmi e al-Qā‘ida stiano giocando due partite diverse, non necessariamente in contraddizione fra loro.

L’Aqmi è stanziata principalmente in un’area che comprende il Sud dell’Algeria, Niger e Mali, uno di quei cosiddetti rifugi – vedi ad esempio le remote province dello Yemen in cui è presente al-Qā‘ida nella Penisola Araba – dove l’autorità dei paesi sovrani non riesce ad arrivare. Gli esperti la considerano una sorta di fanalino di coda fra tutte le affiliate di al-Qā‘ida : i suoi capi non hanno rilievo ideologico e le sue azioni non vengono ritenute degne di nota a livello centrale. La sua attività, comunque, è spesso associata al contrabbando e ai rapimenti, tanto che alcuni osservatori considerano l’Aqmi poco più che una banda di briganti e altri, più maliziosamente, denunciano operazioni di false flag condotte da algerini, americani e inglesi. I primi opererebbero in questo modo per garantirsi l’appoggio americano, la cui Africom è relegata in Germania, i secondi e i terzi per entrare in Africa con la scusa di al-Qā‘ida. In un contesto in cui i francesi sono già nell’area: alla fine di ottobre un messaggio attribuito a Osama Bin Laden era dedicato tutto al rapimento da parte dell’Aqmi dei tecnici di Areva e Satom (gruppo Vinci) impegnati nell’estrazione di uranio in Niger e alla condanna della politica nazionale e internazionale francese, che lo scorso settembre aveva spedito un centinaio di militari specializzati nella lotta al terrorismo e aerei di ricognizione e combattimento al seguito dell’esercito mauritano che muoveva un’offensiva in Mali contro la branca qaidista in Africa.

L’Aqmi, in continuità con gli obiettivi di al-Qā‘ida, tifa per i rivoltosi e si è dichiarata in tal senso, ma poiché opera su obiettivi locali invita gli stessi a non fidarsi perché nei territori in cui è stanziata conduce una battaglia proprio contro chi oggi sta bombardando la Libia. Parallelamente, nel contesto libico, dove potrebbe avere un’operatività – e forse già ce l’ha – nel campo degli insorti, al-Qā‘ida non ha nulla da perdere e anzi tutto da guadagnare dall’ombrello Onu e dalla no-fly zone.

La cosa, e questo è il punto critico, non è in contraddizione con un’alleanza di comodo, temporanea, dell’Aqmi con Gheddafi, nell’ottica di riguadagnare terreno in quell’area a sud della Libia – compreso il Ciad che è la porta del leader libico verso l’Africa e gli assicura i rifornimenti – che da diversi anni è negli obiettivi di americani, inglesi e francesi. Dopotutto, dal punto di vista di al-Qā‘ida, nulla vieta di combattere contro Stati Uniti e Nato nell’area di pertinenza dell’Aqmi e contro Gheddafi insieme agli insorti in Libia.


4. Resta da definire la relazione Lifgal-Qā‘ida. Fino a che punto i jihadisti del Lifg sono in contatto con i qaidisti? C’è una strategia comune che al-Haṣādī non ha riferito a Bongiorni, o è vero che la maggior parte degli affiliati del gruppo si sono riconvertiti a un sano patriottismo? Šayḫ ‘Alī al-Šalabī, un esponente di spicco dell’islam libico e mediatore con il Lifg per conto di Sayf al-Islām Ghedda­fi al tempo del programma di riconciliazione, dichiarava l’11 marzo dal Qatar alla Reuters che gli accademici e i gruppi islamici supportano il Consiglio nazionale di transizione, invocava la no-fly zone e affermava che gli «islamisti libici non credono nell’ideologia di al-Qā‘ida e non vogliono fondare uno Stato islamico». Non sappiamo però se si riferisse o meno ai membri del Lifg. Né quanto la nuova strategia di al-Qā‘ida, che ora è in retroguardia, possa avere successo. Certamente, il fattore tempo gioca a favore dell’organizzazione perché, come dice il jihadista patriottico al-Haṣādī: «Se la guerra andrà avanti a lungo è facile che estremisti stranieri entrino dai nostri confini».

1. www.atimes.com/atimes/Middle_East/MC09Ak03.html 2. www.ilgiornale.it/esteri/gheddafi_parla_giornale_i_ribelli_ammazzeremo_chi_non_si_arrendera/aeroporti_ roma-fiumicino-libia-gheddafi-guerra_santa-occidente-ilgiornale-intervista/15-03-2011/articolo- id=511582-page=2-comments=1 3. www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-03-21/reportage-ribelli-islamici-tolleranti-231527_PRN.shtml 4. L. DECLICH, «Al-Qå’ida in Libia, la polpetta avvelenata dei Gheddafi», Limes, n. 1/2011.

5. www.realclearworld.com/articles/2011/03/25/libyas_terrorism_option_99456.html

Lorenzo Declichjihadicalimes,Prequel
1. LO SCORSO 12 MARZO ABŪ YAHYĀ AL-LĪBĪ, il libico emerso negli ultimi anni come uno dei leader del nucleo centrale di al-Qā‘ida, e che presiede il suo consiglio (šurā) in assenza di Osama bin Laden e Ayman al-Ẓawāhirī, appare in un video di as-Saḥāb, la principale agenzia informativa del gruppo...