Chiamatela controrivoluzione, io preferisco chiamarla “normalizzazione”.

Quello che è certo è che le rivolte nei paesi arabi di questi mesi, associate anche alle rivelazioni di Wikileaks – che hanno tolto il velo di ipocrisia sullo scontro Iran-Paesi arabi del Golfo – hanno determinato una reazione più o meno scomposta nelle leadership dei paesi coinvolti.

La reazione principale è consistita — come è ovvio — nel tentare di limitare i danni continuando a perseguire i propri interessi.

A un certo punto si è capito che questi interessi erano più forti, molto più forti delle rivolte: vedi in Bahrain, in Siria, in Libia.

Il fatto è che con le rivolte gli interessi sono venuti allo scoperto definitivamente, così come sono venute allo scoperto le strategie di destabilizzazione o repressione messe in atto da chi questi interessi persegue.

L’Arabia Saudita ha tentato in tutti i modi di bloccare (o, a cose fatte, sfruttare) le rivolte, e se volete leggere qualcosa in merito ci sono questi due articoli (da 2 punti di vista diversi): How Saudi Arabia Inhibits Democracy and Progress in the Arab World e Saudi Arabia Defies Mideast Upheaval as Guardian of Status Quo.

L’Iran, che è una Repubblica islamica, ha cercato di far passare per “islamiche” delle rivolte che di islamico non avevano niente (senza riuscirci). Inoltre ha sguinzagliato i propri agenti in Bahrain e in Siria. Nel primo caso mescolandoli con i rivoltosi “in quanto sciiti” e nel secondo semplicemente aiutando al-Asad a fare la macelleria che sta facendo.

Il confronto diretto fra Sauditi e Iraniani si è verificato in Bahrain ed ha assunto i connotati del settarismo religioso. Questo schema, seguendo Jadaliyya, si riproduce oggi anche in Kuwait, dove non c’è alcuna rivolta ma una ampissima minoranza sciita (il 30%). La situazione che Mona Kareem descrive in Kuwait autorizza il conio di un nuovo termine: sciafobia, ossia “fobia per gli sciiti”.

Questa “sciafobia” si inquadra a sua volta nel concetto di “nuova guerra fredda” fra Iran e Arabia Saudita, coniato da Bill Spinder e Margaret Coker sul Wall Street Journal, un nuovo assetto in cui i due protagonisti regionali si armano fino ai denti e si fanno guerra “per interposta persona” sulla linea di frontiera che li divide (principalmente in Iraq).

E contemporaneamente fomentano quello scontro interconfessionale che — fra l’altro — il cavallo di battaglia di al-Qaida.

Ci sarebbe molto da dire sull’inappropriatezza di questa definizione* ma ciò di cui voglio discutere è il grande rimosso, e cioè che:

  1. questo nuovo assetto espropria i contenuti delle rivolte arabe e li mette al servizio degli interessi di entrambe le due potenze regionali;
  2. questo nuovo assetto, purtroppo, è avallato dalla comunità internazionale: è ciò che “i cervelloni che ci comandano” hanno pensato per noi.

Mi spiego, seguitemi.

In Bahrain l’eventuale successo della rivolta avrebbe determinato la nascita di un paese democratico a larga maggioranza sciita, la qual cosa non faceva piacere né all’Arabia Saudita (una democrazia confinante), né tantomeno all’Iran (un paese sciita arabo davvero democratico).

In Siria gli Iraniani aiutano, anche logisticamente, al-Asad nel reprimere la rivolta e i Sauditi stanno a guardare, senza batter ciglio, perché non sono assolutamente interessati a vedere una Siria democratica o libera.

In paesi come la Tunisia e l’Egitto, dove la rivolta ha avuto successo, gli Iraniani si limitano a inviare i propri osservatori (hanno poco appeal da quelle parti) e non fanno nulla contro l’attività saudita in quei paesi, almeno per adesso.

Ciò avviene perché Iran e Arabia Saudita nel nuovo contesto si giovano l’uno dell’altra, almeno per ora: scontrandosi, anche sul piano religioso, esistono.

E per scontrarsi come si deve devono essere gli unici due veri attori regionali in campo, per questo sono solidali nella repressione.

Ora. Se le rivolte nei paesi arabi sono radicalmente alternative a quello scontro-incontro — sono “naturalmente” sia antiraniane che antisaudite — la comunità internazionale parteggia per l’uno o per l’altro paese, creando una “frattura” fra partigiani dell’Iran e partigiani dell’Arabia Saudita che proprio non dovrebbe esserci perché in termini di libertà e democrazia, in termini di spazzatura che spargono sul pianeta, l’Iran e l’Arabia Saudita sono fra i paesi peggiori al mondo (peggio i sauditi, però).

Il grande rimosso del discorso del 19 maggio di Barack Obama è l’Arabia Saudita: non parlandone il Presidente americano ha di fatto preso posizione a suo favore in questa “nuova guerra fredda” che non dovrebbe esistere.

 

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[vedi nei commenti]

* Niente di meno appropriato dal punto di vista delle dimensioni dello scontro — la guerra fredda era globale, qui parliamo di un confronto regionale — e dal punto di vista della cronologia — il confronto fra Iran e paesi arabi del Golfo esiste da decine di anni, perché oggi dovremmo chiamarlo “guerra fredda?”.

Lorenzo DeclichIn 30 secondial-qaida,arabia saudita,bahrain,barack obama,egitto,iraq,kuwait,nuova guerra fredda,rivolta,rivolte,siria,tunisia
Chiamatela controrivoluzione, io preferisco chiamarla 'normalizzazione'. Quello che è certo è che le rivolte nei paesi arabi di questi mesi, associate anche alle rivelazioni di Wikileaks - che hanno tolto il velo di ipocrisia sullo scontro Iran-Paesi arabi del Golfo - hanno determinato una reazione più o meno scomposta nelle...