Inoltrandosi l’estate e sedimentandosi in me l’idea di mollare l’osso e cedere alla spirale del silenzio,  ho riflettuto su ciò che mi ha detto Jol a margine del panel che ha organizzato a Milano lo scorso giugno nel quadro del convegno annuale di Se.Sa.Mo, durante il quale ho conosciuto finalmente lei, Anna, Melone, Falecius e Roseau (più un loro amico molto originale).

Jol mi ha detto: non pubblicare il paper sul blog, te lo rubano, e io ho pensato:

  1. avere un blog è praticamente affermare una cosa come: “ruba quello che vuoi”;
  2. io sono open source. Il resto è monnezza.

Quindi pubblico il paper (in versione beta), anche perché ho ricevuto diversi messaggi di persone che volevano leggerlo.

Potete farci ciò che volete a patto di citarlo correttamente.

Il link da citare è questo: http://in30secondi.altervista.org/?p=11050

L’autore è Lorenzo Declich

Il testo va copiato e incollato senza apportare modifiche.

Se qualcuno ruberà l’idea o la struttura o qualcos’altro di questo testo senza farmelo sapere sappia che certamente mi fa un po’ pena (si consideri accarezzato sul capo come si fa con un cucciolo di cane) ma, non di meno dovrà considerarsi mandato a fare in culo (il buonismo mi fa vomitare).

Insomma, buona lettura — cari — e fatemi sapere: i blog sono tali perché permettono i commenti e non avrei aperto un blog se non avessi intenzione di confrontarmi con le idee e le osservazioni altrui.

Un ultima nota sul titolo del paper: è molto altisonante servendo come specchietto per le allodole per i mediorientalisti di Se.Sa.Mo. In realtà potrebbe avere come titolo una cosa del tipo: “Come ti mercifico l’islam”.

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Haram/halal : la riscrittura dell’identità musulmana nel nuovo mercato islamico

di Lorenzo Declich

Visto lo spirito dell’incontro ho scelto di presentare per grandi linee quella che a tutti gli effetti posso definire una ricerca in atto. Mi baserò su alcuni ragionamenti di base e su una casistica, necessariamente non esaustiva, che illustri tali ragionamenti, senza ricorrere  a  riferimenti a bibliografie specifiche, sebbene sia conscio che la tematica si inscriva nella più generale riflessione, anche accademica, sull’identità musulmana nel mondo contemporaneo. Intendo la mia presentazione, il cui tema ben poco affrontato in ambito orientalistico e non nei termini e con le metodologie che ho impostato, come un stimolo per ulteriori approfondimenti e spero — anche nel contesto del convegno — che sia foriera di un confronto fra idee.

Nell’introduzione inquadro il discorso del mercato di merci halal portando alcuni esempi paradossali (la scatoletta di “maiale halal”).  In Nutrizionismo e etichette halal spiego come il mercato del cibo halal opera, attraverso l’etichettatura, il passaggio da un sistema di alimentazione tradizionale, frutto di negoziazione comunitaria secolare, a un nuovo rapporto col cibo, fortemente “deculturato”: a decidere cosa mangiare non è più la comunità ma l’industria del cibo. A rendere halal un cibo non è più un muftì o, ancora meglio, la sacrosanta consuetudine di una comunità (la comunità dei credenti non si accorderà mai su un errore!). Il parallelo è con gli Stati Uniti alla fine degli anni ’70 dove avviene una cosa simile con l’introduzione delle etichettature dei cibi. In Cibo halal e mondo halalizzato: ragiono sull’introduzione del bollino halal, che comporta uno spostamento di senso nel mondo delle etichette. Non parliamo più solo di cibo: la certificazione di estende a tutte quelle merci che nel processo industriale sono prodotte o potrebbero essere prodotte mediante l’uso di sostanze proibite. I cosmetici “tradizionali” usano l’alcool, come molti medicinali, e quindi sono haram. I vaccini possono contenere proteine di maiale. Le produzioni tessili o di altro genere potrebbero essere “contaminate” e dunque anche queste vanno vagliate, ne va certificata la “purezza”. Tutte le merci, virtualmente, potrebbero portare un bollino halal perché questo certifica l’assenza di alcune sostanze, non la loro presenza o la presenza di alcune caratteristiche, come la provenienza geografica. Attorno alla “deculturazione gastronomica”, dunque, si struttura una “deculturazione tout court” guidata dal mercato. Ne Le guerre del mercato halal faccio alcuni esempi in cui spiego come il mercato halal obbedisca alle leggi mercato molto più che alle leggi dell’islam. E di come queste leggi del mercato passino sopra alle decisioni delle comunità musulmane locali. In L’identità musulmana e il mercato spiego come e perché tutti i processi illustrati in precedenza portano a una vera e propria riscrittura dell’identità musulmana e di come in essa vi siano, al contrario di quello che si vuol far credere, forti elementi ideologici e fortemente conservatori.

Introduzione

Nel 1991 sulle bancarelle di Tokyo trovai in vendita, a buon prezzo, delle scarpe da uomo in plastica. Erano scarpe “classiche”, riproducevano perfettamente la forma di una scarpa normale in cuoio nero con i lacci ma erano di un materiale che non poteva reggere l’uso quotidiano. Venti anni dopo mi sono trovato davanti a una scatoletta di carne di maiale cinese su cui era stampato un bollino che ne certificava l’edibilità in base a principi islamici, un bollino halal.

Da un punto di vista queste due cose ci raccontano di un medesimo fenomeno: la tendenza del mercato a truffare il consumatore. Da un altro ci illustrano due direzioni prese dal mercato nettamente distinte: lo sviluppo della gamma e quello dell’etichettatura.

Di fronte alle scarpe di plastica mi posi la domanda: ma davvero qualcuno compra queste “false scarpe”? Siamo davvero arrivati al punto che si trovano in commercio delle “non merci” travestite da merci vere?

Pensai subito alle perversioni cui può giungere il mercato, le cui leggi trasfigurano a tal punto il concetto di bene venduto da renderlo una non-merce: in quel caso non ero di fronte a un paio di scarpe, ma a un simulacro di un paio di scarpe.

Poco dopo, però, scoprii che i miei pensieri erano malevoli. Quelle scarpe avevano una funzione precisa, erano davvero una “merce in sé” seppure di un genere un po’ strano. Servivano in un caso specificissimo: quando un uomo giapponese “vestito da ufficio” deve uscire dal luogo di lavoro ma piove e non vuole rovinare le sue costosissime calzature, indossa le scarpe da uomo in plastica, salvaguardando insieme il suo look e le sue scarpe di cuoio.

Quelle scarpe facevano parte di una gamma pensata e predisposta per chi lavora in ufficio e vuole apparire un “uomo dalle scarpe di cuoio quando piove”. La stessa filosofia che c’è dietro a un negozio come Ikea, dove campeggia un claim del tipo: “chi l’ha detto che il design deve costare molti soldi”? E dove non ritroviamo da nessuna parte quello che definirei un doveroso sottotitolo: “se hai un’autovettura dal portapacchi gigantesco, riesci a montarti un armadio da solo e/o sei disposto a vederlo disfarsi nell’arco di qualche anno, avrai una casa che assomiglia vagamente a un oggetto di design”.

Questa idea di gamma al ribasso è molto facile da ritrovare oggi in tutti i grandi negozi monotematici, ad esempio quelli sportivi. In questi luoghi è possibile comprare l’intero set di attrezzi necessari a praticare un sport qualsiasi con pochi euro, a patto però che ci si abitui all’idea che quell’attrezzatura dovrà essere rinnovata in brevissimo tempo. Addirittura, ci sono scarpe da trekking su cui è indicato un “periodo di vita”, il suo “chilometraggio”. E trovi scarpe per il “tennis occasionale” e scarpe per il “tennis intensivo”. Queste merci funzionano solo in casi molto specifici, ma possono soddisfare l’aspirazione del consumatore a fare tutto o quasi (anche se male). Il consumatore è un “turista” del tennis, del golf, del design, così come apparentemente si può permettere di circolare con prezzolate scarpe di cuoio per le vie di Tokyo quando piove. E la cosa ha un ché di rassicurante, tutto sommato, non coinvolgendo l’identità e l’autostima del singolo più del tempo sufficiente a rendere inservibile la merce acquistata.

Percorso completamente diverso è quello che porta una scatoletta di carne di maiale a venire etichettata con una certificazione halal. Qui, paradossalmente, il consumatore di cibo halal che avesse fiducia incondizionata nel mercato potrebbe pensare che qualcuno ha inventato una carne di maiale “consentita dall’islam”. E chi pensa che quel consumatore sia un ingenuo — come si fa a togliere la maialità da un maiale? — tenga conto che vi sono attori di mercato del cibo halal che puntano alla produzione di “sostitutivi accettabili” alle bevande alcoliche e ai prodotti a base di maiale. Gli italiani di halal Italia, ad esempio, eliminano la “maialità” da prodotti tradizionalmente fatti con la carne di maiale: confezionano salami e prosciutti col bollino halal. Si tratta di prodotti con carni non suine capaci di avvicinare la “maialità” insita nei salami e nei prosciutti al target: persone che non mangiano maiale. Entriamo qui nel campo del feticismo consumistico, della merce “come forma”, di quella che Slavoj Žižek chiama “desostanzializzazione dei prodotti”: il caffé decaffeinato, la sigaretta senza nicotina ad esempio. Proprio la caratteristica dell’essere “merce in sé” rende il “primo prosecco halal“, di recente nascita nel Trevigiano [1], anche più attraente: si può goderne senza problemi in un contesto perfettamente islamico. Esattamente come la birra halal belga [2].

Operazioni di questo genere rendono molto meno scontata la risposta di un consumatore di cibo halal alla domanda “posso mangiare quella scatoletta di maiale halal?”, anche se qualcuno potrebbe opinare che le persone sanno ben distinguere i maiali (la carne di maiale) dai derivati dei maiali (i salumi). Aggiungo dunque, a benificio della riflessione, che a rendere ancora meno sicuro di sé e/o più attratto da una scatoletta di maiale halal il consumatore di cibo halal, interviene un certo scientismo nutrizionista, di cui è ormai permeata l’intera propaganda dell’industria alimentare mondiale.

Nutrizionismo e etichette halal

Come si è arrivati ad accordare fiducia a una confezione invece che a un alimento? La cosa ha come presupposto storico quella trasformazione “culturale” dell’alimento in “nutriente” che gli Stati Uniti hanno vissuto quando l’industria alimentare ha iniziato a produrre cibo artificiale etichettato. Il mondo delle etichettature nasce alla fine degli anni ’70 e va di pari passo con lo sviluppo dell’ideologia del nutrizionismo, in cui: “il postulato comunemente accettato ma non dimostrato è che la chiave della comprensione degli alimenti è il nutriente” [3]. Il processo di legificazione riguardante i cibi, in quegli anni, parte dal presupposto che le etichette debbano descrivere il cibo in base ai suoi “valori nutrizionali” (carboidrati, grassi, proteine, vitamine, fibre eccetera).

Si giunge così in breve ad alcune macroscopiche mistificazioni, principalmente dovute al fatto che sulle etichette non viene riportata, poiché non la si richiede e poiché non è oggettivamente possibile farlo, la natura del prodotto, né tanto meno la descrizione del ciclo produttivo cui è sottoposto. Ad esempio: la legge americana stabilisce che un hamburger è un pezzo di carne di bovino adulto macinata che contiene una certa quantità di grassi di bovino adulto, disinteressandosi del fatto che nella maggior parte degli hamburger industriali la porzione di carne magra appartiene a un bovino e la porzione di grasso a un altro bovino o a un numero imprecisato di altri bovini. Allo stesso modo la carne di pollo industriale può contenere tracce di maiale a causa di ciò che danno da mangiare ai polli — cioè pastoni che contengono parti di maiale inutilizzate e opportunamente triturate, ad esempio le ossa — e per il fatto che per gonfiare la carne di pollo la si immerge in un brodo di coltura pieno di proteine del maiale [4] o gli si inietta una polverina “al maiale” con cui si ottiene lo stesso risultato [5].

I “casi isolati” di polli contenenti “tracce di maiale” sono ormai così numerosi  — uno dei più recenti è la salsiccia di pollo francese halal al maiale [6] — che non è più lecito pensare al fenomeno come a una perversione del sistema di produzione dei polli: siamo a livello sistemico. Eppure non abbiamo molti strumenti per opporci: i “polllimaiali” continuano a essere tranquillamente descritti in base ai loro valori tradizionali e nessuno si ritirerà dal commercio se non si dimostrerà che il processo industriale di produzione di questi “cibi” provoca una qualche malattia.

Torniamo ora al dilemma della scatoletta di maiale certificata halal: se il consumatore, in presenza di polli “maializzati”, non ha altro modo che fidarsi del bollino halal per decidere se acquistare quel pollo, perché mai non dovrebbe fidarsi di quello stesso bollino di fronte a un pezzo di carne di maiale halal? Non sarà, forse, che lo descrivono come maiale ma maiale non è?

Avviene in un certo senso quello stesso processo di “deculturazione gastronomica” che gli Stati Uniti hanno vissuto dal momento in cui sul cibo sono apparse le etichette. Il consumatore americano abbandona la torta della nonna e tutto ciò che questo comporta in termini di “cultura del cibo”, inizia a mangiare in base ai consigli che le diverse “mode” dei nutrizionisti portano in voga: dieta mediterranea, dieta dissociata, zero carboidrati etc. Le “proprietà” del cibo che mangi (apporto calorico, i grassi polinsaturi, i vari generi di vitamina E ad esempio) diventano più importanti del cibo stesso, del modo in cui viene preparato e consumato. Sono le etichette a determinare ciò che è bene mangiare: la ratio delle diete tradizionali viene cancellata per sempre.

La internet è piena di siti che propongono ricette halal che sono il prodotto di un nuovo modo di concepire l’alimentazione per musulmani. Questo potrebbe a prima vista sembrare un arricchimento e forse per alcune categorie specifiche di persone — principalmente chi ama cucinare — ma alla lunga diviene una vera a e propria rimessa in discussione dei paradigmi alimentari tradizionali. Forse qualcuno ricorda ancora i libri di ricette della Knorr o della Liebig nei quali, alla fine, bisognava invariabilmente metter dentro il dado magico.

L’esempio forse più pregnante di “deculturazione gastronomica”, o se preferite di scippo delle proprie tradizionale modo di mangiare in favore di un nuovo paradigma basato sull’etichettatura, viene dal Pakistan, un paese in cui, fino ad ora, non era mai posto il problema del cibo halal, essendo musulmana la stragrande maggioranza della popolazione.

Lo scorso aprile Karachi ha dato il benestare per la nascita di una Regional Inspection & Certification Agency RI&CA, un’organizzazione pakistana privata che fornisce certificazioni halal in Pakistan e all’estero . La RI&CA fa parte di International Halal Integrity (IHI) — di stanza in Malesia –un’autority sulle merci halal riconosciuta dall’Organizzazione della Conferenza Islamica (OIC), la lobby economica a guida saudita con sede a Jedda. La RI&CA nasce sotto gli auspici  della Jamia Binoria Aalamia, un’università islamica pakistana e apre, anche, un nuovo settore professionale, con relativo percorso educativo, quello degli auditors competenti in Legge islamica e in specifiche tecniche ed etiche: queste persone dovranno dire “cosa sia halal e cosa non lo sia”. Gli standard sono quelli ICCI-IHI (la Islamic Chamber of Commerce and Industry della IHI).

Siamo di fronte a un’operazione di mercato tesa a far entrare il Pakistan, tramite un’agenzia privata, nel giro del commercio mondiale di cibo halal. Nella presentazione di RI&CA [7] si legge: “la Malesia ha 45 agenzie per la certificazione halal, l’Indonesia ne ha approvati 40 mentre i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo ne hanno 52. E il Pakistan?” e, in chiusura, si indicano “cibi sospettati” di non essere halal e che RI&CA promette di studiare per dare al consumatore la certezza che mangerà halal. Fra questi ci sono anche due varietà di cibo in uso in Pakistan da centinaia di anni (gutka e katakat) e che i pakistani, certamente, non percepiscono come haram.

Questa tabula rasa di un passato locale, con la sua identità, crea un mondo di merci “accettabili”  e identitarie su basi assolutamente aleatorie: l’industria del cibo halal immerge il consumatore in un universo di vaghezza e incertezza il cui unico punto fermo è rappresentato dalla fiducia che il consumatore stesso dà ai “padroni del vapore” quando appongono un’etichetta sul loro prodotto.

Cos’è un maiale alla fine del processo industriale che lo trasforma in cibo? E’ ancora un animale? E’ solo sua carne? E’ un insieme di proteine del maiale? O anche solo una parola? Un’etichetta?

Questo ulteriore elemento, se rende sospettosa una piccola fetta di mercato — quella che, in senso lato, è addestrata a guardare gli occhi di un pesce o a palpeggiare una pesca –, deresponsabilizza il consumatore medio nel mondo globalizzato il quale, a un certo punto, dirà semplicemente: “se c’è il bollino lo posso mangiare”, pacificandosi fra l’altro nell’idea che non sia sua la colpa se ha ingerito del maiale o meno, e forse crogiolandosene.

Parallelamente a decidere cosa mangiare non è più la comunità locale dei credenti ma l’industria del cibo halal. A rendere halal un cibo non è più un muftì o, ancora meglio, la sacrosanta consuetudine di una comunità. Alla “comunità dei credenti” che “non si accorderà mai su un errore” si sostituiscono un numero imprecisato di persone pagate per dire se un cibo funziona o meno. Con tutti i rischi del caso.

Cibo halal e mondo halalizzato

La certificazione halal, che ha un precedente (con molto meno mercato) nella certificazione kosher, sancisce insomma lo spostamento della produzione di cibo dall’artigianale all’industriale in un contesto globalizzato. Al dispositivo di controllo delle comunità sugli alimenti, che tradizionalmente nell’islam si traduce in consuetudini alimentari locali, si sostituisce il controllo del processo produttivo della merce-cibo per stabilirne “l’islamicità”. Al macellaio musulmano di quartiere si sostituisce il Kentucky Fried Chicken.

Ma la “strategia del bollino halal” non si limita al cibo e per capirne più a fondo le implicazioni dobbiamo compiere una breve analisi sulla natura dei bollini. Ci sono diversi generi di bollino. Certificano qualità di tipo dietologico (cibo aproteico, senza glutine etc.), aree di provenienza (docg ad es.), un processo industriale specifico (il biologico) o l’adesione a un qualche codice di autoregolamentazione (AIAB). Ma cosa certifica il bollino halal? Identifica prodotti “islamicamente corretti” ovvero prodotti che:

  • non contengono sostanze proibite (haram) dall’islam;
  • sono trattati “islamicamente”.

Le sostanze proibite sono principalmente la carne di maiale e qualsiasi prodotto fermentato. Come indicato nella presentazione prima citata parliamo in ultima istanza di:

  • carne di maiale
  • grassi
  • gelatine
  • alcool
  • additivi (coloranti, aromi, sali, conservanti)

L’”islamicità” dei prodotti invece viene assicurata di ultima analisi agendo di due direzioni:

  • nel caso delle carni con una macellazione che segua le ritualità e le modalità prescritte;
  • in tutti gli altri casi con l’istituzione di organismi nazionali e internazionali e/o con personale dipendente preposto a stabilire che i prodotti non siano resi “impuri”.

L’introduzione del bollino halal comporta uno spostamento di senso nel mondo delle etichette: la certificazione – nata per i cibi — si estende a tutte quelle merci che nel processo industriale sono prodotte o potrebbero essere prodotte mediante l’uso di sostanze proibite. I cosmetici “tradizionali”, ad esempio, usano l’alcool, come molti medicinali, e quindi sono haram. I vaccini possono contenere proteine del maiale. Le produzioni tessili o di altro genere potrebbero essere “contaminate” e dunque anche queste vanno vagliate, ne va certificata la “purezza”.

Tutte le merci, virtualmente, potrebbero portare un bollino halal perché questo certifica l’assenza di alcune sostanze, non la loro presenza o la presenza di alcune caratteristiche, come la provenienza geografica. Se il bollino “senza glutine”, ad esempio, identifica prodotti che contengono sostanze sostitutive del glutine ma non può essere apposto su una confezione di riso, che in natura non contiene glutine, il bollino halal può essere apposto su qualsiasi confezione di qualsiasi merce.

Attorno alla “deculturazione gastronomica”, dunque, si struttura una “deculturazione tout court” guidata dal mercato o, se preferite, da trovate di mercato. E non mancano in esso — come vedremo — vere e proprie guerre commerciali, condotte a colpi di spionaggio industriale o scandali mediatici.

Per capirne la portata cito da un video diffuso su Youtube dal World Halal Forum, una delle maggiori agenzie internazionali del businnes del bollino halal che si pone anche e soprattutto come garante dell’islamicità dell’industria halal e sponsorizzata da grandi marchi internazionali:

Halal è una “antica guida su come la vita dovrebbe essere vissuta”.

Una guida in cui si spiega come il cibo deve essere trattato, quali vestiti bisogna indossare, come le medicine devono essere preparate, come il commercio deve essere organizzato e la condotta nelle relazioni personali e sociali.

Halal è un modo di vivere per più di un miliardo di musulmani che vivono in 148 paesi

In termini di businnes questa è una considerevole consumer base [8]

Ecco i settori merceologici e i servizi messi in lista nel video oltre a quello del cibo:

  • farmacologico
  • cosmetico
  • toiletries
  • banking
  • assicurazioni
  • logistica
  • hospitality
  • industria medica

Ci fermiamo qui, senza specificare ulteriormente come l banking, assicurazioni e logistica rientrino nella descrizione del “mondo halal” fatta dagli organizzatori del World Halal Forum: basti qui accennare all’esistenza della cosiddetta  “finanza islamica”, che non è oggetto di questa trattazione e meriterebbe un discorso a parte rappresentando il secondo corno — quello più prettamente politico — dell’intera questione.

È necessario però rilevare che questo “treno” di merci di cui parliamo ha intorno a sé una quantità di altri prodotti e servizi altrettanto se non di più “identitari”, per fare alcuni esempi coloriti il mihrab portatile e il tappetino-imam che ti dice se hai fatto bene la preghiera o il software “islamico” per gli orari di preghiera o per individuare la moschea più vicina.

La halalizzazione del mondo giunge fino alle agenzie di advertising [9] la cui doppia funzione è assicurarsi che le pubblicità di un prodotto abbiano contenuti “compatibili con l’islam” e mettere in comunicazione  gli inserzionisti con il “mercato islamico”.

Si tratta, in tutti questi casi, di prodotti indirizzati alla nascente borghesia musulmana globalizzata, la categoria di consumatori che gli attori del mercato islamico individuano come loro principale obiettivo di mercato nel breve e medio termine e che includono nella categoria degli stakeholders del mercato islamico.

Mercato halal e mercato tout court

Torniamo ora alle comunità dei musulmani e al loro rapporto col mercato islamico globalizzato. Qui di seguito farò una serie di esempi per dimostrare che il “mercato islamico”, nonostante abbia una serie di organismi di certificazione nazionali o privati che garantiscono l’islamicità dei prodotti, obbedisce prima di tutto a regole che con l’islam hanno poco a che vedere: le regole del mercato. E che gli organismi di certificazione, lungi dal dettare le regole, si adattano a quelle regole, passando spesso sopra alle consuetudini delle comunità musulmane locali o assecondando le richieste del mercato senza curarsi dell’islamicità “profonda” dell’operazione.

– Carne viva vs carne morta. Nei paesi islamici la garanzia che una carne sia davvero halal passa per la sua macellazione. Di conseguenza, specialmente nei periodi in cui c’è più richiesta di carne, ad esempio durante il mese di Ramadan, questi paesi importano animali vivi da macellare.

Questa dinamica coinvolge paesi esportatori, come ad esempio l’Australia, che in questo caso non hanno il problema di certificare la loro carne col bollino halal: la carne viva non è haram (o perlomeno non dovrebbe esserlo). Ma la domanda è spesso superiore all’offerta proprio in quei paesi dove è più avanzato quel processo di inclusione nel mondo del consumo di fasce di popolazione sempre più ampie: gli stakeholders cui si accennava prima.

Tom Hanratty del Gulf Daily News [10] in riferimento all’import di pecore vive nel Bahrain, scriveva lo scorso agosto che il 95% di questa merce proviene dall’Australia e che durante il Ramadan la stessa scarseggia perché la domanda si innalza più o meno del 60%. Ricordava, però, che a questo punto era intervenuto il responsabile del Bahrain Livestock, Ibrahim Zainal, affermando che era stato deciso di importare carne congelata: “non abbiamo alternative — dichiarava — se non importare carne congelata: la domanda del Bahrain è di animali vivi trasportati in loco e macellati qui, ma la carne congelata è la seconda opzione”. Fin qui possiamo dire che il responsabile si attiene a regole di buon senso, anche se si potrebbe osservare che in un mondo non globalizzato il Bahrein avrebbe fatto a meno per forza di cose dell’importazione così massiccia di animali vivi: siamo dunque proprio in un contesto di mercato islamico “avanzato” dove

Si potrebbe anche osservare che in questo caso non si pongono problemi di tipo animalista nel senso che il commercio di animali vivi è saturo, non viene fermato perché questi animali soffrono durante il trasporto dall’Australia a Bahrain. L’osservazione ci tornerà utile più avanti, qui invece è interessante andare avanti nella lettura dell’articolo per scoprire che l’iniziale dimostrazione di pietà islamica del responsabile del Bahrain Livestock diviene progressivamente entusiasmo per ciò che potrebbe voler dire a livello economico e commerciale abbattere il tabù della carne morta durante il Ramadan e anche negli altri periodi dell’anno: “abbiamo provato diversi tipi di carne surgelata nei mesi scorsi … ciò che abbiamo pensato è che la carne congelata di dà maggiore flessibilità … quest’anno è andata alla grande perché il Governo ha aggiunto la carne surgelata nella lista dei cibi sussidiati … in totale importeremo quest’anno 110.000 pecore per il Ramadan contro alle 90.000 dell’anno scorso … in mesi normali ne importiamo normalmente 70.000”.

Tutta questa operazione, che apre un nuovo capitolo nel commercio delle carni, implica però due fondamentali elementi, l’una che riguarda la forma del mercato, l’altra la forma della comunità cui il mercato si rivolge. Nelle parole di Zainal “ogni singola consegna di carne che arrivi in Bahrein deve essere accompagnata dalla certificazione delle autorità islamiche che confermi che il contenuto è halal, altrimenti la merce verrà mandata indietro”. Il mercato della carne, dunque, si halalizza nel senso che necessita del bollino. Contemporaneamente La comunità musulmana del Bahrain smetterà col tempo di sacrificare gli animali durante le feste.

La “pudicizia” di Zainal, scopriamo, è molto simile a ciò che potremmo definire “bigotta ipocrisia”  perché l’andamento positivo del mercato della carne surgelata è, nell’agosto del 2010, un fatto assolutamente consolidato. Un articolo del 15 febbraio 2009 — un anno e mezzo prima – a firma Clover Moore, sindaco di Sidney [11] affermava ad esempio che i maggiori importatori di animali vivi dimostravano sempre minor interesse per questo tipo di merce. I giovani di quei paesi, che sono la stragrande maggioranza della popolazione, infatti, preferiscono andare al supermercato e comprare carne surgelata: in paesi come il Bahrein, l’Oman, il Kuwayt, l’Arabia Saudita, gli Emirati, il Qatar già il 70% della carne veniva già smerciata così. Conclusione: smettere di esportare carne viva e fare un’operazione di lobbying perché i paesi importatori abolissero la tassa del 5% sulle pecore surgelate.

Insomma, tutto fa pensare che ciò che interessava più di ogni altra cosa agli ufficiali del Bahrain fosse garantire uno spazio politico-economico ai certificatori halal, stabilito il fatto che ormai ai giovani del Bahrain non interessa più uccidere da sé gli animali. Dall’altra parte il respiro animalista — diremmo un’ipocrisia incrociata — aleggiava nelle parole del sindaco di Sidney, il cui intervento sul giornale on-line Halal Focus, esordiva con una lunghissima invettiva contro la pratica — inumana — di trasportare animali vivi da un capo all’altro del mondo, una pratica di cui probabilmente non si sarebbe mai sognato di parlare se il corrispondente mercato non fosse in calo.

Il caso del Bahrain è quello di un mercato ampiamente sviluppato, altre aree non sono così ma, nell’ottica degli stakeholders globali questo apre nuovi orizzonti a tutti…

– Animali storditi, animali non storditi. Pratiche umane e inumane. Un altro esempio decisamente pregnante di guerra commerciale riguarda la discussione sul modo di macellare gli animali e il fatto che la macellazione stia diventando un arma commerciale in barba alle decisioni prese dalle singole comunità di musulmani.

Soprattutto in Europa diverse comunità musulmane hanno negoziato nel tempo un compromesso con le autorità per venire incontro a quanto stabilito nelle leggi statali e/o locali in materia di macellazione. Poiché l’uccisione per dissanguamento viene considerata “inumana” si procede, prima del dissanguamento, a uno stordimento, che renderebbe l’animale non cosciente di quello che gli sta accadendo.

Al di là delle considerazioni che si possono fare sull’argomento è interessante notare che questo punto dello “stordimento” sia stato negli ultimi tempi messo in discussione da entità esterne alle comunità musulmane che lo hanno invece portato avanti.

In Inghilterra, ad esempio, è nata Unstunnedhalal [12], una campagna portata avanti da alcuni musulmani che a vario titolo fungono da collegamento fra la comunità musulmana inglese e le autorità di quel paese il cui obiettivo è promuovere la vera carne halal che, sostengono, non deve essere prodotta dopo stordimento. Questo pensiero, condivisibile o meno che sia, è lo stesso portato avanti dalle autorità malesi per chiudere le importazioni di polli dall’Olanda. L’autorità malese per le certificazioni halal considera infatti haram la pratica dello stordimento affermando: “nessuno che abbia l’autorità di certificare la carne come halal e che prende si prende seriamente le sue responsabilità  di musulmano accetterebbe questa carne come halal” [13].

Si prefigura, insomma, una guerra commerciale in nome di una più o meno reale “islamicità” del processo di macellazione, una guerra a colpi di campagne pubblicitarie in cui le industrie alimentari che macellano la loro carne senza stordimento affermano di essere le uniche entità a poter commercializzare quel prodotto con un bollino halal. E tutto questo a dispetto del principio secondo cui sono le comunità musulmane stesse, in base alle consuetudini che loro stesse hanno negoziato, a determinare questo genere di cose.

– L’approccio malese. La Malesia, insieme all’Indonesia, è il paese che più di tutti ha spinto verso questo capitalismo halal, un islam di mercato in cui la certificazione dei prodotti come “compatibili con i precetti dell’islam” diventa un interruttore di inclusione/esclusione fondamentale. La situazione è portata al paradosso, come afferma il blogger di “North Borneo Herald” in post del 21 dicembre 2010 dal titolo “In Malesia solo i soldi non necessitano di un certificato halal

Cosa sta diventando la Malesia? L’incubo si sta evolvendo, chi ne viene catturato sono principalmente i non-musulmani e forse le multinazionali che operano in Malesia.

E’ così triste, è una terribile tragedia economica e commerciale vedere un imprenditore onesto che lavora con dedizione come Lei alle prese con questo genere di regole nel businness del cibo.

E deve essere stato altrettanto orribile e finanziariamente disastroso il fatto che l’industria “Sliverbird” di Dato Jackson sia stata costretta a chiudere in queste strazianti circostanze.

So anche che i ristoranti di IKEA hanno dovuto chiudere a causa del cosiddetto problema riguardante la presunta certificazione halal del cibo.

Possa la misericordia e la compassione di Dio Altissimo posarsi sulla Malesia!

Che Dio aiuti questo paese!

Dr. Martin

La Montatura Halal che sta prendendo piede nel nostro paese costringerà molti attori coinvolti nella produzione e distribuzione di cibo a chiudere l’attività. Il JAKIM (il Dipartimento dello Sviluppo Islamico, un ente governativo malesiano) ha lottato a suo modo per avere il monopolio dei certificati halal. Nell’aprile del 2011 il Halal Act passerà in parlamento: solo il JAKIM potrà emanare i certificati.

Ogni certificato costa intorno ai 1000 Ringgit [320 dollari ca.] e con 2000 articoli venduti dalla mia compagnia io dovrò tirare fuori 2.000.000 di Ringgit [641.173 dollari ca.], sempre che io sia fortunato nell’ottenere l’approvazione per tutti gli articoli. Potrei chiudere il mio businnes o ridimensionare l’organico di 60 lavoratori fissi e 100 dipendenti saltuari.

Con questo il Governo perderà più o meno 800.000 Ringgit [256.469 dollari ca.] in tasse e versamenti. Lo standard del cibo declinerà perché gli chef avranno meno ingredienti con cui lavorare. Le procedure halal faranno aumentare il costo del cibo di un 10%. Al JAKIM non interessa l’economia del paese. Si interessa solo della sua ciotola di riso: vuole far vedere di avere importanza e di essere visto come un ente che lavora bene.

Guardate a come hanno fatto chiudere IKEA per due settimane. Guardate a come hanno fatto chiudere Silverbird a Nilai. A loro non interessa nulla dello sviluppo del businnes in questo paese.

Anche l’acqua minerale ha un logo halal. Alla fine tutti gli ortaggi, il pesce, il grano, il riso ecc. avranno bisogno di un logo halal. Alla fine tutti i musulmani non toccheranno tutti i non musulmani se lasceremo diffondere la febbre del halal. Nemmeno l’Arabia Saudita è severa come il JAKIM. Ho fornitori che possono vendere in Arabia Saudita ma non in Malesia.

L’80% dell’industria alimentare è gestita da non-malesi. Uno dei criteri per ottenere il certificato halal per i ristoranti è di impiegare musulmani malesi. Se non hai un qualche musulmano malese nel tuo ristorante non avrai il certificato halal. Dove ci porterà tutto questo????

Nota dell’editor:
Il pezzo qua sopra è circolato dapprima via e-mail. Il Nort Borneo Herald non ne è autore. Tuttavia abbiamo deciso che questo e-mail doveva essere condiviso con i lettori [14]

Identità musulmana e mercato

Come afferma Slavoj Žižek tutto congiura, in questo nostro mondo, affinché pensiamo che quella che viviamo sia una condizione “naturale”. Le leggi del mercato, il vero o supposto antagonismo fra prodotti, la concorrenza, sono “ciò che naturalmente avviene in assenza di condizionamenti ideologici”. Niente di più sbagliato: il mercato globale è quanto di più ideologico ci sia, e non basta la leggenda di vhs che vince contro betamax a dirci che “un prodotto vince su un altro in base a regole che in fondo non conosciamo perché sono insite nella natura umana”. Sappiamo infatti che il mercato si orienta sulla domanda ma che, anche, la orienta a sua volta.

Nella maggior parte dei casi il mercato viene creato, non è una semplice risposta — magari intelligente — a una domanda già esistente. Il risultato è che io insieme a un’autovettura acquisto una serie di tecnologie e di transazioni economiche che non mi servono e che non desideravo comprare. E un giorno mi rendo conto che senza telefonino “non posso vivere”, convincendomi che averne uno è un fatto del tutto naturale.

Il caso del mercato islamico è un esempio ancora più evidente perché il mercato halal — ho portato diversi esempi al riguardo — è un costrutto ideologico evidentissimo laddove vi è una storia millenaria alle spalle che ne ha fatto tranquillamente a meno. E non deve ingannare l’idea — anch’essa di natura ideologica — che “il mondo globalizzato” ha portato “naturalmente” i musulmani a chiedersi come fare per condurre una vita in linea con i dettami dell’islam e dunque a creare un “mercato globale di prodotti islamici”. Il disagio per non veder soddisfatte le proprie esigenze “di musulmano” è infatti riscontrabile, all’oggi, solo in alcune comunità di musulmani dove è in crescita una certa “borghesia” musulmana.

Le grandi agenzie di marketing, invece, parlano di un mercato che “virtualmente” raggiungerebbe l’intera popolazione musulmana mondiale, immaginano che un pastore yemenita, un agricoltore del Delta, un fattorino di Karachi avranno a un certo punto “bisogno” di avere cibo, vestiti, vaccini halal.

E come abbiamo visto nel caso del Pakistan si sta passando dal virtuale al reale molto rapidamente, operando una desostanzializzazione dei prodotti e, più in generale, una deculturazione dell’islam tradizionale in favore di un mondo halalizzato il cui unico vero referente identitario diventa il mercato.

Come osserva di nuovo Žižek in Dalla tragedia alla farsa:

Il capitalismo è il primo ordine socio-economico che de-totalizza il significato: non è globale in quanto a significato (non c’è una “concezione del mondo capitalista” globale. non c’è una “civiltà capitalista” in senso proprio; la lezione fondamentale della globalizzazione è precisamente che il capitalismo può adattarsi a ogni civiltà, da quella cristiana a quella induista o buddista). La dimensione globale del capitalismo può essere formulata solo in quanto a verità-senza-significato, il “Reale” del meccanismo di mercato globale. Il problema qui non è, come afferma Sorman, che la realtà è sempre imperfetta e che le persone hanno sempre bisogno di vagheggiare una perfezione impossibile. Il problema è il significato, ed è qui che la religione sta ora reinventando il suo ruolo, riscoprendo la sua missione di garantire una vita dotata di senso a coloro che prendono parte al funzionamento privo di senso della macchina capitalista [15].

Ma cos’è l’islam in un mondo in cui l’identità dei musulmani va sempre più schiacciandosi e identificandosi su cosa e come i musulmani consumano? Intuitivamente verrebbe da dire che l’islam si dissolve nel mercato perché, come è evidente non solo nel caso delle regole alimentari, le prescrizioni coraniche presuppongono e fondano una comunità e senza una comunità dei credenti che si confronta continuamente con se stessa e con il suo “altro”, l’islam è soltanto una serie (quasi infinita, se volessimo essere letteralisti) di regole. Anzi l’islam è di norma la testimonianza pubblica di sé mentre il mercato è di per sé qualcosa che con la comunità ha poco o niente a che vedere anzi, incentiva in diverse forme a rendere privata e individuale una esperienza qualsivoglia.

A un secondo sguardo, e forti delle osservazioni di Žižek scopriamo che a dissolversi è solo il suo legame col passato. L’islam come polo di identità rimane, anzi si rafforza, costituendo mercato globale halal in una direzione che, ex-post, potremmo definire in qualche modo “post-salafita”: salafita perché invoca un “purismo” che investe tutte le fasi della propria esistenza fino al parossismo e senza più alcun legame con una comunità di riferimento. “Post” perché questo purismo è solo immaginato e di volta in volta “ricostruito” in base alle regole del mercato.

Note

[1] 20 giugno 2010, http://blog.gamberorosso.it/kelablu/2010/06/dubai_arriva_il_prosecco_senza_alcol.html

[2] 24 febbraio 2011, http://islamineurope.blogspot.com/2011/02/belgium-halal-beer.html

[3] Michael Pollan, In difesa del cibo, Adelphi: Milano, 2009, p. 38.

[4] 22 maggio 2003, http://news.bbc.co.uk/2/hi/programmes/panorama/3047159.stm

[5] 5 giugno 2009, http://www.dailyrecord.co.uk/news/uk-world-news/2009/06/05/revealed-chicken-nuggets-contain-pork-86908-21416523/

[6] 13 febbraio 2011, http://www.time.com/time/world/article/0,8599,2048589,00.html

[7] http://www.docstoc.com/docs/72369566/Presentation-on-Halal-Food-Certification

[8] 16 dicembre 2009, http://www.youtube.com/watch?v=QuhmTfI_XYE&

[9] Due esempi sul web: http://www.halalads.net, http://www.muslimadnetwork.com/

[10] 7 agosto 2010, http://www.gulf-daily-news.com/NewsDetails.aspx?storyid=284098

[11] 15 febbraio 2009, http://halalfocus.net/2009/12/15/why-we-must-ban-export-of-live-sheep/

[12] http://www.unstunnedhalal.com

[13] 25 maggio 2011, http://www.dutchnews.nl/news/archives/2011/05/malaya_halts_dutch_halal_meat.php

[14] 12 dicembre 2010, http://northborneoherald.blogspot.com/2010/12/in-malaysia-only-money-does-not-need-to.html

[15] Slavoj Žižek, Dalla tragedia alla farsa. Ideologia della crisi e superamento del capitalismo, Ponte alle Grazie: Milano, 2010, p. 123.

 

 

Lorenzo DeclichFuori misuraIslamercatocarne halal,europa,globalizzazione,halal,haram,islam,lorenzo declich,slavoj zizek
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