Dall’inizio del 2011, annus mirabilis, si sono verificati in molti paesi arabi rivolgimenti politici di carattere, spesso, rivoluzionario.

Questi fenomeni non hanno riguardato solo i paesi arabi, si pensi al Senegal, o alle rivolte, sicuramente meno “radicali” negli esiti, in Grecia e Spagna, alla nascita di un massiccio movimento studentesco in Cile, e a tutti i movimenti di protesta rispetto alle direttive, tendenzialmente super-neoliberiste, usate per uscire dalla crisi causata dalla finanza e dall’economia neo-liberista.

Effettivamente però le rivolte nel mondo arabo rappresentano qualcosa di “particolare”, per forza, capacità di rovesciare governi, complessità, cause economiche, lotte di lungo e medio periodo contro regimi oppressivi.
Inoltre evidenziano con forza il ruolo di nuovi e vecchi media (da twitter a le TV panarabe), ed un effervescente diversità di vedute e di tattiche tra i gruppi rivoluzionari (laici vs religiosi è una semplificazione brutale, ma tutto sommato reale).

Questo ciclo di rivoluzioni è cominciata in Tunisia, con un suicidio, un gesto di somma disperazione e, contemporaneamente, di violenza autoinflitta.

È proseguito, in Egitto, in Bahrain, in Siria, in Marocco, nella stessa Tunisia, ma anche, parzialmente, in paesi complessi come lo Yemen, essenzialmente come movimento non violento, popolare ma nato in ambienti intellettuali, fortemente connotato a livello generazionale, ma capace poi di contaminarsi con tutte le generazioni e di incontrare (condizionandoli però) anche i movimenti dell’islam politico, che inizialmente erano fortemente contrari, o quantomeno perplessi, di fronte alle rivolte.

In altri lidi, come in Oman (ma anche Giordania, Algeria…) , la primavera è cominciata presto (17 gennaio), ma, spero di sbagliarmi, è già finita.

In molte di queste rivolte, sopratutto in Tunisia, Bahrain ed Egitto, il ruolo delle donne è stato tutt’altro che trascurabile.
Anche il movimento saudita Women2Drive andrebbe inserito in quest’ottica di attivismo.
Inoltre l’ispirazione pratica (ma non quella ideologica!) delle rivolte è stata trovata nei movimenti dell’est Europa e dell’Iran, noti come “rivoluzioni colorate”, e nelle teorie strategiche del teorico non violento Gene Sharp.

Ideologicamente, invece, trovavamo movimenti chiaramente socialisti o, più genericamente, di sinistra (come i sindacati egiziani), accanto a movimenti più liberal-democratici, che, se letti con una chiave interpretativa eurocentrica (ed un po’ marxista), sembrerebbero tendenti ad una rivoluzione borghese. Comunque si è trattato più di movimenti che di partiti, quindi la loro ideologia appare magmatica.

Poi, ma solo in un secondo momento, sono arrivati gli esponenti dell’islam politico, degli orientamenti più vari. In un certo senso, forze egemoni della società, i Fratelli Musulmani egiziani hanno approfittato della rivoluzione, che altri avevano cominciato.

Punto nodale di buona parte di queste rivoluzioni era la fine del senso di paura interno alla società; ovvero la repressione, la polizia, il carcere, il sistema, il tiranno, non facevano più paura a migliaia di persone.

Questo valeva sopratutto per quella minoranza rumorosa e parzialmente organizzata che è alla base di tutte le rivoluzioni, dai tempi dei giacobini. Una minoranza (ma forse maggioritaria tra le giovani generazioni) che ora poteva fare massa critica.

Ad un certo punto, a febbraio-marzo, la cosiddetta “primavera araba” era sembrata un insieme di movimenti inarrestabili, che avrebbero distrutto tutti i regimi dispotici della regione compresa tra il Marocco e l’Iran.
E che non sarebbe stato possibile placare con un po’ di riforme cosmetiche.

Certo già questa analisi era erronea, ogni stato aveva le sue peculiari condizioni politiche, i suoi equilibri, le sue forze in campo, il suo tipo di crisi, il suo retroterra culturale. Inoltre alcune dittature (o dictablande) erano meno repressive (ad esempio Tunisia, Egitto, Marocco), altre più capaci di reprimere il dissenso, con un controllo pervasivo sulla società e le informazioni (ad esempio, Algeria, Libia, Siria), altri stati, inoltre, avvertivano meno le conseguenze della crisi ed avevano società politicamente più chiuse (ad esempio le monarchie del Golfo).

Poi, da un lato, è cominciata la guerra di Libia, mentre, dall’altro, le monarchie del golfo si sono mosse, talvolta per appoggiare parti del movimento rivoluzionario (che un po’ le aveva prese di sorpresa), talvolta per reprimerlo pesantemente (Baharain docet), oppure per indirizzarlo secondo prevedibili binari geopolitici e tradizionali ingerenze (Yemen, dove un piccolissimo movimento rivoluzionario è stato trasformato in un colpo di stato a forte rischio di degenerare in una guerra civile).

Da allora il gioco si è fatto differente.
Ovunque.
E la guerra civile libica potrebbe non avere un ruolo marginale in tutto ciò.

Anzi molto più importante, a livello della cultura di massa, degli sforzi contemporanei di molti imprenditori, membri del FMI, o delle cancellerie occidentali, per depotenziare il valore eversivo di queste rivolte verso l’ordine economico mondiale.

Infatti, grazie all’esempio libico la violenza non è più stata un tabù, la guerra civile è diventata una possibilità.
E la guerra civile fa paura. Molta più paura di quanto possa fare la repressione.
Tiene la gente lontana dalle piazze, sconsiglia la partecipazione.
Richiede specialisti e persone con il pelo sullo stomaco.

A mio avviso la guerra di Libia ha cambiato tutte le carte in tavola, ed ha, involontariamente, ucciso “la/le rivoluzione/i”.
O almeno l’ha cambiata radicalmente.

Il protagonista non è più il movimento non violento, il blogger, il giovane laureato disoccupato, il diplomato precario, il ragazzo delle periferie cui la corruzione del regime sta rubando il futuro e l’istruzione.
E sopratutto non è più l’elemento femminile.

Il protagonista è il giovane mujāhidīn, (non inteso in senso necessariamente religioso).
Il combattente con il suo AK-47, pronto all’estremo sacrificio contro la dittatura ed eroe popolare.
Il combattente che, senza pietà, distrugge il vecchio ordine conosciuto per costruirne uno nuovo.
Il virile figlio delle campagne che sa soffrire in silenzio ed in silenzio uccidere.

Si è ripristinata un’epica tradizionale della rivolta, maschile, machista, aggressiva, fatta di avanguardie radicali, di piccoli gruppi (“brigate”) fortemente coese al loro interno.

Un’epica del sangue, della violenza (rivoluzionaria), della vendetta e della giustizia (rivoluzionaria).
Un’epica per uomini duri e puri.
Combattenti. Eroi.

Mentre i regimi facevano fatica a battere la lotta non violenta, specie se prolungata nel tempo, determinata e che coinvolge i giovani lavoratori della conscenza (la cosiddetta “classe dirigente in formazione” o “di riserva” che dir si voglia), sembrano molto più preparati per affrontare questa nuova epica.

Sanno anche che una protesta di 1000 giovani in piazza può essere dirompente, perché reprimerla può essere controproducente quanto lasciarla crescere; mentre per massacrare 1000 mujāhidīn male armati basta una brigata di regolari.

E se da qualche parte si spara, si spara dappertutto, i combattimenti in una località possono giustificare la militarizzazione della repressione in tutta la nazione.

Oltre tutto il terrore di una guerra inter confessionale tiene in piedi il regime degli Asad ancora meglio della polizia.

Il modello libico, inoltre, contiene un altro grosso problema. Un frutto avvelenato.

I rivoluzionari egiziani hanno cominciato a lottare da soli, al massimo aiutati da contatti informali con organizzazioni euro-americane (già coinvolte nelle rivoluzioni colorate), ma senza godere dell’appoggio di alcun governo.
Era la loro rivoluzione, che riesca o che fallisca rimane la loro rivoluzione.

I rivoluzionari libici hanno invece dovuto fare i conti con la guerra, e quindi hanno avuto bisogno di appoggio internazionale, ottenendolo sia dall’Europa (ed un po’ dagli USA), sia dalle monarchie del Golfo.
Prima, al massimo, erano i dittatori che internazionalizzavano la repressione, chiedendo aiuto ai loro alleati regionali (anche a livello di tattiche, si pensi ad Iran e Siria), o disperandosi quando ne ottenevano poco o nulla (l’Egitto dagli USA).

Inoltre la loro guerra è durata a lungo, molto a lungo, e ancora non è riuscita a “cacciare del tutto” il tiranno. Che poi è l’unico risultato raggiunto al 100% nelle rivoluzioni egiziane e tunisine.

Questa internazionalizzazione politico-diplomatica potrebbe aver fatto molo male alle rivoluzioni.
Oltre tutto potrebbe creare l’illusione che altri risolveranno i nostri problemi, e peggio ancora, che altri li risolveranno per noi senza chiedere nulla in cambio.

Per questo io ero contentissimo del silenzio di Frattini o della Ashton a gennaio-marzo, ero contentissimo che l’Europa non avesse una posizione sulle rivoluzioni, e se ne tenesse sospettosamente alla larga.

Tramite la guerra e la violenza le monarchie del golfo, con il loro denaro e i loro eserciti, possono intervenire molto meglio nei fatti altrui, depotenziando alcune parti del movimento rivoluzionario, rinforzando le forze “di destra” delle rivolte.
O anche, se fosse il caso, mettendo i carri armati nelle piazze.

Inoltre la guerra in Libia aumenta il peso dell’esercito in Egitto, aumenta le preoccupazioni che possa scoppiare una guerra se non si tiene il paese con un pugno di ferro. Meglio il pugno di ferro della guerra, no?

Aumenta anche il numero di prigionieri politici nelle carceri egiziane, almeno quelli processati da tribunali militari sono più oggi che uno, due o dieci anni fa.
Prigionieri politici che, in genere, sono i veri rivoluzionari (e le vere rivoluzionarie, visto che lì c’erano parecchie ragazze).

Non c’è nulla come una bella guerra per far trionfare la contro rivoluzione, o far diventare una rivoluzione democratica, o democratico/borghese, “cesarista”.

Ma, intendiamoci, non sono un complottista, questo è accaduto per caso.
Nessuno in Libia poteva prevederlo, né, credo, nessuno a preparato la guerra di Libia a tavolino.
La guerra è un entità completamente imprevedibile, e da essa si ottiene sempre il contrario di quello che si cercava. Q

Valerio PeverelliFuori misuraguerra,in fiamme,libia,rivolte
Dall'inizio del 2011, annus mirabilis, si sono verificati in molti paesi arabi rivolgimenti politici di carattere, spesso, rivoluzionario. Questi fenomeni non hanno riguardato solo i paesi arabi, si pensi al Senegal, o alle rivolte, sicuramente meno “radicali” negli esiti, in Grecia e Spagna, alla nascita di un massiccio movimento studentesco...