Inizia tutto nell’ottobre 2011, con la liberazione di Shalit, il militare israeliano catturato dal braccio armato di Hamas nel 2006.

In cambio di Shalit, Hamas ottenne la liberazione di 1000 prigionieri palestinesi ma, al tempo, ci fu chi disse, e chi ribadì, che dietro le quinte fu siglato un altro accordo, che prevedeva l’abbandono da parte di Hamas dell’amicizia con  Damasco.

Due mesi dopo iniziarono le operazioni di “dismissione”: Hamas andava via dalla Siria e si rivolgeva altrove.

L’organizzazione all’estero si rifugiava in Qatar, o in Turchia, o in Egitto.

Il tema “Palestinesi-Siria” è stato poi abbandonato fino allo scorso giugno, quando veniva ucciso un esponente di Hamas nei dintorni di Damasco. Sul banco degli imputati saliva Israele, che comunque aveva salutato con soddisfazione l’evento, ma l’Esercito Siriano Libero accusava il regime dell’assassinio.

Negli ultimi giorni, poi, la vicenda ha preso una piega rivelatrice.

Non parliamo di organizzazioni politiche palestinesi, che hanno mantenuto e mantengono un’ambiguità di fondo rispetto alla Siria, ma dei palestinesi che vivono nei campi profughi in Siria.

Lo scorso 9 luglio l’analista palestinese Majid Kiyali scriveva:

Dal punto di vista sociale, fuori dalle strutture partitiche, i Palestinesi-Siriani (ovvero i rifugiati) si trovano in una situazione difficile, complicata ed estremamente stressante. Non esiste un consenso nazionale tra le loro rappresentanze per quanto concerne gli attuali accadimenti siriani, e questa è per loro la prima esperienza nella quale hanno a che fare con agitazioni politiche nel paese in cui vivono da svariati decenni: un tale stato di cose non è affatto familiare per i profughi palestinesi in Siria, soprattutto se comparato con la situazione di altri rifugiati che si trovano in altri stati. Sicuramente la difficile esperienza dei profughi in paesi come il Libano, l’Iraq o la Giordania pesa sul loro immaginario, rafforzando i timori di chi ora si trova in Siria.

Questi profughi sono stabilmente presenti nel paese da tempo, hanno vissuto e sofferto assieme ai  siriani le privazioni, le ingiustizie e le violazioni dei loro diritti e delle loro libertà: il palestinese si è sempre trovato nella stessa situazione del siriano, sotto ogni aspetto ( o quasi). I dolori e le speranze hanno unito palestinesi e siriani, come fossero un solo popolo, divisi solamente dalla carta d’identità di coloro che sono “rifugiati residenti”. Tuttavia ciò non si è tradotto in una partecipazione dei campi profughi alla rivoluzione siriana, malgrado tutto quello che hanno subito e tutti gli orrori che continuano a vivere. Forse il vissuto dei palestinesi li ha resi coscienti della loro posizione, e così essi non si sono fatti più illudere dalle pretese che li vedono come un’avanguardia e un focolaio della rivoluzione; e forse, più maturi nella loro coscienza nazionale, hanno inteso quanto accade in Siria come una questione che concerne esclusivamente i siriani. Ma tutto ciò si lega anche al crollo di un altro mito, che ha messo in evidenza che la Palestina non rappresenta “la causa centrale della comunità araba”. Quest’ultima è emersa come una mera pretesa, sfruttata per insediare l’Autorità Palestinese ed il suo controllo sul paese e sulle persone; così come è emerso che non esistono paesi liberi senza cittadini liberi.

In verità, i nobili e coraggiosi siriani, malgrado i sacrifici che stanno sostenendo, sono stati molto generosi, non chiedendo mai ai profughi alcun tipo di contributo alla loro rivoluzione, mostrando di capire la loro posizione e forse di riconoscerne le sofferenze, o di voler evitare loro ogni violenza alla quale avrebbero potuto essere esposti. Tutto ciò deriva dalla certezza che non è assolutamente necessario verificare quanto i palestinesi perseguano la libertà, la dignità e la giustizia poiché, come i siriani, essi da sempre aspirano a questi diritti.

Nonostante questo, nel tumulto della rivoluzione, sono stati molti i palestinesi uccisi, arrestati, torturati e rapiti perché si trovavano vicino alle zone più calde: la tirannia e la furia omicida non fanno distinzioni. Contemporaneamente vi sono palestinesi vittime di tutto ciò, poiché hanno fatto la personale scelta di sostenere la giusta rivoluzione siriana: vi sono medici che hanno aiutato a curare i feriti, case nei campi profughi che hanno ospitato chi fuggiva, e famiglie che hanno condiviso il pane con i propri vicini; vi sono cuori che hanno tremato di paura per gli amici, ed occhi che hanno pianto i siriani come non hanno fatto per i palestinesi. Così in questa rivoluzione è andato formandosi un ruolo palestinese che fa della Palestina, non solo un pezzo di terra, ma un simbolo di libertà e dignità (fonte).

Il paradigma è cambiato a partire da metà luglio (l’ha seguito nei particolari Germano Monti su Vicinoriente).

Ai primi segnali di una nuova solidarietà dei palestinesi-siriani con i rivoltosi, il regime reprime direttamente nei campi profughi. Poi i carri armati di al-Asad bombardano il campo di Yarmuk, alla periferia di Damasco. Verso la fine di luglio viene bombardato anche il campo profughi di Deraa. Poi è l’ufficio dell’UNRWA, l’agenzia dell’ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi, a essere bombardato, il 26 luglio. Lo stesso giorno giungono notizie di bombardamenti sull’ospedale del campo profughi di Yarmuk. E poi ancora sul campo di Deraa.

In breve, i palestinesi uccisi dal regime di Damasco nei campi profughi si contano a centinaia, ormai.

Bene, la solidarietà dei palestinesi-siriani nei confronti dei rivoltosi e il successivo attacco del regime siriano contro i campi profughi pone i palestinesi, di nuovo, al centro del “gioco” degli ultimi.

Il regime siriano appoggiava alcune organizzazioni palestinesi, e accoglieva i profughi in patria.

Ora quei profughi (cioè gli “ultimi”) sono diventati “scomodi”, perché quelle organizzazioni palestinesi non sono più col regime.

Dunque li si ammazza senza pietà.

Chi ha a cuore la causa palestinese non può far finta che tutto questo non stia accadendo. Ma c’è chi lo fa. Come accusa Germano Monti sul suo sito:

L’omertà “antimperialista” e “pacifista” sulla sorte dei rifugiati palestinesi in Siria continua. Inutile andare a cercare sui siti storici della solidarietà con la Palestina informazioni su quanto sta avvenendo a Yarmouk, Daraa e gli altri campi palestinesi stretti nella morsa dell’esercito di Assad: quelli sono Palestinesi di serie B, perché non vengono assassinati dai sionisti, ma da un regime “antimperialista”, addirittura “socialista”, secondo qualcuno. I ragazzi palestinesi che, con le loro armi leggere, cercano di opporsi ai carri armati ed all’artiglieria di Assad sono sicuramente jihadisti o mercenari al soldo di USA-Israele-petromonarchie-bla-bla-bla.

I palestinesi sono tutti uguali, non li si può prendere in considerazione soltanto quando ad ammazzarli è qualcuno che a noi non piace.

Il massacro nei campi profughi siriani ci ricorda di ciò che purtroppo è toccato in sorte al popolo palestinese (e molte meno alla sua classe dirigente) suo malgrado: trovarsi sempre e comunque nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Vi ricordate Arafat che appoggia Saddam Hussein e il destino dei palestinesi in Iraq?

Ricordate il Settembre Nero?

Purtroppo quello che rappresenterebbe un argomento decisivo in favore della nascita di uno Stato palestinese viene nascosto non solo da chi uno Stato palestinese proprio non lo vuole, ma anche da molti di coloro che si ergono a difensori della causa palestinese.

 

 

 

Lorenzo DeclichIn fiammegilad shalit,palestina,palestinesi,saddam hussein,settembre nero,siria,yasser arafat
Inizia tutto nell'ottobre 2011, con la liberazione di Shalit, il militare israeliano catturato dal braccio armato di Hamas nel 2006. In cambio di Shalit, Hamas ottenne la liberazione di 1000 prigionieri palestinesi ma, al tempo, ci fu chi disse, e chi ribadì, che dietro le quinte fu siglato un altro...