Altrove ho criticato un libro di Daniele Atzori (“Fede e mercato: verso una via islamica al capitalismo?”, il Mulino, 2010) per averlo trovato poco maturo (la ricerca sottostante mi era sembrata, però, ben strutturata e approfondita).

Incontro di nuovo Atzori in “Le rivoluzioni della dignità” (Ediesse, 2012), un libro a cui ho collaborato, e ritengo che questa volta la sua analisi offra grossi spunti di riflessione.

Atzori parte dalla critica al concetto gramsciano di egemonia per descrivere le attuali elite politiche ed economiche in Turchia ed Egitto:

“la fiducia con la quale Gramsci crede in una dicotomia fondamentale tra forze egemoniche e contro-egemoniche, viste come espressione di classi sociali radicalmente contrapposte, lo porta a trascurare il fatto che, quando le forze controegemoniche diventano egemoniche, i loro interessi possono confondersi con quelli delle vecchie élite. Si potrà dunque creare una cross-fertilisation tra forze egemoniche e contro-egemoniche, tra due formazioni sociali […] l’uso dei termini ‘egemonico’ e ‘contro-egemonico’ può tuttora essere valido dal punto di vista epistemologico, purché essi siano intesi in senso relativo, storicamente situato, e non assoluto e meta-storico, come faceva Gramsci, il cui obiettivo non era meramente l’analisi, ma la trasformazione della realtà.”

L’intuizione di Atzori sta nel ridefinire ciò che è “controegemonico”. Quel “contro-” descrive unicamente la posizione subalterna al potere in un momento dato, non identifica di per sé qualcosa di “alternativo” e/o “antagonista” al livello del modello economico, sociale e culturale. Non ci sono, dunque, nell’agone politico, unicamente (e per dirla un po’ grossolanamente) “padroni” e “sfruttati” ma anche, e direi in questa epoca “soprattutto”, padroni e contro-padroni: la lotta per l’egemonia, nell’era della globalizzazione, si è immersa nell’economia di mercato e si svolge tutta all’interno di elite economiche.

Ciò che più rende interessante l’analisi di Atzori è però la descrizione di ciò che è avvenuto e avviene nel contesto di questa lotta per il potere “infra-liberista”:

“Il caso turco dimostra, per esempio, come le forze contro-egemoniche, in questo caso rappresentate dalla piccola e media borghesia anatolica in lotta contro il crony capitalism kemalista, abbiano assimilato molte delle caratteristiche del blocco sociale ad esso contrapposto. La Turchia viene solitamente presentata come il campo di battaglia tra due ideologie, da un lato il secolarismo del fondatore dello Stato turco Ataturk e dall’altro l’islamismo politico dell’attuale presidente Erdogan. Un’analisi più approfondita rivela invece che, dietro queste ideologie, si cela uno scontro tra due blocchi sociali, tra due borghesie: da un lato, l’oligarchia kemalista che controllava parte consistente dell’economia grazie alla sua vicinanza al centro del potere politico e militare, dall’altra una piccola e media borghesia, che aveva prosperato durante gli anni Ottanta e Novanta grazie alle liberalizzazioni economiche inaugurate da Ozal, primo ministro dal 1983 al 1989 e poi presidente dal 1989 al 1993 […] lo scontro tra islamismo e secolarismo in Turchia, a partire dagli anni Ottanta fino ad oggi, è in primis lo scontro tra due strutture di potere, tra due blocchi sociali in lotta per l’egemonia. Non ci sono un bene e un male in lotta l’uno contro l’altro, né il progresso contro le forze oscure della reazione. Le ideologie forniscono il linguaggio attraverso cui questi due ceti esprimono le proprie frustrazioni, aspirazioni e interessi […] Il problema è che, nel momento in cui la ‘periferia’ della piccola e media borghesia anatolica è diventata ‘centro’, essa ha subito una profonda crossfertilisation con il vecchio ‘centro’ kemalista, come ha spiegato Hakan Yavuz. Gli stili di vita, i modelli di consumo, le relazioni di potere del nuovo ‘centro’ islamista sono state profondamente influenzate dalla sua permanenza al potere, fino al punto che il confine tra forze egemoniche e contro-egemoniche è ormai talmente confuso da rendere queste categorie non più adatte all’analisi del caso turco […] Una dinamica simile è osservabile nella storia egiziana degli ultimi decenni. L’islam ha fornito il linguaggio con cui giustificare sia il socialismo arabo di Nasser sia il liberismo di Sadat. In particolare, l’esempio egiziano permette di osservare lo sviluppo della nuova classe media, al tempo stesso islamista e alfiere del neo-liberismo. Il presidente egiziano Sadat inaugurò, nel 1974, la politica dell’infitah (porta aperta), abbandonando il socialismo arabo in favore del libero mercato. Questo esperimento permise a una nuova piccola e media borghesia di prosperare. Anche qui, come in Turchia, la nuova classe media islamista si servì del linguaggio islamista per criticare il vecchio ordine, rappresentato da un’oligarchia, socialista di nome, che controllava l’economia grazie ai legami clientelari col potere statale. L’islamismo offriva gli strumenti per criticare e delegittimare l’ancient régime e per giustificare un nuovo ordine, sostenendo l’islamicità della proprietà privata e del libero mercato. In altre parole, l’islam fornì la giustificazione per un’accumulazione del capitale pienamente compatibile col neo-liberismo. Più tardi, l’implementazione del Washington Consensus provocò un ritiro dello Stato e una conseguente espansione del settore privato. L’Islamic business si giovò della nuova situazione, espandendo le proprie attività economiche, in particolare finanziarie, educative, mediatiche e «caritatevoli» nella società. Gli economisti islamici e gli ulama garantirono il proprio placet, affermando la piena compatibilità tra islam e libero mercato. In altre parole, parteciparono alla costruzione sociale di un nuovo trend dell’identità islamista. Il mercato si è dunque configurato come un eccezionale spazio di opportunità per l’attivismo islamista. Ciò è avvenuto, come si è visto, poiché l’islamismo è diventato la bandiera di nuovi ceti sociali in lotta per l’egemonia sulle società islamiche. L’attivismo islamico si è rivolto in particolare alle nuove classi medie, e a loro volta le nuove classi medie hanno guardato con crescente interesse all’islamismo. Nel contempo, le masse diseredate egiziane svilupparono un’identità alternativa, criticando alle fondamenta l’economia di mercato, sempre nel nome dell’islam. L’islam fornì quindi abbondanti giustificazioni alla politica ufficiale dello Stato egiziano, sotto Nasser, Sadat e Mubarak; legittimò l’ascesa di una nuova borghesia islamista e armò i diseredati degli strumenti per criticare lo statu quo. L’islam ha offerto quindi ai diversi attori sociali gli ingredienti (gli «attrezzi») con cui plasmare le proprie narrative, egemoniche o contro-egemoniche. Fermarsi a queste narrative, senza esaminare la loro profonda interconnessione con le pratiche socio-economiche, ci priverebbe però di fondamentali strumenti per analizzare queste realtà. Il problema è che i Fratelli musulmani, pur essendo stati per decenni una forza controegemonica, poiché esclusi dalla partecipazione politica, hanno allo stesso tempo sviluppato un rapporto complesso con il regime di Mubarak. Essi sono stati, in realtà, una forza contemporaneamente contro-egemonica ed egemonica, che ha combattuto e sostenuto il regime al tempo stesso […] Nel momento in cui, le forze controegemoniche espressione delle nuove classi medie islamiste hanno conquistato spazi di potere, esse si sono profondamente ibridate con le vecchie forze egemoniche. Al tempo stesso, segmenti delle vecchie élite si sono islamizzate, come ha spiegato Bayat in riferimento al caso egiziano. I due gruppi si ibridano fino a un punto tale da superare dialetticamente la dicotomia tra forze egemoniche e contro-egemoniche. Si crea dunque un nuovo blocco di potere, esito della cross-fertilisation tra i precedenti.”

L’intero ragionamento porta a riflettere anche su le rivolte arabe degli ultimi due anni.

Le forze “alternative” e/o “antagoniste”, in quel contesto, non rappresentano che una trascurabile frazione del corpo sociale, culturale ed economico, sono una “minoranza rumorosa” che, nel caso specifico, ha “fatto” la rivoluzione ma, in partenza, non aveva le carte per diventare forza egemonica.

Anche in questo caso le cause sono storiche – queste forze nei paesi in esame sono sempre stato il primo obiettivo delle repressioni in quei paesi, la qual cosa abbiamo constatato anche nel contesto delle rivolte – ma ciò che più interessa, qui, è che troviamo spiegato il perché non siano stati gli “islamisti” a promuoverle: non ne avevano davvero bisogno.

Detto questo c’è un sassolino nella scarpa che vorrei togliermi. Nel febbraio del 2011 girava questo articolo intitolato “Le rivolte in Egitto e Tunisia ordite dai Rothschild per eliminare le banche islamiche dagli emergenti mercati nord africani”. Avrete capito già dal titolo, al di là del fatto che fa ridere, quanto si riesce ad essere subalterni e schiavi elucubrando complotti. Consiglio agli elucubranti il seguente titolo: “Le rivolte in Egitto e Tunisia ordite dai Rothschild per introdurre le banche islamiche negli emergenti mercati nord africani”.

Lorenzo Declichislam nudoislametro,Prequel
Altrove ho criticato un libro di Daniele Atzori ('Fede e mercato: verso una via islamica al capitalismo?', il Mulino, 2010) per averlo trovato poco maturo (la ricerca sottostante mi era sembrata, però, ben strutturata e approfondita). Incontro di nuovo Atzori in 'Le rivoluzioni della dignità' (Ediesse, 2012), un libro a...