[Inchieste – La Repubblica 30 sett. 2013] – La rivoluzione tunisina è finita? O è solo all’inizio? Forse una rivoluzione non c’è mai stata, ed era tutto un complotto? C’è molto di rivoluzionario in ciò che ha iniziato a svolgersi a partire dal 17 dicembre 2010 in Tunisia, per poi espandersi a macchia d’olio in tutto il mondo arabo. Un’intera area del mondo ha iniziato a parlare, è entrata in quella che un commentatore algerino definì “età della politica”, passando drammaticamente e quasi istantaneamente dalla condizione di “massa” indistinta a quella di “popolo” e poi di “insieme di individui”: al centro del contendere i temi della dignità, della cittadinanza, dei diritti.

Certo, gli esegeti delle “rivoluzioni”, sia a destra che a sinistra, non hanno digerito l’uso disinvolto della parola e ora si sbracciano per segnalare che nel mondo arabo non c’è, e non c’è stata, una Rivoluzione con la erre maiuscola. Leggeranno dunque con uno scomposto senso di superiorità le pagine di questo reportage, che fotografa una Tunisia inchiodata alle sue croniche debolezze, politiche ed economiche, note ai tunisini ben prima della fuga di Ben Ali in Arabia Saudita, il 14 gennaio 2011, e che il “nuovo corso” della Nahda non ha saputo, potuto e forse voluto risolvere, assumendo con sempre maggiore chiarezza i caratteri di un’occupazione a tutti i costi del potere lasciato vacante dagli sgherri del dittatore.

Quegli esegeti  –  in qualche caso dimostrando tutti i loro limiti e perfino una certa dose di naïveté  –  non guardano out of the box: in questo nuovo mondo globalizzato, in cui a stento scorgiamo le macerie di antiche e sepolte civiltà, anche le rivoluzioni sono globali o non sono: qualsiasi “rivoluzione” locale  –  vera o fasulla, armata o pacifica  –  deve poi confrontarsi con uno schiacciante “mondo di fuori”, un mondo che di “giustizia sociale”, “diritti fondamentali” o “dignità” raramente vuol sentir parlare.

Il vento rivoluzionario della Tunisia  –  chiamiamolo così  –  deve essere dunque letto e compreso. Prima di tutto individuando i suoi protagonisti, ovvero una nuova generazione di cittadini-attivisti che nell’attimo fatidico della fuga di Ben Ali sembrava aver trovato il modo di “vincere facile” ma poi, subito dopo, si è accorta che sotto la superficie di una dittatura decrepita e pericolante c’era un muro di cemento armato pressoché invalicabile. Una generazione che oggi, dopo una nuova stagione di repressione, si ritrova a dover inventare da capo un’opposizione efficace, ripartendo dal pugno di mosche che ha in mano.

Dunque, semplicemente, ciò che è avvenuto in Tunisia tre anni fa non corrisponde all’idea che ce ne siamo siamo fatti, e non importa se l’abbiamo chiamata “rivoluzione”, “rivolta” o altro. Importa invece che, di visioni stereotipate, coloro che guardano al sud del Mediterraneo con gli occhi dell’Europa ricca ma un po’ decadente ne hanno a decine. E spesso da queste visioni non si riesce a prescindere: condizionano le prospettive, i punti di vista, le analisi.

È un labirinto di specchi in cui ci si perde facilmente. Avendo una sensibilità e una prospettiva che spesso rende meno nitidi e circostanziati quei fenomeni che definiamo “di costume” e con cui in Italia come in Europa e in America settentrionale usiamo misurare lo stato di “arretratezza” o “avanzamento” di una società. Ad esempio si apprendono le vicende delle ragazze tunisine che tornano dalla Siria gravemente malate e/o incinte di anonimi jihadisti, dopo essersi sottoposte a un jihad matrimoniale o jihad sessuale – dicitura iperbolica peraltro non ancora ben codificata in arabo e di origine incerta, usata oggi da presunti “sheykh” e “dotti” musulmani per rendere “islamicamente leciti” rapporti sessuali che non lo sarebbero – che, nella fattualità dei suoi contorni criminali, non è altro che “sfruttamento della prostituzione”, “sfruttamento minorile”, “schiavitù” di giovani ragazze provenienti dai bassifondi delle città tunisine. L’orrore per la cosa, il visibile e comprensibile sconcerto, occultano tuttavia parzialmente la visione: non si considera che il problema non è solo “tunisino” e che, anzi, possiamo ritenere un segnale positivo il fatto che in Tunisia esso sia venuto a galla, laddove altrove la cosa viene probabilmente e colpevolmente tenuta nascosta.

Allo stesso modo seguiamo con assiduità le vicende di Amina “Tyler” Sboui, l'”icona della protesta laica”, la Femen che in marzo aveva pubblicato in rete foto di sé a seno nudo, che in seguito era scomparsa e poi, con la scusa del possesso di gas paralizzante, era stata fatto oggetto di un “arresto preventivo” teso ad evitare che producesse “atti immorali” in pubblico. Seguiamo con interesse le azioni di solidarietà di Femen, che organizza un flash mob a Tunisi  –  due ragazze francesi e una tedesca arrestate e rilasciate due settimane dopo  –  e in giro per l’Europa. Non osserviamo però con sufficiente attenzione il percorso che porta Amina, alla fine, ad allontanarsi da Femen, dando forse per scontato che la cosa sia evidente prova di una “sconfitta” dell’attivismo femminista o delle donne tunisine. Invece Amina non lascia Femen per timore di ritorsioni o a causa di improvvisi “ritorni all’islam”, bensì perché si rende conto che con Femen in Tunisia non si arriva da nessuna parte, che le donne tunisine stanno facendo una lotta diversa, ben più dura. Seguendo le sue dichiarazioni, apparentemente vaghe o ingenue, scopriamo che probabilmente c’è molto di più, in Tunisia, di un flebile contatto di una giovane “eroina” con una discutibile organizzazione femminista internazionale. L’anarchismo dichiarato della diciottenne Amina si collega a un ampio movimento giovanile tunisino di stampo libertario, attorno al quale gravitano decine di piccole organizzazioni, collettivi di artisti, attivisti, hacker. Un humus fecondo che sforna cultura e che raramente trova visibilità da queste parti se non lo si lega alla questione femminile, una delle poche che  –  sembra  –  possa attirare l’attenzione dei cittadini della sponda nord del Mediterraneo verso ciò che essi immaginano essere “l’Oriente”.

Andando a cercare questi segnali di vitalità ritorniamo al punto di partenza, e cioè direttamente alla rivolta, ai suoi protagonisti che da anni smaniavano con le loro tastiere dietro a un firewall governativo e in questi anni hanno documentato il fallimento della “nuova Tunisia”, il degrado economico e sociale nel quale oggi sguazzano, in combutta, quei criminali e/o estremisti che organizzano i “viaggi” femminili e maschili verso la martoriata Siria. Scopriamo che quei giovani entrano ed escono di galera, vengono processati per motivi futili come il possesso di un grammo di hashish, ma sono ancora lì e non hanno nessuna voglia di smetterla.

Lorenzo DeclichIn fiammePrequel,repubblica
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