C’era un tempo in cui essere arabi o persiani contava fino a un certo punto, almeno se guardavi il mondo dal punto di vista dell’Oceano Indiano e di chi lo abitava. I navigatori persiani e arabi, in mare, avevano un lessico in gran parte comune: per portare una nave a vela latina – cioè triangolare – fino in India o in Cina devi avere un equipaggio che chiama le cose tutte allo stesso modo. Nei primi secoli dell’islam i geografi che vivevano nell’impero scrivevano quasi tutti in arabo, perché l’arabo era la lingua delle corti e dell’amministrazione. Quando l’India, o meglio la sua area costiera, entrò definitivamente a far parte dell’universo di riferimento arabo-islamico – il dār al-islām – il mare attorno ad essa iniziò a chiamarsi per essi Mare Indiano. Ma il suo settore occidentale, a partire dalle acque che bagnavano le coste meridionali della Penisola Arabica fino ad arrivare alle coste meridionali dell’India occidentale, era denominato Mare Arabo. C’erano poi il Mar Rosso, o Golfo Arabo, o Mar di al-Qulzum (l’antica Clysma) e il Golfo Persico, o Mare Persico, al termine del quale si trovava lo Šaṭṭ al-’arab, la Sponda Araba, la confluenza di Tigri ed Eufrate che nella parte finale del loro cammino si uniscono formando un solo grande corso d’acqua.

I due bracci di mare che circondano la Penisola Arabica hanno avuto da sempre il ruolo di terminali commerciali. Con alterne fortune, ovviamente: con l’ascesa del califfato abbaside, la cui capitale era Baghdad, il Golfo Persico ebbe un ruolo centrale in questo senso, così come il Mar Rosso dopo l’invasione dei mongoli, a metà del XIII secolo, quando Il Cairo divenne luogo di residenza di un califfo ormai definitivamente privo di potere e il braccio di mare che separa la Penisola Arabica dall’Egitto assurse a grande snodo commerciale che univa il mondo mediterraneo a quello dell’Oceano Indiano. Ma ciò che conta è che Baghdad, il suo califfato, la sua corte, la sua amministrazione erano realtà cosmopolite, nelle quali poco interesse aveva la denominazione di un braccio di mare nel quale navigavano tutti, vigevano leggi del mare condivise e vivacchiavano – come in ogni mare che si rispetti – diversi pirati.

Il cuore del commercio, nel mondo islamico pre-coloniale, erano i porti – anch’essi soggetti ad alterne fortune per le oscillazioni di domanda e offerta nei grandi agglomerati urbani dell’interno – e nei porti operavano le gilde, comunità mercantili caratterizzate da appartenenze claniche, linguistiche, religiose. L’islam era garante, con la sua giurisprudenza, dello svolgersi ordinato delle attività economiche nei porti, grandi mercati che le comunità «colonizzavano» stabilendo lì i propri quartieri. Il Golfo Persico era a tutti gli effetti un «mare islamico», sebbene a farvi affari fossero – stante la suddetta giurisprudenza – soggetti commerciali non necessariamente musulmani. Di certo non era un mare conteso: al di là delle attività criminose dei pirati, sul mare (e ciò vale per l’intero Oceano Indiano) non si faceva la guerra, almeno fino all’arrivo dei portoghesi, nel Cinquecento. In questa cornice emersero nei secoli comunità che oggi consideriamo «ibride» o marginali, perché non trovano collocazione nell’attuale quadro regionale e traggono parte della loro identità proprio dal fatto di affacciarsi sul Golfo, di avere a che fare con esso per commerciare, pescare, scovare perle preziose nelle conchiglie, rapinare un’imbarcazione. Il mare le accomunava molto più di quanto non facesse l’appartenenza confessionale; più marcato era il discrimine con la gente dell’interno, beduini o sedentari che fossero.

Ma se il Golfo Persico era un mare islamico, l’islam del Golfo era estremamente variegato, come la composizione etno-linguistica (genti provenienti dall’India, ad esempio, o discendenti degli schiavi africani) delle comunità islamiche che vi risiedevano. Questa grande complessità permane oggi, sebbene in forma semplificata, e non cessa di rappresentare un bel grattacapo per chi – in particolar modo i due rivali saudita e iraniano – preferisce rappresentare entità binarie geopoliticamente funzionali: arabi/persiani, sciiti/sunniti. In tempi di globalizzazione, geopolitiche regionali, coalizioni arabo-sunnite e mezzelune sciite, le specificità culturali, linguistiche e religiose di uno dei più cosmopoliti melting-pot della storia sono solo un dettaglio, o meglio un problema. E la diatriba sul nome con cui indicare il Golfo ne è un evidente segnale.

Lorenzo Declichjihadicalimes,Prequel
C’era un tempo in cui essere arabi o persiani contava fino a un certo punto, almeno se guardavi il mondo dal punto di vista dell’Oceano Indiano e di chi lo abitava. I navigatori persiani e arabi, in mare, avevano un lessico in gran parte comune: per portare una nave...