Ultimamente gli Stati costruiscono muri, li allungano o li rinforzano. Ma costruire muri, corredarli di strumenti di controllo sempre più sofisticati (guardie armate, telecamere, rilevazione satellitare) o dotarli di mezzi particolarmente crudeli di dissuasione (fossi, fili spinati, lame) ha un’utilità ridottissima.

Come rilevato qualche anno fa dai ricercatori di L’Espace Politique, i muri non fermano i flussi di migranti. Li deviano, casomai, spesso in maniera non permanente. Soprattutto: i flussi non cambiano in relazione all’erezione o al rafforzamento dei muri. È la sorgente – una nuova guerra, la nuova fase di una vecchia guerra, una carestia, l’acuirsi di condizioni climatiche sfavorevoli – a determinarne la portata.

I muri, d’altra parte, hanno una funzione simbolica: sono segnali politici. Ricordano ai governanti dei paesi confinanti che c’è un’entità nazionale non disposta, per motivi vari, al dialogo o alla cooperazione sul tema delle migrazioni. Annunciano ai cittadini la volontà di risolvere con metodi decisi e definitivi “il problema”.

Se i muri reali sono prima di tutto simboli, nella lingua – lo spazio simbolico per eccellenza – troviamo diversi muri lessicali che separano noi dai migranti ovvero coloro che, in questo mondo, devono peritarsi nell’arte di superar barriere. Lo racconta Franco Mezzadra nel suo Il lessico sulle migrazioni alla prova dei fatti e della soggettività. Il ricercatore osserva che «troppo spesso i termini “illegale”, “economico”, “umanitario”, “volontario”, “forzato” non tengono in considerazione elementi fondamentali che sottostanno alla base della scelta migratoria e che uniscono in un continuum paesi di partenza e paesi di destinazione, secondo quelle logiche di globalizzazione che ci obbligano a ridefinire concetti e divisioni non più utili a comprenderne la reale portata.»

Immaginiamo una persona che parte e appendiamo su di essa un’etichetta che serve quasi soltanto a determinarne i destini nel luogo d’arrivo (che al momento della partenza è spesso indefinito, immaginato, desiderato). Non vediamo questa persona durante il viaggio. Stabiliamo chi sia in base a cosa succede nel luogo di partenza (ad esempio una guerra) e nel luogo di arrivo (ad esempio un’ondata di sbarchi), ma non le diamo uno status giuridico “durante il tragitto”.

Così la rendiamo invisibile per giorni, mesi o anche anni. La rendiamo vittima designata. Il muro lessicale, che trova spazio infinito nei media o nelle schermaglie politiche, nasconde dunque una grande ipocrisia. Soprattutto, ha una corrispondenza nel mondo reale: a quel lessico corrispondono regolamenti, procedure, trattamenti a causa dei quali le organizzazioni umanitarie incontrano sempre maggior difficoltà nel raggiungere e nell’aiutare le persone. Gli ordini di problemi, per quelle organizzazioni, sono essenzialmente due: informativo e logistico. Risolvere il primo significa sapere cosa si ha di fronte, una realtà per sua natura mutevole.

“Ci sono sempre più persone in movimento”, dice la mia fonte, “ma quello che è cambiato davvero sono le percezioni e le consapevolezze di chi decide di muoversi. I conflitti ci sono sempre stati, alcuni si sono accesi, altri si sono spenti, altri sono rimasti tali per tanto tempo. Quello che è cambiato è la coscienza del migrante che, anche in ragione del fatto che non vede la possibilità di un ritorno o una speranza nel luogo in cui si trova, ha maturato l’opzione di migrare verso luoghi più sicuri”.

I flussi cambiano. Rotte fino a ieri frequentate, ad esempio quella dell’Africa Occidentale che termina in Spagna (via Canarie, dove i migranti rimangono per mesi, o via Melilla, attraversando il Marocco), registrano oggi numeri bassi – anche in questo i muri falliscono: non servono più a nulla. Nuove rotte, ad esempio quella dei profughi afghani per il Mar Nero via nave verso Bulgaria e Romania, diventano progressivamente più importanti.

Zone più calde, come la Libia, sono in assetto perennemente variabile. Qui i siriani non vanno più a causa della mancanza di sicurezza (i siriani che fanno “il viaggio” generalmente hanno possibilità economiche relativamente buone e intendono rischiare il meno possibile) e perché il Libano ultimamente non rilascia più visti ai siriani per fare il tragitto Marocco-Libia.

In mezzo ci sono i trafficanti ma, soprattutto, gli Stati. Nei paesi di origine e transito si determinano situazioni sempre diverse: migranti e appunto trafficanti vi si adattano. Dovendo seguire le vicissitudini dei diversi paesi, anche gli aiuti devono essere portati in maniera di volta in volta diversa, vanno riconfigurati continuamente. Senza contare l’influenza delle politiche di accoglienza dei paesi di arrivo: “In Italia e in Grecia, ad esempio, Dublino III non viene quasi applicato e quindi i migranti, diretti altrove in Europa, hanno quei paesi come primo obiettivo”. Anche gli strumenti per monitorare i flussi segnano il passo: le varie fonti ufficiali (Unhcr, Frontex, governi) li suddividono in base a tipologie di arrivi (migranti “economici”, richiedenti asilo…) che spesso tuttavia non tengono conto degli “invisibili” ovvero di quelle categorie di migranti che i paesi di transito non “vedono” perché non vogliono vedere.

Per incontrare gli invisibili, che spesso sono maggioranza, bisogna far ricorso agli attivisti, alle organizzazioni umanitarie che lavorano, con maggiore o minore riconoscimento da parte dei paesi che le ospitano, a livello locale. E soprattutto al network che si crea fra i migranti stessi, che sono al corrente delle situazioni che incontrano e spesso danno le informazioni più affidabili.

I flussi vanno ricalcolati in base a queste fonti non istituzionali. Di qui la necessità, non rilevata dalle istituzioni, di avere i migranti stessi come fonte di infomazione: “Una volta realizzato che i dati ufficiali non sono realistici si è dovuto procedere a nuove metodologie per estrarre numeri e dati”, altrimenti “perdi il contatto con la situazione reale … una delle cose più importanti da fare se si vuole lavorare per le persone in movimento è proprio la creazione di un network: le agenzie ufficiali hanno presa sulle istituzioni e forse sull’opinione pubblica ma non fotografano bene la situazione… volendo davvero portare aiuto si deve far ricorso a fonti non istituzionali, il network è centrale”.

 

I nodi vengono al pettine. Arriviamo al problema politico: “I paesi di transito, in molti casi, possono essere interessati a speculare politicamente sulla presenza di migranti in viaggio e quindi la creazione di questo network diventa più difficile, metterlo in piedi rischia di compromettere le azioni di supporto o gli stessi partner locali che sono fondamentali per avere le informazioni ma anche per dare una continuità sostenibile al lavoro di supporto”. Il tutto mette a rischio i migranti stessi, quindi una strategia di basso profilo diventa necessaria ad esempio in Serbia, paese le cui “politiche migratorie rispetto ai non regolari, cioè rispetto a chi non chiede asilo in Serbia, sono molto dure”.

Un riflettore umanitario su queste “persone irregolari” le metterebbe in pericolo: “le arrestano, chiedono soldi per rilasciarle e viene dato loro un foglio di via valido 20 giorni, al termine dei quali vengono riarrestate”. Il risultato è che in Serbia i migranti devono essere invisibili per non incappare in questo sistema vessatorio, motivo per cui i numeri di Belgrado sono “completamente sballati”. Nonostante ufficialmente ci sia un aumento del 8-900% dei richiedenti asilo, la maggioranza dei migranti che passano nel territorio serbo non richiede asilo e vuole andarsene il prima possibile. In questo caso l’unica soluzione, per un’organizzazione che vuole aiutare i migranti, “è essere autonoma e indipendente politicamente, ridurre gli intoppi burocratici e istituzionali e cercare di garantire dignità a una maggioranza che vuole continuare a viaggiare, agevolando il più possibile la fase di transito”.

La Serbia è solo un esempio, neanche il peggiore. Quasi tutti gli attori umanitari coinvolti nelle   migrazioni vengono pilotati verso coloro che richiedono asilo mentre tutti gli altri, che intendono dare supporto agli irregolari, vengono osteggiati. Molte piccole realtà non riescono a sopravvivere a questa “persecuzione” e la cosa è agevolata dal fatto che “non esiste per gli Stati la figura del migrante rifugiato che vuole andare da qualche parte, non c’è una figura giuridica per queste persone quindi nemmeno una legislazione che permetta di portargli aiuto, laddove queste sono le persone che invece hanno più necessità, sono i gruppi più vulnerabili e i più numerosi”. Insomma, la maggior parte dei fondi viene utilizzata per affrontare il problema conosciuto ma, oggi, più piccolo.

Si arriva al paradosso che organizzazioni umanitarie di tutti i livelli, dalla più grande e internazionale alla più piccola e locale, devono infrangere le leggi per garantire, per quanto possibile, aiuto ai migranti. Alla struttura “tradizionale” della gestione delle emergenze e di più ampi aiuti umanitari – una struttura ormai stabilizzata nei suoi problemi e nelle sue soluzioni – si aggiunge questo nuovo aspetto che pone una sfida completamente nuova sia dal punto di vista della logistica, che richiede nuovi approcci e una certa creatività – che dal punto di vista etico.

Se per avere informazioni è necessaria la costruzione di un network del tutto nuovo, immerso fin quasi alla gola nell’informale, per aiutare le persone in cammino ci vuole un mix fra abilità/scaltrezza operativa e creatività. Allo studio, ad esempio, c’è un numero telefonico unico e una app che permettano di trasmettere nel più breve tempo possibile le coordinate di chi è in viaggio.

Ma la vera nuova tecnologia dell’aiuto umanitario non è digitale: è un “kit di transito” il più possibile leggero che contiene beni primari di vitale importanza e di sopravvivenza. È configurato in ordine a questo scopo, in base alle rotte che il migrante deve affrontare, e deve adattarsi di volta in volta alle esigenze del passaggio in un particolare ambiente, in un particolare momento dell’anno, in una particolare fase politica.

 

È uno zainetto sempre più leggero, immaginato come “salvavita in cammino”. È anonimo, per eludere i controlli di chi, individuata l’organizzazione che lo fornisce, potrebbe impedire a questa di operare, espellerla dal paese, farle terra bruciata intorno, accusarla di “ingerenza umanitaria”. Contiene sempre prodotti per l’igiene personale con particolare attenzione agli inverni gelidi – i materiali liquidi si congelerebbero. Se per attraversare le foreste serbe d’inverno, dove la temperatura può scendere fino a meno 20 gradi, sono necessari un pasto caldo, un fuoco e una coperta isotermica, per affrontare l’estate greca, durante la quale i migranti transitano sulle isole prima di raggiungere i confini macedoni, i bisogni cambiano radicalmente: cibi e bevande energetiche, un sacco a pelo. Altra costante dello zainetto, essendo necessità primaria, è la presenza al suo interno di materiale informativo.

Nei kit la geografia entra nella forma di una mappa, la politica nella forma di depliant informativi di tipo legale, medico, logistico (soprattutto relativo alle possibilità di trasporto). Uno zainetto pesa dai 500 grammi ai 2 chili. Individuare i tempi e i luoghi della sua distribuzione è uno dei rebus da sciogliere: “Se quell’uomo o quella donna o quel bambino non esistono, come fai a salvargli la vita dandogli un kit di sopravvivenza?”.

Qui ritorna l’importanza del network. Le distribuzioni possono avere logistiche e problematiche differenti in zone diverse di uno solo paese. Ai confini con la Fyrom, per esempio, per poter ricevere le distribuzioni i migranti devono uscire dalle foreste nelle quali si nascondono per sfuggire alla polizia greca. Le distribuzioni sono il più possibile “rapide, in assetto mobile, per non compromettere la sicurezza dei migranti”. Al contrario, nel contesto estivo del turistico Dodecanneso, “le autorità ti pregheranno di distribuire e fornire assistenza ai migranti per non generare un disordine che sarebbe evidente anche ai villeggianti”.

Lo zainetto è uno strumento povero, come il migrante. Ma può poco o nulla per risolvere l’altro grande problema della persona in viaggio: la salute mentale. Durante il cammino il migrante può perdersi, perdere l’obiettivo che lo ha spinto a partire o a fuggire. Può passare settimane, mesi, anni in stato di estrema prostrazione, subire detenzioni e torture. La salute mentale viene indicata come priorità dalla mia fonte, ma è qualcosa che “in viaggio” è davvero difficile curare. All’arrivo deve essere valutata attentamente.

I migranti non sono tutti uguali, anzi. Uno degli elementi che li differenzia è la “velocità di migrazione”. I percorsi migratori implicano in base al budget di ognuno e alle occasioni, alla fortuna,   all’accesso alle informazioni, ai legami con altre persone che hanno fatto la stessa cosa o a familiari sparsi nel mondo, una “velocità” o “lentezza” che determina la loro vulnerabilità fisica e mentale. Ciò fa di loro degli “esperimenti”, delle “vite”, delle “persone” che non hanno identità classiche, come la nazionalità.

Il 7 maggio 2015 è andata in onda in simultanea su quattro canali televisivi la prima puntata di una serie di fantascienza prodotta da BBC Worldwide e Altremedia dal titolo Refugiados. Il mondo si sveglia un giorno e si trova davanti la più grande emergenza della storia: dal nulla si materializzano 3 miliardi di rifugiati. La tensione narrativa dell’intera puntata è tutta giocata sul fattore “caos” generato dall’invasione. Nella storia, subito drammatica, i rifugiati invadono un mondo ricco e tranquillo; non parlano, hanno paura, destabilizzano l’equilibrio di comunità piccole e grandi.

Le reazioni sono quelle che vediamo sempre più rappresentate nei media: c’è chi si mette ad aiutare, chi cerca di rimanere lontano dall’evento, chi pensa che si debba reagire con la forza e spazzare via il pericolo usando tutti i mezzi necessari. L’invasione avviene tutta d’un colpo, da un giorno all’altro, e i “normali cittadini” non possono che adeguarsi. Scopriamo la provenienza dei rifugiati alle prime battute. In una fattoria immersa nei boschi uno dei protagonisti – uno dei rifugiati – chiede aiuto a una famiglia composta da madre, padre e figlia. Alla domanda “chi sei?”, risponde: “Io non sono l’unico, siamo dovuti scappare per sopravvivere. Veniamo dal futuro”.

In un certo senso i migranti che arrivano oggi in Europa vengono dal futuro. Sono persone sulle quali si concentrano tutte le contraddizioni di un mondo che viaggia a velocità diverse. Sono vera, tangibile avvisaglia di un mondo globalizzato che è cambiato molto più velocemente e molto più in profondità di quanto non siano cambiate le istituzioni nazionali e internazionali che dovrebbero governarlo. E che si manifesta, per questo, in forme disordinate e imprevedibili.

Il migrante, che leggi e trattati codificano a stento, che tante persone vorrebbero invisibile o lontano, è in effetti un portatore di futuro. Un qualcosa che, volenti o nolenti, occuperà il campo molto più di quanto non faccia oggi ma del quale ci si interessa spesso nella forma peggiore possibile – inserendo il problema alla fine delle agende politiche, usando strumenti conoscitivi insufficienti e poi gestendo l’emergenza in relazione alle contingenze della propaganda politica.

Pochi si sono accorti che i migranti sono il più importante serbatoio al mondo di intelligence.

Lorenzo Declichmigranolimes,Prequel
Ultimamente gli Stati costruiscono muri, li allungano o li rinforzano. Ma costruire muri, corredarli di strumenti di controllo sempre più sofisticati (guardie armate, telecamere, rilevazione satellitare) o dotarli di mezzi particolarmente crudeli di dissuasione (fossi, fili spinati, lame) ha un’utilità ridottissima. Come rilevato qualche anno fa dai ricercatori di L’Espace...