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Gli attacchi di Bruxelles arrivano a pochi mesi dagli attacchi di Parigi e – che lo si voglia o no – le immagini o i report che arrivano da quella città si sovrappongono, in parte, a quelli del novembre 2015.

Le circostanze e modalità dell’attacco sono molto diverse, così come – forse – le sue motivazioni immediate: la cattura di uno degli attentatori di Parigi, Salah Abdeslam solo pochi giorni fa proprio a Bruxelles, può esserne stato un acceleratore, se non il motore.

Fra le sovrapposizioni c’è la visione di una città “fantasma,” in mano ai servizi di sicurezza: uno scenario molto simile a quello visto all’indomani degli attacchi di Parigi, quando a Bruxelles scattò l’allarme per possibili attentati e Salah Abdeslam era stato “avvistato in Belgio.”

Di quegli eventi è rimasta una scia polemica. Escludendo il gossip di cattivo gusto, si mise sotto accusa l’apparato della sicurezza belga, poco coordinato e soprattutto colpevole di non aver capito per tempo che proprio a Bruxelles, nel quartiere di Molenbeek, si stavano organizzando gli attacchi di Parigi.

Nei primi giorni del dicembre 2015, il giornalista Tim King arrivava a definire il Belgio un “failed state“, un paese fallito, elencandone tutte le debolezze – decadi di riforme non attuate, mancanza di legittimità politica delle élite, un’economia senza guida, politicizzazione delle cariche nella polizia, nella magistratura e in genere nel comparto della giustizia, un’acuirsi della divisione Bruxelles-Fiandre – fino ad arrivare ai buchi nella sicurezza.

Un militare pattuglia l’area attorno a Place de la Bourse dopo gli attacchi. [Foto di Bertrand Vandeloise/VICE]

“L’incapacità di mettere le cose in connessione è una caratteristica dello Stato belga,” concludeva affermando che uno degli esiti di tutto questo era stata proprio la non percezione, o la percezione parziale, del pericolo jihadista.

Oggi c’è chi punta il dito sul Belgio, ma le forme di quest’accusa hanno uno strano sapore: sembra quasi che si debba cercare il capro espiatorio fra le fila di chi “occidentale” non si è impegnato abbastanza nella lotta al terrorismo. I buchi nella sicurezza belga sono evidentissimi ma allo stesso tempo, come osservano alcuni, il fallimento è collettivo, è europeo.

Il punto è: perché e in che modo l’Europa ha sbagliato nella lotta al terrorismo?

Il dibattito si può certamente focalizzare sull’inefficienza dei servizi di sicurezza e su una strategia globale che fa acqua da tutte le parti. Alberto Negri, ad esempio, dice su Il Sole-24 Ore: “L’antiterrorismo, come hanno insegnato anche qui in Italia, comincia prima della fine tragica, dell’esplosione dei kamikaze, inizia con la prevenzione, con indagini discrete ma precise che a volte durano anni, con l’attenzione costante e la conoscenza dei luoghi di aggregazione, con gli informatori giusti, battendo le strade al confine tra il mondo come appare e quello sommerso. È stato fatto questo? Sembra di no.”

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La ragione per cui il terrorismo è diventato tremendamente efficace anche in Europa, proseguiva Negri, “è che si è guardato troppo al fronte esterno, illudendosi con i droni o i raid di sistemare la faccenda: una strada pericolosa che ha portato a trascurare quanto accadeva nella casa europea, nel complesso tessuto sociale delle nostre periferie, soprattutto del Nord. Sembra paradossale ma la guerra al terrorismo, quella intelligente, deve ancora cominciare davvero.”

Centinaia di persone si sono radunate spontaneamente davanti alla Bourse per cantare, pregare, e accendere candele per le vittime. [Foto di Bertrand Vandeloise/VICE]

Va bene, d’accordo. Ma forse è venuto il momento di pensarla in maniera diversa, o perlomeno di provarci. Il paradigma, attualmente – come ormai da più di quindici anni – prevede che all’indomani di un fallimento come quello di Bruxelles si cerchino i responsabili più vicini, li si metta alla gogna, si invochi maggiore coordinamento, si proceda con ulteriori restrizioni delle libertà individuali in nome della lotta al terrorismo.

La direttrice dell’Huffington Post Italia Lucia Annunziata, ad esempio, chiede nomi e cognomi dei belgi “distratti” – mettendo al centro della sua invettiva il tema del failed state – e di affrontare a viso aperto gli Stati-canaglia travestiti da Stati-amici. Poi torna a invocare la guerra, una guerra di polizia: “Costerà tanto in termini di libertà individuali di tutti. Ma è meglio di mobilitare apparati militari da noi come su altri fronti.”

Insomma: non c’è alternativa a questo modello di sicurezza, si può solo procedere con quello che abbiamo, inasprendolo? Se si prosegue su questa strada il risultato sarà, ancora una volta, il restringimento dell’idea che abbiamo di “noi,” un noi che diventa sempre più meschino e – come si dimostra con questo attentato – servirà dunque a garantire sempre meno quella sicurezza che tutti vorrebbero.

Un soldato pattuglia un obiettivo sensibile dell’Unione Europea. [Foto di Bertrand Vandeloise/VICE]

Il risultato sarà che, nonostante gli appelli del giorno dopo, l’Europa andrà ancora di più in ordine sparso – questa volta senza trionfalismi, perché sappiamo che nuove misure non basteranno – accelerando sulla strada dello sgretolamento.

E questo avverrà perché la debolezza dell’Europa è strutturale, lo abbiamo visto in questi ultimi mesi.

Di fronte a una sfida epocale – come quella delle migrazioni – l’Europa ha reagito dividendosi, dando fiato ai razzismi più beceri, oppure negando la sua propria e luminosa ragion d’essere – vedi il recente accordo con la Turchia per “rispedire al mittente” gente che, molto più di un europeo, ha convissuto con la morte e il terrore. Facendo del migrante o del profugo il feticcio contro il quale appuntare i propri spilli, negandone la sua più profonda natura di risorsa per il futuro, ed anzi pensandolo come un “futuro terrorista” (ricordate il “passaporto siriano“?).

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Tutto ciò avverrà proprio nel momento in cui potremmo invece iniziare a cambiare rotta. Questo attentato ci dovrebbe insegnare, all’interno di uno spirito di unità europea – ma di un’Europa vera – che il terrorismo non si può fermare chiudendo le porte o adottando sempre più maniacalmente misure restrittive della libertà delle persone che in Europa vivono.

Come insegnano gli hacker storici, c’è sempre e comunque un modo per superare questo tipo di barriere; e più le barriere sono difficili da superare, più sarà duro il colpo ricevuto nel momento in cui esse saranno superate. Il terrorismo, dal 2001 a oggi, fa proprio questo: cerca i bug del sistema e ci si infila dentro, seminando il caos. Neanche tanto “fresco di stampa” è – per citarne uno in un mare – questo Muslim gangs: the future of muslim in the West che spiega ai neofiti come organizzarsi in bande per portare attacchi in Occidente.

“La sfida globale non è militare o poliziesca, ma umana e sociale.”

Paradossalmente è proprio l’eclatante violazione del “cuore” dell’Europa istituzionale – cioè Bruxelles – a dirci che infilarsi nelle maglie della sicurezza sarà sempre purtroppo possibile.

Il primo ministro belga Charles Michel incontra la stampa la sera degli attacchi. [Foto di Bertrand Vandeloise/VICE]

Questo insegnamento ci interroga sulla messa in ruolo di nuove armi, più sofisticate, contro i terroristi. Armi da usare forse anche insieme a quegli strumenti di cui si parlava prima. Sono le armi del controllo da parte del corpo sociale, cioè di ognuno di un “noi” che dovrebbe essere sempre più inclusivo, non un “noi” fatto di sempre più armati e tecnologici poliziotti. Armi che si opporrebbero, inoltre, alla strategia ormai conclamata dei terroristi: puntare a dividere in due il mondo sulle linee dello scontro di civiltà.

C’è un’altra cosa che lega Parigi a Bruxelles. Fin dall’attentato a Charlie Hebdo in molti hanno notato che durante le celebrazioni seguite agli attacchi l’aria che si respirava al centro di Parigi, dove si erano raccolti i rappresentanti istituzionali di mezzo mondo oltre a un popolo immenso, non era la stessa di quella che si respirava in alcune banlieue. Lì, come a Molenbeek, non tutti erano pronti a dire “Io sono …” – anzi.

La sfida globale non è militare o poliziesca, ma umana e sociale, e questo attentato dimostra ancora una volta che la stiamo perdendo. E il fatto che Salah Abdeslam per mesi si sia nascosto proprio a Molenbeek – l’area più controllata e monitorata di Bruxelles nonostante la nota mancanza di coordinamento – ce lo dovrebbe far capire.

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Lorenzo Declichjihadicabruxelles,europa,isis,terrorismo
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