La città di Raqqa, la cosiddetta capitale siriana dell’organizzazione dello Stato Islamico, è caduta. A conquistarla sono le Syrian Democratic Forces, guida curda, contingenti arabi, aviazione – sempre più letale e sempre meno “intelligente” – degli americani. È uno dei tanti capitoli di una guerra della quale ancora non vediamo la fine, una delle molte guerre siriane, per l’esattezza: quella di Is contro tutti.

Una guerra che perderà di intensità ma permarrà a lungo: i perdenti di oggi sono annichiliti ma ben lungi dall’essere sconfitti anzi, intuiamo che i terroristi in Siria vanno sempre più radicandosi, riproducendo ciò che in Iraq è già da tempo una realtà: una sotteranea rete di relazioni basata su interessi economico-criminali. (Su questo tema consigliamo la lettura di questa importante testimonianza apparsa sul New Yorker.)

La partita in Siria non è solo militare, anzi. Quello di Raqqa, e con Raqqa gran parte dell’area orientale del Paese, è solo un esempio: mentre ci si incammina verso un qualcosa che sarebbe bene definire “pacificazione” più che “pace”, si aprono i file a medio termine più importanti: sociale, politico, economico.

E’ in frangenti come questi che ci si chiede quale sarà davvero il futuro della Siria, se ci sarà spazio per qualcosa di più di un regime tirannico che maltratta i suoi sudditi e si fa imporre l’agenda dai propri alleati esterni (Russia, Iran, Cina). Ed è a questo punto del ragionamento che ci chiederemo “che fine ha fatto la rivoluzione siriana?”. Che fine hanno fatto quelle decine di migliaia di persone che scendevano in piazza per chiedere riforme sociali, politiche, economiche? Sono ancora in grado di fare qualcosa? Di cambiare le carte in tavola?

Per prima cosa, rispondendo a queste domande, non bisogna dare per scontato che tutti siano d’accordo sul suo “frame”. Molti, cioè, diranno che la rivoluzione siriana non c’è stata, che era tutto un complotto internazionale contro la “ridente Siria” di Bashar al-Asad, poi tradottosi in un attacco imperialista in grande stile.

Invece ciò che in Siria è avvenuto a partire dai primi mesi del 2011 è molto chiaro: un rivolta pacifica che, dopo una repressione violentissima e cieca, è divenuta una vera e propria rivoluzione le cui due anime nonviolenta e armata hanno convissuto fino all’irruzione, da ambo le parti, delle potenze straniere piccole e grandi che hanno trasformato il conflitto da “guerra in Siria” a “guerra per la Siria” e hanno letteralmente cancellato dallo scenario i siriani stessi.

L’antidoto migliore per capire se qualcosa di quella rivoluzione rimane, e per smascherare i cospirazionismi, si ottiene tracciando solchi nella storia, solchi che attraversano i luoghi comuni. Si pensi un uomo come Mazen Darwish, ad esempio, uno dei più importanti attivisti per i diritti umani della Siria. La sua attività politica inizia ben prima della rivolta, nel 2004 (quando fondò il Syrian Center for Media and Freedom of Expression). Lo ritroviamo oggi, dopo anni di carcere nelle prigioni di Asad (l’ultima volta è stato detenuto dal 2013 al 2015). E quando si tratta di parlare di vincitori e vinti in Siria dice: “Non si tratta di decidere chi ha vinto. Si tratta di capire come facciamo a liberare i detenuti, a far cessare la tortura, a ritrovare le persone scomparse”.

Darwish, cioè, dice le stesse cose che diceva prima, durante e dopo la rivolta, la rivoluzione e la guerra siriane. Dice di essere ancora in lotta per vincere la pace, non la guerra: questo da sempre fa. Quest’uomo non è parte di chissà quale complotto, è semplicemente una persona che vuole cambiare le cose nel suo Paese e nessuno lo ferma, mai, se non con le cattive.

Quindi, alla domanda “che fine ha fatto la rivoluzione siriana”, si potrebbe semplicemente rispondere: chiedi a Mazen Darwish, a Yara Badr, a Yassin al-Haj-Saleh, a Razan Ghazzawi e a quelli come loro, che sono ancora tanti. Chiedi a quei siriani che la rivoluzione l’hanno fatta e che non sono scomparsi nelle carceri di Asad, non sono finiti nelle mani dello Stato Islamico o di qualche altro gruppo jihadista, non sono morti sotto i bombardamenti e ancora vogliono libertà, dignità e cittadinanza, le tre parole chiave della rivoluzione.

Questi siriani, sebbene non li vediamo quasi mai comparire in televisione o sui giornali, hanno costruito in questi anni un’idea di futuro per il loro Paese, un’idea ben diversa da quella che possono avere un Putin, un Ruhani, un Trump, un Erdogan o un petromonarca a scelta fra i più vieti.

Certo le circostanze non sono favorevoli. Si pensi che una delle nuove iniziative per la costruzione di una Siria civile e democratica si intitola “Noi esistiamo“.

A causa della loro debolezza dovremmo rivolgerci ai “padroni del mondo?” Cioè a leader politici che hanno dimostrato tutto il loro cinismo e una peculiare mancanza di scrupoli? Da cittadini, da persone democratiche che conoscono il significato dell’espressione “diritti umani”, la nostra risposta dovrebbe essere un sonorissimo “no”.

http://eastwest.eu/it/opinioni/open-doors/siria-eredita-rivoluzione-fine-guerra

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