Sto leggendo in questi giorni “Shantaram” di Gregory David Roberts, un romanzo che mi suscita molte sensazioni, ma anche una riflessione adatta a questo spazio.
(Se non l’avete letto vedete qui una recensione, qui invece c’è un’intervista all’autore).

Per certi versi infatti si tratta di una storia di integrazione, ma da un punto di vista assolutamente controcorrente: un australiano fugge dal suo paese e si rifugia a Bombay/Mumbai, dapprima nell’ambiente degli stranieri (turisti, faccendieri, trafficanti, prostitute), poi si ritrova “clandestino” a vivere in uno slum. Le tappe dell’integrazione sono le stesse di tutti i profughi: imparare la lingua, inventarsi un mestiere, adattarsi a uno stile di vita diverso e a una mentalità diversa, a volte incomprensibile.

Un episodio in particolare ci suggerisce una chiave per interpretare cosa sia l’incontro (non scontro) fra culture differenti e come queste possano convivere nelle contraddizioni.

Nello slum in cui vive il protagonista, un giorno si sentono le urla di una donna che viene malmenata selvaggiamente dal marito, all’interno della loro baracca. I nomi dei due (Joseph e Maria) fanno pensare che non siano né indù né musulmani, come invece la maggior parte degli abitanti di quello slum, ma forse questo è un dettaglio insignificante. Il fatto è che i vicini (a qualunque religione appartenessero) sono tentati di intervenire, ma anche imbarazzati dall’intromettersi in una questione privata. Il capo dello slum (dal nome, Qasim Ali Hussein, sembrerebbe un musulmano) decide di intervenire con una risoluzione salomonica. La donna viene portata via, moribonda. L’uomo, già ubriaco e in preda al raptus violento, viene immobilizzato e costretto a bere alcool, fumare hashish e poi esser preso a nerbate. Questa sequenza punitiva si ripete varie volte. Alla fine, Qasim Ali, accertatosi del pentimento di Joseph, gli spiega quello che succederà: dovrà fare due mesi di astinenza e digiuno, e infine sarà la moglie che, se si salverà, deciderà se perdonarlo e riprenderlo in casa, e lui dovrà rimettersi alla sua decisione. Se lei deciderà di riprenderlo, lui userà i soldi risparmiati durante i due mesi di astinenza per portarla in vacanza e ricucire il rapporto.
Il protagonista annota mentalmente la frase pronunciata da Qasim Ali a sigillo della sentenza: “in questo modo giustizia è fatta”.

Bisogna riflettere sul senso di quella giustizia, che per noi potrebbe sembrare violenta, estranea ai nostri canoni giudiziari. Eppure tutta la gente dello slum aveva preso parte all’intervento di quella giustizia. Condizioni di vita estreme richiedono principi saldi e risoluti, sembra dirci questo episodio. Ma anche che la convivenza di tante persone diverse in spazi ristretti impone che la legge debba ispirarsi al buon senso piuttosto che ai dogmi (religiosi o laici che siano).

In ogni caso, fuori da ogni discorso etico, resta il fatto che vivere in una qualsiasi società comporta in qualche modo l’accettazione delle sue regole, anche se questo è in contrasto con la propria mentalità. Ma al tempo stesso è in virtù delle sue regole che una società può essere o non essere capace di accogliere e integrare tutti i suoi membri, o che tutti i suoi membri vi si integrino. Non credo che le regole dettate dall’esclusivismo/esclusionismo, le regole dogmatiche, le regole segreganti o emarginanti, diano a una società, qualunque sia, la possibilità a chi vi si associa di integrarsi davvero, a meno che questi non si omologhi, rinneghi una parte di sé e snaturi la propria identità. E questo, a mio avviso, sarebbe la peggiore forma di integrazione. Sarebbe disgregazione. O disintegrazione.

D.

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Sto leggendo in questi giorni 'Shantaram' di Gregory David Roberts, un romanzo che mi suscita molte sensazioni, ma anche una riflessione adatta a questo spazio. (Se non l'avete letto vedete qui una recensione, qui invece c'è un'intervista all'autore). Per certi versi infatti si tratta di una storia di integrazione, ma da...