Ieri, invece di:

  1. angosciarmi per le dichiarazioni-camomilla di Obama
  2. allarmarmi per la fabbrica di nuovi nemici di Israele
  3. provare ribrezzo nei confronti di un Netanyahu che – come in un corso di propaganda di guerra di prima elementare – recita il mantra “erano terroristi, non pacifisti”
  4. imprecare contro lo scodinzolante grazie di Frattini per la collaborazione di Tel Aviv nella liberazione dei 6 italiani di Freedom Flotilla
  5. infiammarmi per il voto italiano sfavorevole all’istituzione di commissione di inchiesta ONU per la carneficina della Mavi Marmara

ho letto questo The failure of the American Jewish Establishment di Peter Beinart.

E’ un pezzo che – a parte il fatto che sembra sia stato scritto nel futuro essendo datato 10 giugno 2010 mentre ieri era solo il 2 – ritengo degno di nota (e un pugno allo stomaco per gli esempi portati) anche per la prospettiva dalla quale sviluppa i suoi argomenti: il rapporto fra ebrei americani e Israele è fondamentale per capire cosa sta succedendo e cosa succederà.

Secondo l’autore fra gli ebrei americani si registra una spaccatura epocale.

Da una parte ci sono molti sionisti, specialmente nel mondo ortodosso (da cui l’autore proviene),  “people deeply devoted to the State of Israel” e ci sono molti liberals, “people deeply devoted to human rights for all people, Palestinians included”.

Questi due gruppi sono ogni giorno più distinti fra loro. E il sionismo americano si trova in una situazione pericolosa in cui  i vertici delle maggiori organizzazioni sioniste americane (es. AIPAC e Conference of Presidents of Major American Jewish Organizations) “si sveglieranno un giorno e troveranno”:

  1. che la nuova generazione di sionisti è dominata dagli ortodossi la cui ostilità nei confronti di arabi e palestinesi è allarmante;
  2. che c’è una massa di ebrei americani laici il cui atteggiamento passa dall’apatia all’aperto disinteresse.

In Israele, dopo decadi di “consenso nazionale” la “narrativa della liberazione” si è dissolta di due versioni opposte. La prima tende sempre più a chiudersi in se stessa e ripone la sua fiducia unicamente nel “jewish power and solidarity”. La seconda “ha articolato una profonda coscienza dei limiti” del potere militare e “un attaccamento ai valori liberali e democratici”, con tutto ciò che ne consegue in termini di rispetto dei diritti umani, convinzione che i palestinesi debbano avere il proprio Stato etc.

Tuttavia in Israele, oggi, questa seconda “narrazione” non ha più nessun potere e Peter Beinart ci offre un disturbante elenco di esempi attraverso i quali capiamo che, usando le parole di Ze’ev Sternhell, professore della Hebrew University, “esperto di fascismo e vincitore del prestigioso Israel Prize”:

a crude and multifaceted campaign is being waged against the foundations of the democratic and liberal order.

Beinart ci racconta che sì, i governi israeliani cambiano, ma che tutto questo è specchio di una dinamica di lungo termine della società israeliana:

an ultra-Orthodox population that is increasing dramatically, a settler movement that is growing more radical and more entrenched in the Israeli bureaucracy and army, and a Russian immigrant community that is particularly prone to anti-Arab racism.

Questa dinamica non viene percepita come pericolosa dalle organizzazioni ebraiche americane. Anzi, dice Beinart:

groups like AIPAC and the Presidents’ Conference patrol public discourse, scolding people who contradict their vision of Israel as a state in which all leaders cherish democracy and yearn for peace.

Il risultato di tutto questo è che se in teoria le organizzazioni ebraiche americane rimangono collegate a una versione “liberal” del sionismo:

by defending virtually anything any Israeli government does, they make themselves intellectual bodyguards for Israeli leaders who threaten the very liberal values they profess to admire.

In altre parole – banalizzando – io critico il mio caro amico, anche ferocemente, ma non accetto che qualcuno lo critichi, anche se usa i miei stessi argomenti: solo io, poiché gli voglio bene, posso dirgli delle cose terribili (possibilmente in privato).

Gli esempi portati da Beinart ci descrivono una situazione in cui non solo si evitano le critiche ai governi israeliani ma si cerca di evitare che gli altri critichino, specialmente nel campo dei diritti umani e civili.

Ed è qui che l’autore ci pone un interrogativo fondamentale.

Se queste (potenti) organizzazioni imputano i critici “esterni” di essere “anti-israeliani se non anti-semiti”, come si comportano nei confronti di quelle organizzazioni che dentro Israele pongono le stesse critiche?

La risposta è che, sebbene non dicano direttamente:

they must be guilty of self-hatred, if not treason.

L’analisi di Beinart prosegue individuando alcuni altri punti salienti della vicenda:

  1. i leader di oggi delle organizzazioni di ebrei americani appartengono a una generazione che non ha vissuto dal di dentro la nuova “dinamica di lungo termine” cui si accennava prima
  2. quei valori che danno per scontati (diritti umani, democrazia etc.) non si riproducono nelle nuove generazioni
  3. generazionalmente parlando, la parte “laica, liberal, democratica” etc. etc.  dell’identità ebraica americana abbandona il campo

E – questo lo dico io – se Israele si isola, gli isrealiani “che odiano se stessi e tradiscono” rischiano l’estinzione.

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Ieri, invece di: angosciarmi per le dichiarazioni-camomilla di Obama allarmarmi per la fabbrica di nuovi nemici di Israele provare ribrezzo nei confronti di un Netanyahu che - come in un corso di propaganda di guerra di prima elementare - recita il mantra 'erano terroristi, non pacifisti' imprecare contro lo scodinzolante grazie di...