Come, purtroppo, volevasi dimostrare ieri.

Libia, accordo-farsa gli eritrei dicono no

il Manifesto, 8 luglio 2010

«Liberazione in cambio di identificazione e lavori socialmente utili in Libia». Ma i 205 reclusi dell’inferno di Braq rifiutano la soluzione, mediata dai funzionari dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni. E ribadiscono: siamo richiedenti asilo, vogliamo veder riconosciuti i nostri diritti. Stefania Craxi: «Pronti ad accoglierne alcuni»

Il governo italiano si vende una mediazione inesistente Maroni: «Non c’è prova che sono stati respinti da noi»
«Nessuno ci ha informato. Si stanno vendendo un accordo che non esiste, fatto alle nostre spalle». I cittadini eritrei rinchiusi ormai da una settimana all’interno del campo di Braq, nel sud della Libia, reagiscono così alle notizie su un presunto accordo raggiunto per la loro liberazione. Secondo notizie di stampa che si sono rincorse freneticamente per tutta la giornata di ieri, gli eritrei sarebbero stati pronti a firmare i moduli per la propria identificazione in cambio di un permesso di residenza e di un impiego in lavori di pubblica utilità presso alcune delle 22 «shabiyah» (distretti) in cui si divide il paese.

La notizia – diffusa dall’ufficio di Tripoli dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), che aveva prospettato già nei giorni scorsi questa soluzione – ha suscitato grandi reazioni positive da parte del governo. Il ministro degli esteri Franco Frattini ha «incassato con soddisfazione» la soluzione, rivendicando un lavoro di mediazione della diplomazia italiana. «Abbiamo lavorato in silenzio, senza proclami, purtroppo nell’assenza totale e assoluta dell’Europa. Abbiamo chiesto un compromesso, una mediazione e il risultato è arrivato. Siamo soddisfatti».
In realtà, mentre tutti annunciavano la fine della crisi di Braq, nessuno si era preoccupato di informare gli eritrei rinchiusi nel campo. Nessuno aveva proposto loro seriamente questa possibilità, né aveva chiesto il loro parere. Informati in proposito, gli interessati si sono rapidamente riuniti e hanno ribadito quando già detto nei giorni scorsi. «Non vogliamo restare in Libia. Siamo richiedenti asilo e chiediamo di essere rinsediati in un paese terzo».
Molti di questi cittadini eritrei sono in Libia da due o tre anni, in attesa di veder riconosciuto uno status che nel paese arabo semplciemente non esiste. La Libia non ha firmato infatti la Convenzione di Ginevra e non riconosce il diritto d’asilo.
Undici dei 205 detenuti di Braq sono stati respinti dall’Italia il 1° luglio del 2009. Il governo, per bocca sia del ministro degli esteri Frattini che di quello degli interni Roberto Maroni, dice che «ciò è indimostrabile». E cerca di difendere a spada tratta l’accordo-fantasma concluso senza che gli eritrei ne fossero informati.
Intanto, la situazione nel campo di Braq continua a essere assai difficile: il calore soffocante, la mancanza di acqua corrente, le condizioni igieniche ai limiti della sopportazione sembrano altrettante armi dispiegate per piegare la resistenza degli eritrei. I due reclusi prelevati venerdì scorso dalle celle non hanno mai più fatto ritorno. Le persone ferite durante il trasbordo dal centro di Misratah a Braq nei camion-container non sono ancora state medicate. Né sono stati curati i dieci reclusi picchiati selvaggiamente nella notte tra domenica e lunedì. Gli eritrei raccontano che alcuni di loro svengono e che il morale è bassissimo. «Ma nonostante ciò, abbiamo deciso di non accettare soluzioni poco sicure e prive di garanzie», sottolinea un portavoce raggiunto al telefono.
La chiusura dell’ufficio dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) di Tripoli, attuata il 7 giugno scorso dalle autorità libiche, peggiora le cose. «Chiamiamo l’ufficio e ci dicono che è chiuso. Chi si occupa ora di noi?», chiedono i richiedenti asilo rinchiusi a Braq.
Il governo italiano respinge ogni responsabilità e non manca di fare ironia su una presunta drammatizzazione da parte deegli eritrei della loro situazione. «È molto curioso che persone che si dicono torturate e imprigionate avessero telefoni satellitari con cui parlare a mezzo mondo», ha detto il ministro Frattini.
Nel frattempo però il sottosegretario agli esteri Stefania Craxi faceva intravvedere uno spiraglio verso quella che è sempre stata l’unica soluzione possibile per questa crisi: il reinsediamento in Italia. «Siamo pronti ad accogliere alcuni di questi profughi», ha detto ieri Craxi. «Già nel 2009 abbiamo accettato una procedura di resettlement per 67 cittadini eritrei e se anche in questo caso si ripresentassero le medesime condizioni, il governo italiano farà la sua parte», ha assicurato. «Ci aspettiamo che lo stesso facciano anche altri stati dell’Ue».

7 giorni È passata già una settimana da quando i 205 cittadini eritrei sono stati caricati su tre camion-container e trasferiti nel campo di Braq

Fondamentale, per capire, anche questo pezzo (sempre dal Manifesto)

https://in30secondi.altervista.org/wp-content/uploads/2010/07/img_0191.jpghttps://in30secondi.altervista.org/wp-content/uploads/2010/07/img_0191-150x150.jpgLorenzo DeclichLibyan partyeritrea,franco frattini,italia,libia,rifugiati politici,roberto maroni,stefania craxi
Come, purtroppo, volevasi dimostrare ieri. Libia, accordo-farsa gli eritrei dicono no il Manifesto, 8 luglio 2010 «Liberazione in cambio di identificazione e lavori socialmente utili in Libia». Ma i 205 reclusi dell'inferno di Braq rifiutano la soluzione, mediata dai funzionari dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni. E ribadiscono: siamo richiedenti...