Gli organismi istituzionali che governano il mondo affrontano le sfide da una prospettiva geografica. Le geografie politiche, tuttavia, limitano la loro prospettiva, perché considerano gli Stati all’interno della loro “regione” come parti di un blocco coerente. Questo punto di vista è assai limitante quando bisogna prevedere il futuro di un paese, specialmente se lo compariamo  a una prospettiva basata sulle geografie commerciali (fonte)

Inizia così un articolo di Afshin Molavi,  apparso sulla rivista saudita al-Majalla e intitolato appunto “Geografie commerciali“.

Il giornalista iraniano, ora arruolato nella New America Foundation, compie un importante riflessione sull’approccio delle istituzioni globali e locali alla realtà mondiale: la geografia politica presuppone che il “destino” di un paese sia legato indissolubilmente alla propria collocazione geografica, al fatto di condividere una lingua, una storia,  una cultura. E usa queste coordinate per definire “blocchi coerenti”.

Tuttavia:

l’indicatore più importante potrebbe essere la geografia economica di un paese: dove e da dove i suoi commerci e i suoi investimenti fluiscono? Le geografie commerciali sono spesso estremamente differenti dalle geografie politiche e rappresentano strumenti migliori per prevedere il futuro di un paese.

La geografia commerciale, in particolare, ha un forte potere descrittivo nel mondo globalizzato, dove le merci trovano ben poche barriere (o barriere diverse dalle normali dogane) e dove è molto facile, ad esempio, consumare una merce il cui genere è percepito in un paese come tradizionale e/o nazionale (una mela in Italia) ma la sua provenienza non è affatto tradizionale e/o nazionale (il Perù).

Cosa c’entra ad esempio l’Australia – che organismi come la Banca Mondiale collocano nel quadrante “Asia orientale e Pacifico” con i paesi della Penisola araba – che si trovano nella “zona grigia” denominata di volta in volta “Medio oriente” o “Asia occidentale” –  o col Marocco – che fa parte del settore “Medio oriente e Nordafrica”?

In termini geopolitici quasi niente, in termini geocommerciali molto, se consideriamo che in quei paesi  è in forte crescita la domanda di carne di pecora e che l’Australia ne è grande produttrice.

E, anche, se consideriamo che in Australia c’è la più folta popolazione di dromedari, un animale che nessuno laggiù pensa di mangiare e che è diventato un vero problema per gli agricoltori, ma che nei paesi da dove i dromedari provengono, quei paesi elencati sommariamente sopra, è anche un genere alimentare (oltre che oggetto privilegiato in poesia, ma di questo è bene non parlare, adesso).

Motivo per cui, come scrivevo tempo fa, c’è qualcuno che in Australia pensa di commercializzarne la carne.

Certo, questo è un esempio di piccolo-medio calibro rispetto all’oggetto-mondo.

L’esempio di Afhshin, convinto che la geografia commerciale del mondo sia più importante di quella politica perché “segue i soldi”, è molto più strutturale:

Il futuro della crescita economica dell’Arabia Saudita non si lega all’Egitto, al Libano o a Gaza, sebbene questi tre occupino molto più spazio nei media arabi. Si lega alla Cina e all’India, dove risiede la più grande crescita futura di consumo di petrolio. Non è lontanamente un caso che il re saudita Abdullah bin Abdulaziz ha scelta la Cina e l’India come i primi due luoghi dove compiere una visita di Stato appena ascese al trono cinque anni fa.

Le applicazioni della geografia commerciale, tuttavia, non riguardano solo le possibilità di previsione. Danno anche ovvie spiegazioni a eventi come ad esempio la guerra in Iraq.

Come osserva Champlooman in questo commento a un suo post (che potrei appunto definire un post di “geografia commerciale”):

può darsi che chi ha deciso di attaccare l’iraq non pensasse al futuro assetto geopolitico, ma ai ricavati delle proprie aziende, o meglio, di gruppi industriali e finanziari vicini all’allora governo bush.

Inoltre, non potremmo capire a fondo il mondo dell’islamercato se non ci rendessimo conto che il fenomeno del mercato globale “islamicamente orientato” oltre a essere un’operazione dai contorni inquietanti dal punto di vista prettamente culturale e religioso, non ha alcuna connotazione geopolitica (né tanto meno può essere letto, come fanno eurabisti i controjihadisti, nell’ottica dello “scontro di civiltà”, vedi un esempio qui) se non nella misura del fatto che i poli odierni dell’islamercato sono da una parte Malesia, Indonesia, Arabia Saudita, Turchia, e dall’altra un gruppo sempre più folto di multinazionali non necessariamente connotate dal punto di vista culturale e religioso.

Un discorso come questo, posso capire, sembra campato un po’ in aria.

Parlare allo stesso tempo di carne di cammello, islamercato e guerre petrolifere può sembrare eccentrico.

Serve dunque una bella dose di realtà ed è per questo che chiudo con un video nel quale Miles Young, CEO dell’agenzia pubblicitaria e di marketing più grande del mondo, Ogilvy & Mather Worldwide, presenta il muslim market nel contesto della prima American Muslim Consumers Conference (30 ottobre prossimo).

E la presenta come the next 1 Billion market, next to China and India.

Benvenute, insomma, le analisi di Limes sul “Levante arabo e i nuovi Bilad ash-Sham“, un interessante articolo del bravo Lorenzo Trombetta.

Ma se vogliamo parlare di Turchia non possiamo rimanere ancorati a una teoria “neo-ottomana” che non guarda oltre la geopolitica classica.

La storia è importante. I soldi, in questo mondo, di più.

Lorenzo DeclichIslamercatoabd allah bin abd al-aziz al saud,afshin molavi,al-majalla,american muslim consumer,arabia saudita,asia occidentale,australia,cina,conflitto di civiltà,egitto,gaza,geografia commerciale,india,indonesia,islam,libano,limes,malesia,marocco,mercato,New America Foundation,nordafrica,ogilvy & mather worldwide,penisola araba,turchia
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