Islamercato: la lista dei buoni
Il mio mandato mi impone di essere reciso e quindi dirò, un po’ grossolanamente, che l’islamic banking, cioè il sistema bancario che teoricamente dovrebbe garantire una condotta “islamica” nella gestione delle operazioni finanziarie, non è altro che un paravento costruito col fine di permettere ai grandi petrolieri del Golfo e ai loro amici di investire il denaro accumulato senza apparire usurai.
Laddove l’islam vieta l’usura (riba) intesa come riscossione di interessi sui prestiti.
Motivo per cui, storicamente, i banchieri dell’islam non sono musulmani (ma ebrei, cristiani, hindu).
E ora la notizia. In India nasce il primo “Indice delle compagnie compatibili con la shari`a“.
Si tratta di un elenco di attori economici che, in teoria, si comportano in maniera “islamicamente corretta”.
Bene: chi stabilisce questa correttezza? Un mufti? Un faqih? Un`alim? Un qualche shaykh?
No, l’indice è curato dalla TASIS (Taqwaa Advisory and shariah Investiment Solutions), un’agenzia che:
was founded by a group of finance and investment professionals who realized the need for a credible organization for providing guidance and support to individuals and corporates having an interest in the nascent but highly potential Islamic finance industry in India.
Nell’indice figurano aziende di livello mondiale come le Reliance Industries e la Tata Consultancy Services, che si occupa di IT e fa parte dell’impero economico Tata.
La parte finanziaria dell’islamercato indiano è un affare gigantesco e sono diversi gli attori che operano per costruirla.
E’ possibile riassumere in una parola l’ideologia di base attorno alla quale ruota la creazione di un mercato finanziario “islamicamente compatibile” nel mondo: “inclusione”.
Per spiegare brevemente di quale tipo di inclusione stiamo parlando cito da un blog del Financial Times:
K. Rehman Khan, deputy chairman of the Rajya Sabha, the upper house of the Indian parliament, has long urged India’s financial services sector to introduce shariah-compliant products.
“Muslims have every right to seek an avenue for investment that complies with their religious faith,”
Khan said at a shariah finance summit earlier this year, adding:
Shariah-compliant mutual fund schemes will help to channelise savings of the huge Islamic population in India.
The Reserve Bank of India has published statistics showing that Muslims borrow less than their fellow Indians: the average Muslim has taken out loans equal to 47 per cent of the money he or she has on deposit, whereas the national average is 74 per cent.
If Muslims borrowed more, the argument goes, their capacity to start businesses and to buy homes would also increase (fonte).
Insomma: non è possibile, in questo mondo, che ampie categorie di individui rimangano fuori dal gioco della speculazione finanziaria.
Anche se la loro religione dice espressamente che non si possono prendere o dare soldi a strozzo.
La cosa diventa ancora più paradossale se valutiamo il fatto che, al di là della sua vera o presunta islamicità, la finanza islamica è una realtà sempre più competitiva nel contesto mondiale.
[per notizie in italiane aggiornate sull’argomento vedi qui] https://in30secondi.altervista.org/2011/01/07/islamercato-la-lista-dei-buoni/Islamercatofinanza,finanza islamica,india,islamic banking,riba,usura
Beh, non è che i banchieri ebrei, cristiani o hindu risolvessero o risolvano il problema, visto che il riba è considerato in entrambi i sensi: vietato dare, e vietato ricevere soldi a interesse.
Ovviamente il problema più pressante è quello dei mutui casa, vista la necessità impellente di un tetto, specie in Italia, con gli affitti da strozzini tipici del Bel Paese. L’islamic banking ha risolto il problema in modi più o meno discutibili, e infatti discussi da una vasta schiera di ulama più o meno attendibili, in un corpus bibliografico decisamente cospicuo e noiosetto.
Il problema degli investimenti è diverso, visto che di per sé sono halal (se do mille euro a un conoscente da investire in un affare, lui se ne tiene cento come commissione per il suo impegno, e io alla fine ne guadagno cinquecento non è interesse, ma per l’appunto guadagno reciproco da una transazione commerciale). Qui il punto sta semmai in che imprese investono le banche che si occupano di queste cose: visto che se con i miei soldi si finanzia una ditta che produce datteri e laban è un conto, se invece si finanzia una fabbrica di cotechini o di mine antiuomo da spargere in Afghanistan è un altro conto. Questo credo intenda il Rehman dicendo “Muslims have every right to seek an avenue for investment that complies with their religious faith”, e va detto che la destinazione ultima dei soldi investiti la conoscono meglio i banchieri che gli ulama… per questo potrebbe essere utile un ente che garantisca trasparenza in questo senso: tipo banche etiche, per intenderci.
Quando parlo di “paravento” intendo proprio investire in cotechini… non credo che vi sia questa grande “eticità” nel giro dell’islamic banking. Quanto ai musulmani hanno il diritto di investire in cose che sono conformi alla loro religione. Così come tutti i bipedi di questo pianeta dovrebbero avere il diritto di sapere cosa succede in banca. Non credi?
Credo, eccome: in banca, nelle macellerie, nelle farmacie, nelle dogane, nei giornali, negli uffici pubblici, nei ministeri e in ogni dove. Per questo un istituzione di controllo seria e affidabile che garantisca trasparenza sarebbe estremamente utile: è lo stesso discorso dei prodotti halal, nel bene e nel male.
(Ho anche il tragico e malizioso sospetto che chi ha abbastanza surplus monetario per investire in banca non sia poi così preoccupato di sapere dove finiscono i dinari, e si accontenti per l’appunto del paravento: qualche crescente sulla carta intestata e nell’insegna, e così via…)