All’indomani della invasione saudita del Bahrain, un evento che la diplomazia americana nega (excusatio non petita) e l’opposizione – anche quella morbida – stigmatizza (definendolo un “atto di guerra”), George Friedman di Stratfor ci spiega che la rivoluzione del Bahrain, “come tutte le rivoluzioni” ha due aspetti: il primo consiste nel genuino desiderio della maggioranza sciita di vedere affermati i propri diritti, il secondo consiste negli interessi dei paesi stranieri nel Bahrain.

Nel caso del Bahrain gli interessi stranieri non-iraniani non sono conciliabili con il genuino desiderio.

L’Iran beneficerebbe della ribellione perché essa metterebbe in difficoltà gli americani (e l’intera banda del Consiglio di Cooperazione del Golfo, Arabia Saudita in testa) che lì hanno la Quinta flotta e un mare di interessi.

Così come beneficerebbe dell’intero clima “rivoluzionario” degli ultimi mesi in quanto metterebbe in difficoltà gli americani e aprirebbe loro la strada per l’anelata egemonia nel Golfo.

Bene. Il nostro George dimostra di non aver capito, o di voler nascondere, un fatto essenziale: l’Iran non beneficia affatto del clima rivoluzionario.

O perlomeno: non ne beneficerebbe nel caso quel clima venisse pesantemente represso. Cosa che invece sta avvenendo in Bahrain.

Friedman dimentica che sì, è vero che Ahmadinejad ha “celebrato” la vittoria della rivolta del 25 gennaio in Egitto, ma è vero anche che l’opposizione verde, in Iran, è scesa in piazza con le bandiere egiziane in mano, usando le stesse strategie, gli stessi slogan, chiedendo le stesse cose (con i docuti distinguo, vedi qui) nello stesso giorno in cui è iniziata la rivolta del Bahrain.

Dimentica che finora i tentativi di cavalcare le rivolte – spesso in senso islamizzante – di Ahmadinejad sono risultati inutili anzi, quasi ridicoli (vi ricordate i giornalisti dell’iraniana Press TV che andavano in giro per la Tunisia alla ricerca di qualche donna che dicesse loro che aveva fatto la rivoluzione per potersi mettere il niqab?)

Insomma: il tentativo di Friedman di spiegarci perché è il caso di fare buon viso a cattivo gioco in Bahrain è ridicolo.

La rivolta dei cittadini del Bahrain non è pro-Iran, o perlomeno non lo era: reprimerla con i carri armati del Consiglio di Cooperazione del Golfo significa invece, molto probabilmente, consegnarla a quegli agenti iraniani che certamente circolano a Manama.

E’ vero: più ci si avvicina al cuore degli interessi petroliferi, meno si è disposti a parlare di democrazia e libertà, più si cade nell’imbarazzo.

Ma ciò non significa che si debba sprofondare nel ridicolo.

Perché sulla genuinità della rivolta del Bahrain, al suo esplodere il 14 febbraio, non ci sono dubbi, ed è già un miracolo che abbia resistito tutto sommato integra, nonostante i tentativi di polarizzarla in una direzione che renderebbe accettabile la repressione (ho spiegato più volte, vedi qui e qui, in quale misura la logica dello scontro sciiti-sunniti non è pertinente)

Certo, gli iraniani sono vecchie volpi, si comportano da potenza regionale, vogliono l’egemonia economica e politica.

Ma questo non giustifica in nessun modo ciò che in Bahrain sta accadendo.

Lorenzo DeclichIn fiamme2011.02.14,ahmadi nejad,arabia saudita,bahrain,consiglio di cooperazione dei paesi arabi del golfo,iran,niqab,rivolta,tunisia
All'indomani della invasione saudita del Bahrain, un evento che la diplomazia americana nega (excusatio non petita) e l'opposizione - anche quella morbida - stigmatizza (definendolo un 'atto di guerra'), George Friedman di Stratfor ci spiega che la rivoluzione del Bahrain, 'come tutte le rivoluzioni' ha due aspetti: il primo...