Continuo a non capire la linea di comando degli insorti.

La cosa è tutto sommato normale in un paese come la Libia in cui, tradizionalmente e dall’indipendenza, il governo informale è sempre stato superiore al governo formale. A tutti i livelli.

Nel caso specifico devo correggermi, alla fine Younis non è il “commissario alla difesa” , ma il capo di stato maggiore, o forse nemmeno quello visto che il colonnello/generale Haftar, l’amerikano, potrebbe averlo scavalcato.

Il “commissario alla difesa” è Omar Mokhtar El-Hariri, una figura interessante.

El-Hariri avrebbe fatto parte del CCR (il gruppo di ufficiali che, guidati da Gheddafi, fecero il colpo di stato del 1969, comunque non aveva un ruolo predominante in quel consesso, visto che non è citato nella lista dei membri da Vanderwalle), per poi partecipare al tentativo di colpo di stato del 1975, assieme a un folto gruppo di membri del CCR (che facevano capo a Omar al-Muhayashi, all’epoca ministro della programmazione economica, membro della sinistra interna, tecnocratica, del CCR e dell’UAS, l’allora partito unico).

Catturato, fu condannato a morte e tenuto in isolamento fino al 1980, poi rimase in carcere fino al 1990, quando fu “graziato” purché rimanesse ai domiciliari.

Le sue credenziali militari quindi si limitano all’appartenenza all’esercito tra il 1960 circa e il 1975 (o poco prima), mentre le sue credenziali politiche sono “notevoli”, se non altro a livello simbolico. Comunque è uno dei pochi membri del CCR ancora vivo.

Il colpo di stato fallito del 1975 fu anche uno spartiacque politico importante per il regime di Gheddafi, in quanto fu proprio a partire da quell’anno che il CCR e l’esercito cominicarono ad essere progressivamente epurati (il secondo anche a perdere d’importanza), mentre Gheddafi si avvalse sempre di più della collaborazione di parenti vicini e lontani, dando un impronta nepotistica (e per certi versi tribali) all’amministrazione e all’esercito, modello che continua ancor oggi.

A Muhayshi, nel 1975, si legò Mughayrif (all’epoca ambasciatore libico in India e forte sostenitore della terza via) per dar vita al FNSL (Fronte nazionale per la salvezza della Libia) una delle organizzazioni di esiliati più ricche di storia e di azioni, anche terroristico-militari.

Non so però se Omar El Hariri sia rimasto in contatto con questo gruppo, o si sia allineato ad esso dopo la sua liberazione, da profano ne dubiterei molto.

Nel tempo l’FNLS ricevette finanziamenti da fonti disparate (CIA, Francia, ma anche l’Egitto di Sadat, il Sudan di Nimeiry, il Marocco di metà anni ’80, ed altri) diventando uno dei gruppi guida degli esuli libici e confluendo nel governo di transizione di Bengasi.

L’appoggio degli americani e dei sauditi a questo gruppo è cominiciato verso la fine degli anni ’80 o, più probabilmente, al principio degli anni ’90, visto che inizialmente era un gruppo “socialisticheggiante”.

Interessante è vedere come nel Consiglio Nazionale di Transizione di Bengasi si trovino sia oppositori storici di Gheddafi che membri del suo entourage più ristretto (ma quasi tutti tecnocrati di regime o membri dell’ala riformistica “liberale-liberista”, a parte Younis, che viene dall’ala dura ed è “figlio d’arte”), oltre a qualche intellettuale dissidente come Ali Tarhouni.

Mancano però le figure di spicco dei riformatori “interni” come Shukri Ghanem, già primo ministro e ministro del petrolio e messo in seconda linea nel 2003, dopo l’unico serio dibattito interno al regime sulla necessità di aggiungere riforme politiche a quelle economiche.

Intellettuali, blogger, avvocati (come Abdul Ghoga), islamisti e membri della minuscola società civile libica, che nei primi giorni sembravano avere accesso a ruoli dirigenziali di primissimo piano, sono ora ai margini. O meglio non sono più nel ramo “esecutivo” ma in quello “legislativo”.

Ancora più interessante è notare come il regime di Gheddafi abbia creato, con la repressione, la sua fine.

Infatti dal 1975 al 2001 (ma, sebbene con minor forza, anche prima e dopo) vi sono stati in Libia decine di cicli di repressione di movimenti di opposizione o, più spesso, di epurazione di frange del governo che cercavano di ribellarsi.

Per non parlare delle normali procedure extra legali dei comitati rivoluzionari e le loro condanne a morte “facili”, oppure dei 1200 morti nella rivolta carceraria del 1996.

Ognuno di questi fatti ha generato una piccola diaspora, ma sopratutto vittime e famiglie rancorose. Nessuno di questi tentativi è stato un reale pericolo per il regime, ma sommando i familiari delle vittime, ed i loro parenti stretti, ed aggiungendo una parte dei “tecnocrati” liberali delusi dal regime e gli esuli, si dovrebbe avere un quadro abbastanza preciso della consistenza dei gruppi di opposizione attuali.

Insomma una torta multistrato in cui sono confluiti disparati gruppi d’opposizione, con disparate visioni del futuro.

Però è l’ultimo strato, quello dei “riformisti” interni dell’ultimo decennio, specie di secondo piano, quello che sembra ora comandare il governo di Bengasi.

Sono un gruppo che faceva la corte a Sayf al-Islam (e l’opposizione a il primo ministro Al-Baghdadi, più che a Gheddafi stesso), e che iniziava a mettere in discussione il libro verde, partendo dalla struttura economica.
La chiave era liberista, favorevole al ritorno della libertà d’impresa interna, anche con elementi di sottovalutazione della complessità della transizione, mentre tendevano a mettere in soffitta la retorica della “rivoluzione verde”.

Comunque è anche per la liberizzazione economica, portata avanti nell’ultimo ventennio da Gheddafi, che oggi siamo in questa situazione. Il regime gheddafiano, fino alle riforme dei cicli 1988-1990,1992-1996 e 2001-2004 era dedito a politiche populistiche, economicamente inefficaci, ma capaci di ridistribuire una parte della ricchezza petrolifera in modo da tenere sotto controllo ogni possibile agitazione sociale.

In pratica i libici ricevevano una fetta (o una fettina) delle entrate petrolifere sotto forma di erratiche elargizioni, o un posto fisso (seppure sottopagato in caso di diminuzione dei prezzi del petrolio) nella burocrazia statale. In aggiunta vi erano notevoli provvedimenti populistici, talvolta rovinosi per alcuni ceti (come l’esproprio delle case in affitto o la nazionalizzazione di molte proprietà agricole), ma che servivano almeno per dare l’impressione che il governo si occupava realemente della popolazione e dei poveri in particolare.
Questo garantiva un minimo di entrate (quasi una carità-clientela diretta tra Gheddafi e “le masse”) anche quando il regime si dimostrava incapace di utilizzare le enormi ricchezze petrolifere del paese per creare un reale sviluppo industriale o agricolo, oppure soffocava e proibiva il turismo, il commercio, l’artigianato o la creazione di micro imprese di servizi.

La scelta di aperture liberiste non ha avuto un impatto molto positivo (eccetto che nel primo ciclo, con la ripresa della piccola e piccolissima impresa) sull’economia libica, anzi ha segnato la nascita di alcune oligarchie, di cui Saif al-Islam era, in effetti, il campione e il simbolo.

Ovvero una ristretta cerchia di persone, quasi sempre legate al regime a vario titolo, si è avvantagggiate delle riforme, ed in particolare ha investito su speculazioni edilizie e commerciali, mentre non è emersa una vera “borghesia imprenditoriale” nazionale, anche per la difficoltà di far incontrare capitali ed imprenditori in una situazione in cui credito bancario era debole e sottomesso allo stato, mentre non esisteva uno stato di diritto.

Può darsi che i “riformisti” passati alla ribellione fossero i delusi da questa svolta (ovvero non sviluppo, ma favoritismo e diseguaglianza), oppure che siano (come un po’ sembra) quelli che si erano accodati ai “liberisti” per cercare di avere anche riforme “liberali”.

Certamente il regime ha ricevuto una forte scossa nella fine dell’egualitarismo (non reale, ma propagandato come tale) del regime rivoluzionario, con l’aumento della disoccupazione giovanile, unito alla crescita di una classe ricca tra i parenti e i sodali più stretti della famiglia “regnante”. E quindi esponendo questa famiglia all’invidia, oltre che all’odio e al biasimo dei vecchi oppositori.

Oppure, semplicemente, esistevano (almeno dal 2003) delle dinamiche di rivalità interna al gruppo di potere, legate anche alla voglia di arricchirsi a discapito di altri gruppi, che hanno contribuito a creare le crepe nel ceto dirigente libico su cui si è inserita la rivoluzione (che è nata in buona parte al di fuori delle dinamiche delle èlite).

Comunque sia verificheremo la forza e le idee dell’ “esecutivo” di Bengasi una volta che riusciranno (se riusciranno) a crearsi una base economica sul petrolio (di cui controllano già buona parte dei giacimenti). Se “le entrate dello Stato sono lo Stato” (E. Burke) la gestione delle entrate è il governo.

Valerio PeverelliFuori misuraIn fiammeali tarhuni,consiglio nazionale di transizione della repubblica libica,guerra,Haftar,libia,Mokhtar El-Hariri,sayf al-islam gheddafi,shukri ghanem,younis
Continuo a non capire la linea di comando degli insorti. La cosa è tutto sommato normale in un paese come la Libia in cui, tradizionalmente e dall'indipendenza, il governo informale è sempre stato superiore al governo formale. A tutti i livelli. Nel caso specifico devo correggermi, alla fine Younis non è...