Ribadisco che in questi miei ultimi post mi sono dovuto scontrare con la contraddittorietà e la palese parzialità delle fonti.
Tento quindi di fare un analisi, militare, della situazione senza sapere quanto corrisponda al vero, speculando e ragionando attraverso processi comparativi.

Come ho avuto modo di dire la guerra psicologica ha avuto un ruolo di enorme importanza in questa battaglia, e in tutta la guerra.
Ma bisogna concludere che non è stata la guerra psicologica ha conquistare Tripoli, mentre il dato più evidente è semmai che Gheddafi non è più capace di usare una buona propaganda rivolta al suo popolo.
Per esempio la questione di Piazza Verde era diretta più alle opinioni pubbliche straniere che a quella interna, men che meno a quella tripolina che poteva vedere ad occhio dove si svolgevano gli scontri.
Invece, per esempio, il comparire in video di Gheddafi avrebbe per lui una grandissima importanza, ma non lo fa da mesi, lasciando questo ruolo al figlio.

La guerra psicologica è citata da Erodoto (484?-425 a.c.) e Sun Tzù (594?-496? a.c.) la propaganda fu usata come arma dai faroni, non c’è nulla di concettualmente nuovo sotto il sole, ma solo un adattamento di una vecchia pratica a nuovi mezzi.
Qualcuno li sa usare e qualcun altro, in genere i dittatori, no, visto che la loro propaganda è troppo scoperta per essere remunerativa. Probabilmente non funzionerebbe bene nemmeno se dicesse la verità.

Allo stesso modo la NATO+- è stata molto importante; l’analisi della conduzione dei bombardamenti nelle ultime settimane di agosto, unite alle inchieste del Guadian, rendono sempre più evidente come operassero sul campo corpi speciali inglesi e francesi, per coordinare le operazioni dell’aviazione con quelle dei ribelli (poche decine di persone, però al posto giusto ed al momento giusto). È ipotizzabile la presenza anche di uno sparuto manipolo di agenti CIA, che però più che aiutare i ribelli potrebbero aver fatto altro.
Questo fattore però non deve essere sopravvalutato, per esempio i ribelli hanno imparato ad usare le armi pesanti, sia quelle razziate al regime, sie quelle paracadutate da Francia (per ammissione dello stesso ministro della difesa) e Qatar.
Inoltre con l’aviazione non si conquistano le città, al massimo si indeboliscono le difese.
Quindi una delle vere ragioni della vittoria nelle regioni costiere della Tripolitania è da ricondursi alla raggiunta efficienza militare di un pugno di brigate ribelli.

Il che ci porta dritti ad un altro problema, l’esercito ribelle è quanto meno tripartito, ovvero con tre “scuole” (Cirenaica, Nafusa, Misurata), con comandanti spesso eletti dal basso o condizionati da assemblee di soldati (En Route parla addirittura di soviet di soldati riferendosi a Misurata), oppure calati da organizzazioni distinte dal CNT.
Per esempio un certo peso militare è stato assunto dagli islamisti, grazie alla loro pluridecennale esperienza di combattimento (esperienza non particolarmente valida, dal punto di vista prettamente militare, in effetti nessuna delle forze in campo in Libia è militarmente brillante).
Un po’ la stessa situazione che avvantaggiò PCI e PdA nella nostra “guerra civile”, anche ben al di sopra del loro reale peso elettorale e politico.

Questa importanza delle brigate come soggetto politico da alla rivoluzione un forte carattere machista, ponendo l’elemento maschile-militare e l’eroismo come virtù sommamente rivoluzionarie, rispetto alla dialettica, alla progettualità e alla capacità politica.
Va anche aggiunto che la guerra presenta, in genere, anche numerose opportunità di emancipazione femminile, di cui avevo parlato alcuni mesi fa alla fine dell’assedio di Misurata, perché le donne si trovano a gestire professioni maschili (per esempio quella medica) e vengono costrette ad una maggiore autonomia dalle circostanze. Quindi le due situazioni potrebbero compensarsi.

L’esercito del CNT, ovvero quello che risponde direttamente e veramente al comando del governo, è solo una piccola parte della forza militare della rivoluzione, il governo non ha la forza di nominare o esautorare i comandanti, né quella di trasferirli da una brigata all’altra, per renderle forze apolitiche, o quantomeno dipendenti dal governo.
Anche il fatto che i soggetti stranieri, stati del golfo in testa, sembra abbiano rifornito alcune brigate piuttosto che altre, creando linee di rifornimento separate e incontrollabili dal CNT, è un grosso problema per il governo centrale.

La riorganizzazione delle truppe del nuovo governo, iniziata ad Aprile, è sostanzialmente fallita.
Le brigate (katiba) hanno il vero potere politico in Libia, specie ad ovest di Ras Lanouf, un potere che passa dalla canna dei fucili.
Interessante, perché tutto sommato raro nelle rivoluzioni, notare come i ribelli usino katiba-brigata per definire le loro unità, lo stesso termine che ricorre nella polizia segreta e nell’esercito gheddafiano.

Inoltre vi potrebbe essere una forte divergenza strategica sull’impiego delle truppe tra il CNT e alcuni comandanti di brigata.
Il mio sospetto è che il primo le vorrebbe usare come arma di pressione per favorire defezioni e rese incruente, in coerenza con la provenienza di buona parte del CNT, ovvero politici del regime che hanno defezionato da esso.
I secondi, a mio avviso, vogliono fare la guerra, ed anzi hanno dimostrato, dopo aver abbandonato la strategia sostanzialmente perdente del governo e di Younis, di essere capaci di vincere il nemico dal punto di vista prettamente militare.
Questa è una mia ipotesi, ma descrive una situazione ricorrente di frizione tra potere politico (debole) e potere militare (forte).

Un altro tema che converrà considerare di questo conflitto è la sconfitta dell’ONU come organizzazione, assieme a tutte le organizzazioni regionali tradizionali.
Si può dire che l’unico compito dell’ONU in questo conflitto sia stato quello di dare licenza ad alcune potenze euro-arabe di bombardare la Libia e aiutare l’insurrezione.
Tutti compiti incompatibili con lo statuto dell’organizzazione, che infatti sono stati ottenuti al di fuori delle risoluzioni, che l’ONU aveva preso esclusivamente per la difesa dei civili.

Questa crisi è preoccupante perché è umiliante per molte grandi potenze (Cina, Russia, Sud Africa sopratutto), che avevano accettato quelle risoluzioni dopo averle provviste di piccoli paletti, e rende l’ONU molto più debole.
Cosa che non dispiacerà a certa destra americana (che potrebbe anche vincere le prossime elezioni) e potrebbe portare, nel tempo, all’esaurimento delle nazioni unite come agenzia di pace internazionale, e allo stravolgimento del diritto internazionale come noi lo conosciamo.

Un altro elemento che non va sottovalutato, anche quando si considera l’indipendenza di alcune brigate dal CNT di Bengasi, è l’emergere di una forte componente berbera tra i ribelli della Libia occidentale.
Già nel 2008 vi era stata una “primavera berbera” in Algeria, difficilmente repressa da quel regime; in tutto il Nord Africa occidentale i berberi stanno diventando una forza politica, che chiede un cambiamento, ora pacificamente ora meno, rispetto alle regole del gioco stabilite spesso poco prima della decolonizzazione.

La Asenǧaq amaziɣ, ovvero la bandiera degli Amazigh, (nome con cui si definiscono i Berberi), sono state esposte sia a Bengasi che a Tripoli, frammischiate ai vecchi tricolori del pre 1969. Sia nella versione standard (che potete vedervi qui: http://kab.wikipedia.org/wiki/Asen%C7%A7aq_amazi%C9%A3), sia in versioni artigianali (leggermente differenti nei colori e nella grafia) che, a mio avviso, comprovano un sentimento popolare.

Vi è poi la grave questione dei diritti umani. Diritti umani che sono sempre più spesso tirati in ballo da chi vuol cominciare una guerra, ma che poi, come accade da sempre, in guerra sono impossibili da rispettare per tutti.

Il rapporto di Amnesty International del 25 giugno ci invita alla prudenza, smentendo molto di ciò che era stato detto sulla rivolta (e sulla repressione), e confermando varie speculazioni e impressioni che anche noi avevamo avuto; ma va anche interpretato, visto che per lo più anche queste agenzie internazionali si limitano a dire “mancano le prove per questo o quello”, non “hanno sicuramente mentito su questo o quello”.

Per esempio gli stupri di guerra dimostrati in maniera incontrovertibile, da una parte come dall’altra, sono praticamente nulli, al di fuori delle fonti giornalistiche e di alcune psicologhe libiche che, per loro stessa ammissione, sono dalla parte dei ribelli (ma questo non vuol dire “sono bugiarde”, solo non neutrali).
Questo non esclude che siano avvenuti a ripetizione, solo che le stuprate hanno paura di denunciare e non hanno affatto voglia di andare da un medico per farsi visitare.

Comunque la guerra è il regno delle voci incontrollate, che anzi traggono maggior forza dall’esistenza di propaganda e censura, scatenando fantasie e paure ataviche.
Stupro e saccheggio sono tra queste, ma fatti simili sono accaduti, con una certa regolarità, in ogni guerra.

Razzismo ed esecuzioni di prigionieri sono però divenute normali in alcune brigate ribelli.
La Libia, molto più dell’Italia, è un paese di immigrazione. È stata recentemente coinvolta in poderosi flussi migratori, ancora poco accettati dalla popolazione autoctona, in una situazione di scarsa integrazione con alcune comunità.
Né il governo di Gheddafi è stato capace di porvi rimedio con politiche di accoglienza lungimiranti, ma anzi generando delle guerre tra poveri, o delle situazioni particolari.
La più macroscopica riguarda la sanità, ormai sub appaltata in buona parte a stranieri, mentre si accetta difficilmente di assumere dottoresse libiche, in quanto donne emancipate e al di fuori della visione dei sessi incoraggiata dal regime.

Molti dei problemi di questa nascente società multiculturale sono quelli che ben conosciamo, basta ascoltare i deliri di un qualsiasi leghista. Con la fine dell’ordine e il timore del “mercenario nero” sono esplosi, ma anche in questo caso conviene ricordare che questi problemi in Libia, per ora, non sono affrontati a livello istituzionale come in Italia (cioè il CNT non prende le impronte digitali ai Rom, né deporta le persone in campi di concentramento), ma sono sociali (ovvero singoli individui o brigate si distinguono per comportamenti razzisti).

Inoltre molti immigrati hanno partecipato alla rivoluzione anche dal lato ribelle (anche se i migranti spesso erano filo gheddafiani, proprio come forma di difesa dal razzismo che avvertivano in alcuni ribelli), le chiese non sono state profanate, le comunità non sono state espulse.
In questo il CNT si sta comportando abbastanza bene, ma la realtà sul campo è tutt’altro che rose e fiori. Lo scarso controllo esercitato dalla “polizia” ribelle non può che acuire queste tensioni.

Basta vedere questo:
http://salamelik.blogspot.com/2011/09/litalia-la-libia-e-i-nigeriani-della.html

La questione della giustizia verso il passato regime è molto più complessa, e richiederebbe una lunghissima trattazione a parte.

Quando un regime finisce vendette e rappresaglie sono sempre state all’ordine del giorno, ma se non si riesce a tamponarle si rischia una processo di disgregazione della società.
Il CNT probabilmente ha ben compreso che l’unica via d’uscita (che salverebbe anche loro stessi, spesso ex gheddafiani di ferro) è una completa e tombale amnistia, cui si escluda la “famiglia reale”, affinché la rivoluzione possa definirsi anche come un momento di giustizia.
Il CNT ha bisogno di un lungo processo pubblico a Gheddafi, in modo che i suoi crimini, sopratutto quelli storici e remoti, possano essere tirati fuori dagli armadi, in una sorta di rito catartico.
Per farlo ha bisogno di catturare Gheddafi e figli.
Come se fosse facile.

Comunque credo sia anche per questo che nessun ribelle sembra interessato all’estradizione di Gheddafi, mentre altri gruppi preferirebbero una versione libica di Piazzale Loreto.

Un altro problema è la distinzione sociale tra sostenitori della rivolta ad est ed ad ovest.
Sembrerebbe (ma questo condizionale è d’obbligo), che in Cirenaica e a Misurata i rivoluzionari provenissero da tutte le classi e tutti i ceti, con al massimo una prevalenza dell’elemento generazionale giovanile (anche se poi a rappresentarli sono andati dei vecchi arnesi un po’ reazionari e un po’ liberisti…).
Sui Nafusa invece si direbbe che i berberi si siano mobilitati molto più degli arabi, anche oltre tutte le divisioni di classe e d’età.
Mentre in modo simile nel sud si sono mossi i Toubou (Tebu per i colonizzatori italiani), un altra minoranza oppressa (molti di loro furono privati della cittadinanza nel 2007), un tempo favorita dal regime contro il Chad, ma ora scaricata a vantaggio dell’alleanza con la vicina nazione africana.

Tripoli invece è differente, sembrerebbe (altro condizionale imperativo) che la rivolta in città sia stata popolare e proletaria, poco sentita nei quartieri borghesi, o addirittura avvertita come ostile dalla borghesia, come una massa di disperati e insoddisfatti, minacciosa e desiderosa di vendetta e saccheggio.
Questo stato di paura e sospetto mi sembrerebbe permanere, mentre dall’altro lato se i ribelli di Tripoli sono sopratutto membri del proletariato e del sotto proletariato urbano il nuovo governo dovrà attuare delle politiche sociali immediate o si troverà con una capitale tutt’altro che soddisfatta dalla semplice liberazione dal tiranno.

Comunque la borghesia, a tutte le latitudini, tende ad essere opportunista.

Politicamente poi la situazione è ancora più complicata di come appaia, con un opposizione divisa sin dai suoi massimi vertici a livello ideologico, e con molti membri del CNT, di cui non sono stati rivelati i nomi, che probabilmente non esistono nemmeno (questo significa cioè che alcune zone del paese non sono rappresentate nel governo).

Lorenzo consigliava questo articolo (che attualmente toverete tra i link sulla Libia):
http://www.lanation.info/Le-plus-dur-reste-a-faire-en-Libye_a244.html

Mentre non ne condivido l’analisi militare e quello che dice su Gheddafi, trovo illuminante l’analisi politica delle forze che compongono il CNT e la società libica.
Anche se io identifico ben più di 4 correnti.
Molte delle quali in lotta su questioni ideali, oltre che pratiche (ad esempio laici vs religiosi, liberal-democratici vs liberal-liberisti, nazionalisti berberi vs residui panarabisti ecc.).

Gheddafi però, a mio avviso, resta ancora un potere in Libia, privarlo della capitale non vuol dire aver ottenuto una vittoria strategica senza appello.
Il regime ha cercato una guerra convenzionale, la sta perdendo, non so se sarà in grado di condurre una guerra di guerriglia in seguito, ma anche senza i soldi del petrolio, ed attingendo solo al patrimonio personale non congelato, Gheddafi ed i suoi figli dispongono di risorse finanziarie superiori al bilancio annuo per la difesa di non pochi governi europei.

I ribelli hanno dimostrato una scarsa abilità guerresca non appena si esce dalla tattica per entrare nella strategia. Né si sono dimostrati in grado di trasformare la battaglia di Tripoli in una “vera” vittoria strategica “napoleonica”, in grado di porre fine alla guerra in colpo solo, distruggendo tutta la forza militare rimasta a Gheddafi, e/o catturandolo

Insomma, se l’esercito di Gheddafi non crolla e non si sbanda (vi sono indizi che potrebbe farlo, magari con un aiutino) la guerra è tutt’altro che finita, anche adesso che Gheddafi ha perso tutte le città importanti della Libia salvo tre, ha perso buona parte del l’appoggio internazionale che aveva (forse fino a pochi giorni fa aziende cinesi vagliavano la possibilità di vendergli armi), ed è costretto a ritirarsi nel deserto.

Valerio PeverelliIn 30 secondiguerra,in fiamme,libia
Ribadisco che in questi miei ultimi post mi sono dovuto scontrare con la contraddittorietà e la palese parzialità delle fonti. Tento quindi di fare un analisi, militare, della situazione senza sapere quanto corrisponda al vero, speculando e ragionando attraverso processi comparativi. Come ho avuto modo di dire la guerra psicologica ha...