In un’articolo apparso su Limes scrivevo in esordio:

In Geopolitica delle emozioni Dominique Moïsi descriveva il mondo musulmano, e in particolare il mondo arabo, come il polo mondiale della “cultura dell’umiliazione”. Il ricercatore francese, non senza qualche semplificazione di troppo, coglie un aspetto, quello di una percezione di sé nel mondo, decisamente logorata e tesa verso la prostrazione che in molti, negli ultimi decenni, hanno indicato come principale causa del montare del fondamentalismo islamico – il più famoso “motto” dei Fratelli Musulmani è proprio “L’islam è la soluzione” – al punto che, nell’analisi di Moïsi e di molti altri prima di lui, il terrorismo diviene diretta espressione di questo stato di cose .

Nel libro l’ipotesi di una rivolta non era nemmeno presa in considerazione (non è il solo: i commentatori, convulsamente, sono intenti a rielaborare le categorie di analisi per la sponda Sud del Mediterraneo, o per il mondo arabo, o per il Medio Oriente) e questo è il motivo per cui, a partire dal 14 gennaio scorso, giorno in cui Zin al-Abidin Ben Ali fugge in Arabia Saudita sotto la pressione delle proteste, le analisi in esso contenute diventano deboli.

Ma non proprio da buttare: la cifra della rivolta tunisina è proprio l’umiliazione, anche se circostanziata e direzionata in maniera differente rispetto a quanto immaginato. La prostrazione e l’umiliazione dei tunisini aveva individuato il proprio nemico nell’autocrate e i suoi sodali, non nell'”Occidente” o negli ex-coloni il vero nemico, mentre il discorso terrorista legava irrimediabilmente i due piani, e in senso gerarchico, nel calderone del “conflitto di civiltà”.

Il concetto era stato messo a fuoco diverse volte e in diverse maniere, più o meno chiaramente. Ad esempio, un esempio cronologicamente molto recente, da Samir Kassir in “L’infelicità araba“.

Ma già all’inizio di gennaio le cose sembravano essere cambiate. K. Selim in un articolo che sono orgoglioso di aver tradotto, scriveva in chiusura:

L’entusiasmo nell’opinione pubblica è dovuto al fatto che i tunisini  sono appena entrati nell’età della politica e hanno cessato di essere sudditi per diventare cittadini. E’ questo passaggio, inevitabile, all’età della politica che dispiace ai regimi e li rende distanti, ostili alla Rivoluzione del gelsomino. Tuttavia, anche se il contagio politico non può diffondersi come una epidemia di influenza, è già lì, in silenziosa incubazione. La Tunisia, democratizzandosi, ha fatto un balzo gigantesco per sé e per il resto del Maghreb. Nel caso di quel successo che vogliamo, i percorsi verso la cittadinanza che si forgiano in Tunisia possono aprire, finalmente, una prospettiva reale nel Maghreb.

Questa crepa nello smalto nordafricano annuncia la promessa di un Maghreb dei cittadini.

Certo, la reazione al nuovo “ciclo” della cittadinanza è forte, prende forme diverse, agisce erogando violenza, repressione, censura e tante altre cose.

Certo, gli interessi delle grandi potenze sono entrati in campo e stanno giocando la loro partita.

Ma, come argomenta Wahid Abd al-Meguid nel suo La rivoluzione del 25 gennaio, una prima lettura (Markaz al-Ahram, 2011, leggi qui una recensione) lo stato di cose non era emendabile, una “riforma” dello status quo era impossibile e “la rivoluzione era inevitabile.

Oggi, a quasi un un anno dalla fuga di Ben Ali, pur non intravedendo un futuro roseo per il mondo arabo (così come non intravediamo un futuro roseo per noi) non possiamo non riconoscere che le cose, almeno dal punto di vista della “Geopolitica delle emozioni”, vadano meglio, e la copertina del Time assegnata quest’anno al “Manifestante” ne è un segnale, seppur controverso.

La resistenza alle nuove forme di oligarchia, l’evolversi delle organizzazioni di attivisti, l’esplodere dell’opinione pubblica in centinaia di espressioni diverse certifica una svolta, speriamo non temporanea, nei paesi arabi (con l’eccezione, forse, della Libia, dove –non è un caso– è stata portata la guerra).  Anche in quei paesi, ad esempio il Marocco o l’Algeria, dove i media non hanno voluto riconoscere l’esistenza di una “rivoluzione”, vediamo crescere nuovi protagonisti, fino a ieri sconosciuti, che di umiliazione non vogliono più sentir parlare.

 

Lorenzo DeclichIn 30 secondiarabi,rivolta,rivoluzione
In un'articolo apparso su Limes scrivevo in esordio: In Geopolitica delle emozioni Dominique Moïsi descriveva il mondo musulmano, e in particolare il mondo arabo, come il polo mondiale della 'cultura dell'umiliazione'. Il ricercatore francese, non senza qualche semplificazione di troppo, coglie un aspetto, quello di una percezione di sé nel...