Alla fine di marzo dello scorso anno Roberto Bongiorni, giornalista del Sole24Ore, era stato a Derna, nella Libia orientale, e aveva intervistato Abd el-Hakim al-Hasadi, un jihadista liberato dai Gheddafi nel 2008 che militava nell’esercito ribelle e, in quel momento, fungeva da leader militare della città. Nell’intervista al-Hasadi ripercorreva la sua storia, ricordando anche il suo impegno, e quello di molti altri libici come lui, in Iraq. Quei combattenti, ora, erano tornati e davano il loro contributo sul fronte di Ajdabiya. Dichiarava poi che: “Se la guerra andrà avanti a lungo è facile che estremisti stranieri entrino dai nostri confini”.

L’intervista di Bongiorni fu il primo reale contatto che la stampa mondiale ebbe con la nuova realtà jihadista della Libia, una realtà della quale erano responsabili anche i Gheddafi, che avevano liberato dalle proprie prigioni —e in quei giorni continuavano a liberare— centinaia di jihadisti libici in seguito a un “programma di riconciliazione” avviato da Sayf al-Islam Gheddafi e che, dopo aver avviato i contatti con l’amministrazione americana, avevano accolto e poi liberato due libici affiliati ad al-Qaida provenienti da Guantanamo: Abu Sufian Ibrahim Ahmed Hamuda Bin Qumu e Muhammad Abdallah Mansur Al-Rimi (quest’ultimo, successivamente, venne catturato e messo in carcere dalle autorità della nuova Libia).

Nei mesi successivi vennero a galla diversi inquietanti aspetti del file “al-Qaida in Libia”. Da una parte c’era la questione dell’arsenale di Gheddafi, saccheggiato, finito nelle mani dei contrabbandieri e poi nelle mani di diversi gruppi afferenti alla galassia jihadista e/o al-qaidista dentro e fuori la Libia, dall’altra la vicenda delle liasons di jihadisti e/o alqaidisti con diversi esponenti dell’islam politico libico (primo fra tutti Ali al-Salabi, fino ad allora rifugiato in Qatar come molti altri esponenti dell’islam politico mondiale), oltre che con la monarchia qatarita: un esempio fra tutti è l’ormai famosissimo Abd el-Hakim Belhaj, il “jihadista-mercenario” ora impegnato in Siria, che aveva guidato alla conquista di Tripoli la propria katiba, sponsorizzata dal Qatar.

La lettura di tutto questo non era e non è semplice. Da una parte c’era una dimensione “patriottica” del fenomeno essendo i combattenti tutti libici: molti jihadisti presenti in Libia al momento della chiamata alle armi partecipavano ai combattimenti tenendo fede alle linee guida di quella che fin dagli anni ’80 era stata l’una vera organizzazione armata di opposizione al regime di Gheddafi, quella che nel ’97 divenne ufficialmente, dopo l’esperienza “afghana”, la Jama’a Islamiyyah Muqatilah bi-Libya, il Libyan Islamic Fighting Group (LIFG). Dall’altra c’erano evidenti legami con al-Qaida centrale, essendo il LIFG formato, fuori dalla Libia, dai cosiddetti “arabi-afghani” cioè appunto i mujahidin arabi che avevano combattuto contro i russi (e poi contro gli americani) in Afghanistan fino al 1989. Su questi legami si appoggiavano infatti quei libici che avevano scelto di stare con al-Qaida “centrale”, come Abu Yahya al-Libi o Attiyatullah Abd el-Rahman (ucciso in Afghanistan lo scorso agosto) e che si trovavano ai vertici dell’organizzazione.

Questo secondo aspetto non può essere analizzato nella giusta prospettiva senza considerare il riposizionamento strategico di al-Qaida centrale all’indomani delle rivolte nei paesi arabi e della morte di Osama bin Laden, una strategia che, derubricata la priorità di distruggere l’avversario americano pur avendo sempre come obbiettivo la costituzione  di uno “Stato islamico”,  tende a rompere l’isolamento dell’organizzazione,  “sciogliendosi” nelle realtà politiche locali e “cavalcando il caos delle rivolte arabe”, cosa che effettivamente è accaduta in Libia.

C’è poi da considerare l’ultimo elemento, quello dell’espansione di al-Qaida e delle organizzazioni ad essa affiliate nell’Africa subsahariana e dei nuovi legami fra i diversi “rami” africani (Shebab somali, Boko Haram nigeriani, al-Qaida nel Maghreb islamico in Mali, Niger, Ciad, Algeria) con la Libia, da cui è partito nei mesi della guerra un impressionante corsa al “riarmo”. La caduta di Gheddafi, infatti,  ha avuto nell’Africa subsahariana l’effetto di rafforzare le organizzazioni terroristiche proprio in quei paesi dove Gheddafi –che era a capo dell’Unione africana– aveva una certa influenza, e una “al-Qaida centrale” stanziata stabilmente in Libia avrebbe tutto da guadagnare in termini di logistica e di operatività.

Al-Qaida è un’organizzazione che si è sempre radicata in quelli che vengono chiamati “safe havens”, i “rifugi sicuri” dove i controlli delle autorità nazionali non riescono ad arrivare (vedi qui una mappa del New York Times sulla presenza di al-Qaida nel mondo): la fascia subsahariana, il Waziristan, la Somalia, alcune remote province dello Yemen ad esempio. Sappiamo che quando questi rifugi diventano meno sicuri i qaidisti si spostano altrove (la cosa avvenne ad esempio con la “migrazione” di Osama bin Laden e degli stessi affiliati del LIFG in Sudan nel 1992, dopo la caduta di Najibullah).

E mentre un paese come il Pakistan, come sottolinea il Guardian, diviene sempre meno “centrale” nella rete alqaidista (anche in considerazione del fatto che i Talebani, supportati dall’ISI pakistano, hanno aperto una fase di negoziato aprendo un loro ufficio in Qatar), tanto che la leadership pakistana di al-Qaida si trova in serie difficoltà anche dal punto di vista del reclutamento, da più parti giungono segnali che la Libia sta diventando uno di quei rifugi: alcuni “quadri” di al-Qaida ed altri membri dell’organizzazione sarebbero già in Libia o si appresterebbero a entrarvi. Laddove, contemporaneamente, come sottolinea Gianni Cipriani su Globalist, il network  starebbe riattivando i contatti in Europa, una notizia conferma quella, diffusa da un blogger della CNN, secondo cui al-Qaida sta già inviando da tempo jihadisti in Libia. Insomma in Libia, essendovi ancora una guerra, seppure a bassa intensità, o perlomeno uno stato di indeterminatezza che rischia di divenire cronico, potrebbe avverarsi la profezia di al-Hasadi: oltre ai libici il paese potrebbe ospitare (e forse già ospita) membri di al-Qaida “centrale”.

 

 

Lorenzo DeclichIn 30 secondiabd el-hakim al-hasadi,abd el-hakim belhaj,abu sufyan ibrahim ahmed hamuda bin qumu,abu yahya al-libi,al-qaida,al-qaida nel maghreb Islamico,ali al-sallabi,atiyat allah abd el-rahman,boko haram,ciad,gianni cipriani,guantanamo,jihad,jihadismo,libia,mali,moammar gheddafi,muhammad abd allah mansur al-rimi,niger,osama bin laden,qatar,Roberto Bongiorni,sayf al-islam gheddafi,shebab,somalia,terrorismo
Alla fine di marzo dello scorso anno Roberto Bongiorni, giornalista del Sole24Ore, era stato a Derna, nella Libia orientale, e aveva intervistato Abd el-Hakim al-Hasadi, un jihadista liberato dai Gheddafi nel 2008 che militava nell'esercito ribelle e, in quel momento, fungeva da leader militare della città. Nell'intervista al-Hasadi ripercorreva...