L’ONDATA DI MANIFESTAZIONI PIÙ O meno violente che ha coinvolto l’intero mondo musulmano in seguito alla diffusione su YouTube del trailer di The Innocence of Muslims , un film che denigra la figura del profeta Muḥammad, ha riaperto il dibattito sul conflitto tra Occidente e islam. L’esplosione della violenza contro obiettivi americani, il coinvolgimento di gruppi radicali islamisti e la concomitanza con la data simbolica dell’11 settembre, per di più a poche settimane dalle elezioni negli Stati Uniti, ridavano voce alla narrazione dello scontro di civiltà. Dopo aver tenuto banco negli anni successivi all’attacco alle Torri Gemelle, questo argomento aveva perso appigli retorici nei mesi delle rivolte arabe, anche perché nello stesso periodo gli Stati Uniti erano riusciti a uccidere il capo di al-Q ā‘ida, Osama bin Laden.

Ora la retorica si rinnova, suggerendo una rivisitazione delle cosiddette primavere arabe in chiave islamista. Questa volta, infatti, lo scenario è radicalmente nuovo: dopo le rivolte del 2010-11, tre paesi, Egitto, Libia e Tunisia, hanno visto un cambio di regime e nuove elezioni. In due casi su tre al governo sono ascesi partiti dell’islam politico appartenenti alla famiglia della Fratellanza musulmana: in Tunisia Ennahda (al-Nahḍa, rinascita) e in Egitto Libertà e giustizia. Le vittorie elettorali dell’islam politico hanno portato nuova linfa alla tesi dello scontro di civiltà.

Il panorama geopolitico si presta a questo ritorno di fiamma. Da una parte, i Fratelli musulmani, o meglio le loro emanazioni nazionali e partitiche, protestano ufficialmente trovandosi nel nuovo ruolo di rappresentanti politici legittimati. Dall’altra, la parte politicizzata di quell’islam che oggi chiamiamo salafita scatena violenze ovunque nel mondo arabo e in quello musulmano, calcando sul tema della blasfemia. Il risultato è che per chi è abituato alla pigra inclusione delle diverse facce dell’islam politico nella definizione di «islamisti», le analisi diventano tautologie: le proteste dimostrerebbero che gli islamisti, quelli al potere, e l’ala dichiaratamente violenta, cioè i salafiti, sono contro di noi. Entrambi. Stanti queste premesse, le diverse anime dell’islam politico vengono apparentate solo perché sono unite nella protesta, mentre ciò che le rende non sovrapponibili quando non incompatibili rimane sotto traccia (come la condanna del ricorso alla violenza).

Come se non bastasse, a tutto questo si aggiunge l’allarme per l’evidente deriva settaria che va prendendo il conflitto siriano, con l’inserimento del terzo attore salafita, jihadista e qaidista. Senza dimenticare l’ondata islamista nell’area del Sahel, con tre formazioni di derivazione o filiazione qaidista che conquistano il Mali settentrionale, scippandolo ai tuareg che in precedenza avevano dichiarato l’indipendenza dell’Azawad.


Tra ritorno alle origini e modernità

Per sciogliere il nodo delle tautologie, distinguere tra i vari gruppi e capire dove le dinamiche sono davvero preoccupanti è utile riavvolgere la pellicola della storia e tornare alla genesi dell’islam politico. Per tracciare una genealogia di quei movimenti che oggi etichettiamo come islamisti è necessario individuare alcune coordinate storico-politico-culturali.

La prima grande coordinata è l’adesione alla cosiddetta «utopia regressiva». Individuata nel mondo islamico moderno e contemporaneo da studiosi come Bruno Étienne e Gilles Kepel1 e già presente in diverse forme in periodo medievale e precoloniale, essa si manifesta nel desiderio di un irrealizzabile ritorno alla purezza degli antenati devoti (salaf ṣāliḥīn, da cui il termine salafī, salafita), ossia le generazioni di musulmani che costituirono la prima nazione musulmana (umma) nel VII secolo. Questo modello di Stato ha come capo il califfo, il successore (ḫalīfa) di Muḥammad o comandante dei credenti (amīr al-mu’minīn) ed è considerato conforme ai princìpi morali e giuridici del messaggio coranico. L’utopia regressiva rappresenta la base comune dell’islam politico in tutte le sue forme. Se in nome di essa una buona parte degli odierni salafiti rifiuta a priori il sistema democratico in quanto importato dall’Occidente, i Fratelli musulmani hanno da tempo accettato la sfida della democrazia (il loro slogan più famoso è: «l’islam è la soluzione», al-Islām ḥuwa al-ḥall).

La seconda coordinata ha a che vedere con la prima e riguarda la nascita della corrente wahhabita, sviluppata nell’Arabia Saudita del XVIII secolo, più precisamente nel Nağd, quindi non nell’area dove si trovano le due città sante della Mecca e Medina, lo Hiğāz. Lì viveva e predicava Muḥammad ibn ‘Abd al-Wahhāb (da cui il termine wahh ā biyya). Il wahhabismo si fa voce di un purismo 2 incentrato su un’interpretazione integrale del tawḥīd, l’unicità di Dio, cui non si assimila o associa nulla e nessuno: uno dei concetti più forti e distintivi della teologia musulmana, del suo «monoteismo perfetto». Sul versante politico, la wahh ā biyya si contraddistingue per la sua aggressività e per il suo lato iconoclasta: i suoi adepti, esattamente come gli odierni salafiti, distruggono qualsiasi simbolo, specialmente architetture, che associ il Dio unico a una manifestazione umana. Di qui la distruzione di tombe e santuari che celebrano personaggi particolarmente importanti nella storia dell’islam o figure di religiosi, spesso appartenenti a confraternite mistiche sufi, considerati degni di devozione specialmente nel Maghreb e nella fascia sahariana. Ai suoi albori la wahh ā biyya è stata considerata alla stregua di un’eresia3, per poi ammorbidire, almeno a livello istituzionale, alcuni dei suoi estremismi, finendo per essere assorbita e accettata nel sunnismo.

Oggi Arabia Saudita e Qatar sono i principali promotori del wahhabismo, uno dei vettori della loro crescente influenza internazionale. L’aspetto più evidente di questa esportazione è l’aumento di istituti di cultura islamica e associazioni di musulmani finanziate dalle due monarchie, sia nei paesi a maggioranza musulmana sia in Occidente. Questi poli culturali costituiscono in larga parte quella che viene definita da‘wa (predicazione) salafita, il settore «quietista» che in linea teorica non si occupa di politica. Meno chiari, ma comunque documentati, sono i rapporti non ufficiali dei monarchi, delle loro famiglie o di singoli ricchi esponenti wahhabiti con le organizzazioni violente o meno della cosiddetta salafiyya politica che operano nel mondo, tra cui figura anche la salafiyya jihadista. È nelle relazioni con la wahh ā biyya che troviamo il principale punto di differenziazione fra i Fratelli musulmani e gli odierni salafiti. Il salafismo contemporaneo è infatti spesso emanazione diretta o indiretta dell’attivismo in campo politico-religioso delle due monarchie del Golfo. Un attivismo che entra talvolta in contrasto con l’attività dei Fratelli musulmani, decisamente più autonomi dal punto di vista sia organizzativo sia finanziario.

La terza coordinata riguarda quella corrente di pensiero, nota agli studiosi proprio come salafiyya, nata nel XIX secolo in Egitto e che ha come suoi esponenti di spicco intellettuali egiziani e siriani: Muḥammad Abduh, Ğamāl al-Dīn al-Afġānī, Muḥammad Rašīd al-Riḍā . Essa s’inserisce nel più generale movimento della Nahḍa del mondo arabo e pone al centro della propria riflessione un’idea di riforma4 dell’islam nella modernità. Una sorta di filtraggio consapevole di valori occidentali, fra cui la democrazia, all’interno di un sistema integralmente e nuovamente islamico. Il riformismo della salafiyya storica ha molto più in comune con l’attuale movimento dei Fratelli musulmani (il cui fondatore, Ḥasan al-Bannā, fu in gioventù influenzato dall’ Iṣlāḥ) che non con quei gruppi che oggi definiamo salafiti, il cui approccio potremmo definire invece conservatore e più spesso estremista5. Il riformismo dei primi salafī infatti perde terreno nei decenni successivi per far spazio alle correnti radicali di pensatori come l’egiziano Sayyid Quṯb, il secondo grande ideologo della Fratellanza musulmana, o il pakistano Abu al-‘Ala al-Mawdudi. Va comunque notato che fin dagli albori la Fratellanza musulmana e i movimenti salafiti non rifiutano la modernità intesa (in senso riduttivo) come l’evolversi di capacità tecnico-analitiche, né l’Occidente, a patto di non intendere con esso lo stile di vita e, nel caso dei salafiti, la struttura politica.


Fratelli e salafiti nella società e nella politica

Secondo Olivier Roy anche il fattore religioso, come quello economico, si globalizza. Lo studioso sottolinea quanto si dia «per scontato che la religione, la cultura e il potere territoriale siano intrinsecamente associate fra loro», mentre «il più incisivo ruolo della religione come fattore politico e strategico non è un ritorno alle religioni tradizionali». Infatti, «le religioni che hanno successo sul “mercato globale” sono disconnesse dalle culture tradizionali e da territori specifici»6. Si tratta di una nuova forma di religiosità collegata al fenomeno della globalizzazione, la cui relazione con il territorio è labile e talvolta inesistente. Le dinamiche religiose non hanno più nulla a che fare con la tradizionale competizione fra confessioni civilizzatrici: «Non è l’islam in sé che sta crescendo né la cristianità in sé che sta recedendo: da ambo le parti vi sono specifici spostamenti verso nuove forme di religiosità, e ne fanno le spese [quelle] forme (…) tradizionali, culturalmente connotate»7. I movimenti religiosi che crescono con più velocità sono i pentecostali in campo cristiano e i salafiti in campo musulmano: entrambi hanno una dimensione globale e il secondo è dichiaratamente nemico dell’islam tradizionale, inteso come islam popolare, collegato a un territorio e a una storia specifici.

Le nuove forme di religiosità hanno una connotazione carismatica e fondamentalista e il cosiddetto «ritorno del sacro» non è un revival religioso ma una vera e propria trasformazione. La visibilità della religione nello spazio pubblico non ha più il carattere di un’affermazione culturale come poteva essere ad esempio la rivoluzione islamica iraniana, bensì il carattere della rivendicazione di quelle che Roy chiama «tradizioni ricostruite». In questo contesto, è proprio il fondamentalismo, all’interno delle rispettive grandi denominazioni, la forma religiosa che più si trova in conformità con la globalizzazione: esso «accetta la sua deculturazione e ne fa strumento di rivendicazione della propria universalità. E così il tradizionale legame fra una religione e una cultura viene eroso».

Questa prospettiva sulle religioni nel mondo globalizzato è molto utile per comprendere le sostanziali differenze fra i movimenti salafiti e la Fratellanza musulmana nella contemporaneità. Per quanto entrambi abbiano una dimensione globale, seguono traiettorie profondamente diverse. I primi hanno successo in quanto prodotto e strumento della globalizzazione, seguaci di una religione deculturata che trova terreno di coltura in qualsiasi periferia sociale, culturale o economica del mondo, comprese quelle occidentali (non a caso ha molta fortuna in un contesto non arabo). La seconda ha un approccio decisamente poco carismatico, anzi orientato al pragmatismo, come testimoniano gli attuali leader dell’odierno partito Libertà e giustizia egiziano e anche il nuovo presidente Mursī . Se la Fratellanza riesce ad avere influenza è in virtù del suo radicamento in una storia e in una tradizione ben definite, collegate al contesto nazionale e culturale in cui essa è presente.

Questo fattore si riverbera nelle relazioni con altre realtà religiose, nel caso dei salafiti conflittuali e in quello dei Fratelli musulmani dialoganti, così come in differenze sostanziali nelle strutture organizzative. Potremmo raffigurare i salafiti come una galassia, un concentrarsi, non senza episodi centrifughi, di singoli elementi attorno a un centro di attrazione. I Fratelli musulmani assomigliano invece a un albero che ha radici (i fondatori), un tronco (la Fratellanza in Egitto), rami (le organizzazioni «figlie» in tutto il mondo, specie nel mondo arabo) e germogli (le associazioni, i sindacati e i partiti, nati da quelle organizzazioni).

Di qui la tendenza storica della Fratellanza verso la moderazione, o meglio verso il compromesso e un’attività svolta tutto sommato all’insegna dell’unità di intenti. Le diverse formazioni che si collegano ai Fratelli nei paesi arabi toccati dalle rivolte presentano strategie politiche simili tra loro: formazione di un partito, dialogo con le altre forze in campo, dibattito sulle costituzioni, tentativo di egemonia politico-culturale nel paese. Il salafismo sembra invece scosso da spinte polidirezionali. Nella sua galassia cozzano, senza una strategia unica, tutte le forme di intervento o non intervento: dal quietismo che si risolve nel rimanere ai margini della vita politica, alla decisione di entrarvi (vedi i partiti salafiti in Egitto), dall’espansione mondiale di estremisti non dichiaratamente violenti (ad esempio Ḥizb al-taḥrīr) ma contigui a gruppi che praticano la violenza, fino alle vere e proprie organizzazioni terroristiche (tra cui al-Qā‘ida), o comunque jihadiste, che usano il concetto islamico di jihād in chiave bellica8. Anche la cultura politica è differente: i partiti dei Fratelli propongono programmi, per quanto abbozzati e spesso soggetti a cambiamenti repentini9; le organizzazioni salafite lanciano slogan e procedono per princìpi che trovano di volta in volta maggiore o minore risonanza.

In questo quadro, il fatto di agire nello stesso ambito retorico dell’islam pone salafiti e Fratelli musulmani in relazione. Nei paesi in cui i secondi sono oggi al governo (Tunisia, Egitto e Marocco), i primi cercano di accrescere il consenso sfidandoli sul terreno dell’islamità e ponendosi come i depositari unici del discorso religioso. Tra l’altro, i salafiti riscuotono un certo successo nei settori più radicali della Fratellanza stessa, impegnata a contenere le sue diverse anime in un unico contenitore. Anche in questo caso la chiave per la comprensione di alcune dinamiche si trova nella natura delle due strutture. Se il mondo salafita è in qualche modo federativo – ogni gruppo fa tendenzialmente storia a sé e i rapporti non sono sempre organici – quello della Fratellanza è centralizzato e la dissidenza è difficilmente tollerata. Da una parte troviamo personaggi, gruppi e reti di ispirazione salafita, generalmente e genericamente legati fra loro da un’ideologia ispiratrice e con fonti di finanziamento esterne. Dall’altra abbiamo gli uffici e gli organigrammi della Fratellanza che, nell’uno o nell’altro paese, possono avere maggiore o minore influenza, maggiore o minore ramificazione anche in ragione del potere economico dei suoi appartenenti10.


Fratelli musulmani e salafiti in Nordafrica

In Marocco, dove il partito della Fratellanza, Giustizia e sviluppo, è al governo dopo le elezioni tenutesi in seguito alle contestazioni del movimento «20 febbraio», il movimento salafita è storicamente osteggiato dalle autorità. Esso ha generato una corrente jihadista e qaidista all’estero, così come parte dei famosi «arabi afghani», quelle formazioni jihadiste, alcune poi confluite in al-Qa’ida, che hanno combattuto prima contro i sovietici e poi contro gli americani in Afghanistan sin dagli anni Ottanta. Nel nuovo corso islamista, i salafiti provano oggi a uscire allo scoperto, abbandonando la posizione quietista. Dopo la liberazione di alcuni leader storici, la da‘wa salafita riprende vigore ed è in discussione la formazione di un partito.

Giungono intanto notizie della nascita di un gruppo denominato Anṣār al-šarī‘a (Difensori della šarī‘a), la cui consistenza è ancora da verificare ma che, stando ai suoi primi proclami, porterebbe avanti con metodi pacifici la lotta contro la laicità per instaurare uno Stato islamico. La denominazione non ispira fiducia, visto che nel resto del mondo arabo l’etichetta Anṣār al-šarī‘a raccoglie vari gruppi salafiti radicali o jihadisti di recente formazione, forse frutto di un rebranding di al-Qā‘ida o di una sua parte11. In Yemen, dall’aprile 2011 i membri di questa organizzazione sono impegnati in combattimento nel Sud del paese e sono considerati una vera e propria emanazione di al-Qā‘ida nella Penisola Arabica, anche se a differenza di essa non usano molto l’arma dell’attentato. In Tunisia si sono fusi dall’aprile 2011 attorno a un ex arabo afghano liberato dopo la caduta di Ben Ali e, pur strutturandosi come movimento politico, si rendono protagonisti di diverse azioni aggressive e violente contro obiettivi laici. In Libia, nati alla morte di Muammar Gheddafi ma formatisi ufficialmente nel febbraio 2012, sembrano essere legati ad al-Qā‘ida e sono ritenuti responsabili dell’attacco alla sede diplomatica americana di Bengasi che l’11 settembre scorso ha causato la morte dell’ambasciatore Christopher Stevens. In Egitto, sebbene non in via ufficiale, sono presenti come gruppo collegato a un altro ex «arabo afghano» liberato dalle carceri egiziane dopo la caduta di Mubarak.

In Algeria la storia dell’islam politico è complessa. Da una matrice della Fratellanza, l’islamismo si è progressivamente radicalizzato, vedendo ingigantirsi la componente salafita e jihadista, sfociata poi nella guerra civile degli anni Novanta. Da questa esperienza nasce il primo gruppo terroristico ispirato al salafismo, il Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento. Le parti dialoganti dell’islamismo vengono schiacciate e si ritrovano nel 2012 a perdere le (ben poco regolari) elezioni politiche. Dall’altra parte, il salafismo sopravvive quasi unicamente in forma di gruppi estremisti e terroristici collegati ad al-Qā‘ida, il cui influsso supera da almeno un decennio le frontiere soprattutto a sud, nella fascia saheliana: in questo senso l’Algeria può considerarsi la centrale del salafismo jihadista nell’area.

In Tunisia le relazioni fra Fratelli musulmani, con il loro partito Ennahda ora al governo, e gruppi salafiti in rapida ascesa hanno assunto i contorni dello scontro dopo i fatti dell’11 settembre 2012 sfociati negli assalti a obiettivi occidentali. Tuttavia, tra la caduta di Ben Ali e oggi, Ennahda è stata accusata più volte di aver strizzato l’occhio a queste formazioni: provocazioni anche violente non sono state infatti affrontate con la dovuta fermezza e ai salafiti è stato permesso di espandersi, in nome di una tolleranza e un pluralismo non applicati in altri casi12. Ennahda non ha un avversario islamista in parlamento: i partiti salafiti esistenti in Tunisia non hanno partecipato alle elezioni. Di conseguenza, lo scontro politico principale avviene nel sociale, dove la forza che si oppone all’egemonia dei nahḍāwī è principalmente il sindacato tunisino: forse Ennahda vede proprio nelle formazioni salafite un alleato naturale, seppure potenzialmente pericoloso.

Anche in Egitto le relazioni fra i due gruppi risultano ambigue e ambivalenti. Qui i Fratelli musulmani vantano un capillare radicamento nella società e costituiscono una non secondaria realtà economico-finanziaria. Tuttavia la presenza del blocco salafita in parlamento è imponente, con un 27% di suffragi alle elezioni parlamentari. L’Egitto è il paese dell’area dove negli ultimi anni è stata più forte l’influenza economica e culturale dei paesi del Golfo, anche in virtù di una diaspora egiziana di dimensioni considerevoli, specialmente in Arabia Saudita. A ciò si aggiunga la politica di apertura nei confronti del salafismo di importazione (anche tramite canali televisivi satellitari) del deposto Mubarak, introdotta per limitare l’influenza dei Fratelli. In assenza però di un vero progetto politico da parte dei nuovi partiti salafiti, la Fratellanza anche in Egitto non vede la salafiyya politica come un pericolo immediato e potrebbe considerarla una sponda per una riscrittura islamizzante della costituzione egiziana. Salvo poi trovarsi spiazzata e non più titolare del discorso islamico in situazioni come le proteste anti-americane, in cui i gruppi salafiti più radicali dimostrano di saper mobilitare anche le fasce del sottoproletariato urbano attorno ai propri semplici slogan.

In Libia, è stato l’islam della confraternita mistica della sanūsiyya, la cui storia è legata anche in parte al movimento wahhabita, a giocare un ruolo politico di primo piano, specie in periodo coloniale. La Fratellanza musulmana e le formazioni salafite non hanno avuto spazio istituzionale nell’èra di Gheddafi, mentre per il dittatore i pericoli maggiori nascevano da formazioni jihadiste, poi rifugiatesi in Afghanistan e Sudan in seguito alla feroce repressione degli anni Novanta. Durante la guerra civile l’islam politico si è riaffacciato nella forma di personale politico (espatriato o riciclato) e di brigate di combattenti anti-Gheddafi, ma ha poi perso le elezioni. Il che, ovviamente, è ben lungi dal significare che l’islam, inteso come universo valoriale, non sia fondamentale nel dirigere comportamenti e abitudini dei cittadini libici. Le formazioni salafite estremiste, contigue o direttamente collegate al terrorismo qaidista, sono qui numericamente poco rilevanti. Al contrario della Tunisia, dove iniziano ad avere un radicamento negli strati più impoveriti e disperati della società, almeno per ora sembrerebbero legate al ritorno di qaidisti e jihadisti irriducibili ma isolati. Quanto alla Fratellanza, si è presentata divisa in partiti diversi, anche in ottica localista. Non è mancata la cooperazione tra Fratelli ed estremisti: alcuni personaggi provenienti dal jihadismo e dalle esperienze afghana o irachena hanno infatti composto un nuovo fronte politico assieme a singoli esponenti della Fratellanza libica, il partito Waṯan. Il tutto con la petromonarchia del Qatar come referente politico e finanziario, sia durante sia dopo la guerra. Ma anche in questo caso l’esperimento si è concluso con un flop elettorale.


Sahel terra di jihād

Per quanto riguarda i paesi del Sahel è necessario un discorso a parte. Entriamo in un contesto religioso e culturale maggiormente diversificato, in cui quella araba è solo una delle diverse componenti linguistiche. Siamo ai bordi del cosiddetto «islam periferico», in aree dove l’islam non ha nei suoi primi secoli di vita un impatto omogeneo e dialoga con la realtà etnico-linguistico-religiosa locale. Nel Sahel si installa un islam popolare generalmente aperto, spesso orientato dalle confraternite sufi, meno regolato da autorità religiose costituite e per questo meno permeabile a influssi salafiti, anche se meno attrezzato contro gli estremismi. I Fratelli musulmani non hanno un forte impatto dal punto di vista politico mentre il salafismo, il cui punto di irraggiamento è principalmente l’Algeria, trova terreno di coltura nella sua forma più estrema e violenta. Ciò è dovuto anche alla natura del territorio, desertico, impervio e poco controllato, nel quale fin dalla lo­ro nascita trovano rifugio gruppi salafiti-jihadisti e qaidisti. I cosiddetti safe havens, i campi di addestramento e i terminali del contrabbando di armi sono il principio logistico sul quale si strutturano le diverse branche di al-Qā‘ida .

La storia del salafismo nel Sahel è dunque in buona parte (anche se non esclusivamente) la storia di al-Qā‘ida nel Maghreb islamico, che prima della stagione delle rivoluzioni arabe sembrava avere numeri ed espansione relativamente ridotti. La situazione odierna invece appare profondamente mutata, con i gruppi armati che si diversificano e si dotano di una nuova strategia: combattere per conquistare ampie fette di territorio, non limitandosi più ad eseguire sequestri o a compiere azioni dimostrative, instaurando la loro interpretazione talibana della šarī‘a.

Il salto di qualità rispetto al passato lo segnala nel Nord del Mali Anṣar al-Dīn , un gruppo che esemplifica l’influenza delle centrali wahhabite del Golfo 13 sui movimenti e sulle formazioni jihadiste sparse nel mondo e ci racconta il livello di coinvolgimento raggiunto nel conflitto da entità non locali. Iyyād Āġ Ġālī, la guida del gruppo, non è arabo: è stato uno dei protagonisti della rivolta tuareg in Mali nel 1990, che si chiuse con un cessate-il-fuoco nel 1996, dopo il quale egli normalizzò i rapporti col governo maliano, entrando addirittura a far parte dello staff diplomatico in Arabia Saudita. Lì Āġ Ġālī ha avuto una «riconversione» in senso wahhabita radicale, tanto da essere espulso dal regno per sospetti legami con terroristi di al-Qā‘ida 14.

Di lui si sospettano solidi rapporti con i servizi segreti algerini così come con diversi leader di al-Qā‘ida nel Maghreb islamico. In quest’ottica la crisi in Mali si internazionalizza sempre più. Da una parte le cronache raccontano di una campagna di reclutamento (anche minorile) dei jihadisti in patria come all’estero e della presenza di combattenti degli estremisti nigeriani di Boko Haram15.

Dall’altra le analisi geopolitiche individuano il Nord del Mali come nuovo centro di confronto strategico16, in cui sono coinvolti altri attori regionali e la Francia. Senza dimenticare il Qatar.

1. B. ÉTIENNE , L’islamisme radical , Paris 1989, LGF, trad. it. L’islamismo radicale , Milano 2001, Rizzoli; G. KEPEL , Jihad: expansion et déclin de l’islamisme , Paris 2000, Gallimard, trad. it Jihad, ascesa e declino: storia del fondamentalismo islamic o , Roma 2001, Carocci.

2. Un vecchio orientalista come Richard Francis Burton (1821-1890) definiva i wahhabiti i «puritani dell’islam».

3. H. REDISSI , Le Pacte de Nadjd. Ou comme l’islam sectaire est devenu l’islam , Paris 2007, Seuil.

4. Iṣlāḥ , riforma appunto, è il nome del movimento culturale inaugurato da questi pensatori.

5. In queste analisi non è tutto bianco o nero: come la Fratellanza è storicamente attraversata da tendenze radicali, esiste anche oggi un salafismo riformista.

6. O. ROY, «Religious Revivals as a Product and Tool of Globalization», Quaderni di relazioni internazionali , Ispi, n. 12, aprile 2010.

7. O. ROY, ibidem.

8. Generalmente il movimento salafita viene descritto in base a queste sue tre anime: politica, da‘wa o predicazione (quietismo), jihadista. Si tratta appunto di anime, in contatto e dialogo fra loro.

9. Questo fatto è dovuto all’assenza di una cultura di governo più che di una cultura democratica, anche se non mancano esempi, specialmente in Egitto, di prevaricazioni delle organizzazioni della Fratellanza in senso antidemocratico.

10. Si veda il caso dell’Egitto, in cui il primo candidato dei Fratelli musulmani alla presidenza, Ḫayrat al-Šāṯir , poi estromesso dalla corsa per decisione della commissione elettorale, è anche un importante imprenditore.

11. Su Aṣār al-šarī‘a si veda A.Y. ZELIN, «Know your Ansar al-Sharia», Foreign Policy, 21/9/2012.

12. Si vedano gli episodi di limitazione della libertà d’espressione e la generale campagna contro «gli attentati al sacro», le cui vittime principali sono gli attivisti della rivoluzione tunisina.

13. «Mali: Le Qatar accusé de soutenir financièrement les rebelles du nord» , Slate Afrique , 7/6/2012.

14. O. DIAGOLA , «L’Arabie saoudite expulse un conseiller culturel soupçonné d’amitié avec Al Qaeda », Farafina , 22/9/2010.

15. C.-O. VOLLUZ , «Au Nord-Mali, les nouvelles recrues des jihadistes ont 10 ans», Rue89 , 10/7/2012; «Des hommes d’Aqmi et d’Ansar Dine recrutent au nord du Mali et au Pakistan», Rfi , 8/5/2012; «Dozens of Boko Haram in Mali’s Rebel-Seized Gao: sources», Al-Arabiya , 9/4/2012.

16. H. CLAUDOT- HAWAD, «Business, profits souterrains et stratégie de la terreur. La recolonisation du Sahara», Temoust , 7/4/2012.

Lorenzo Declichjihadicalimes,Prequel
L’ONDATA DI MANIFESTAZIONI PIÙ O meno violente che ha coinvolto l’intero mondo musulmano in seguito alla diffusione su YouTube del trailer di The Innocence of Muslims , un film che denigra la figura del profeta Muḥammad, ha riaperto il dibattito sul conflitto tra Occidente e islam. L’esplosione della violenza...