Un mondo islamico costellato di fatwa minacciose e/o stupide e/o folkoristiche. Un mondo dei mass media che sul termine fatwa monta allarmi, inventa notizie, produce falsi. Un “classico” dell’”islam percepito”.

Il tema della promiscuità dei sessi (ikhtilat, alcuni rendono il concetto con l’eufemistico “intimità”) è centrale nella percezione che abbiamo dell’islam perché, investendo tutta la letteratura e la prassi degli indumenti femminili, è sempre al centro dell’attenzione nei media. La questione del velo e della “modestia” femminile nel vestire, tuttavia, è solo il punto terminale di un discorso che riguarda i rapporti sociali fra uomini e donne nella vita di ogni giorno. Su quel fronte si scontrano diverse visioni dell’islam: un esempio che ce ne descrive la ricchezza è la vicenda della fatwa dell’allattamento al seno.

Allattare il proprio collega

Nel 2007 un docente di al-Azhar, Ezzat Atiyya (al tempo era a capo del Dipartimento dei hadith), emanò una fatwa, cioè un parere giuridico non vincolante, in cui veniva aggirato il “problema” della promiscuità fra uomini e donne nei luoghi di lavoro attraverso un artificio giuridico decisamente stravagante: nella giurisprudenza islamica sono depositati un buon numero di argomenti decisivi riguardo al fatto che l’allattamento genera consanguineità (ad esempio la nutrice diventa consanguinea di chi allatta) e, poiché i consanguinei – oltre a non poter avere rapporti sessuali fra loro – possono vivere in promiscuità, il gioco è fatto: per lavorare insieme nello stesso ufficio (senza veli di sorta) è sufficiente che una donna allatti il suo collega.

Quella che passò nei media come la breastfeedin fatwa ebbe un’eco gigantesca e scoperchiò una serie di problematiche fra cui, principalmente, quella del germinare incontrollato di fatwa emanate da non si sa chi e a che scopo. In particolare si pose la questione di siti come ad esempio Islamonline.net di Mohammaed al-Qaradawi che, senza controllo, sparano pareri a ripetizione alimentando talvolta una “globalizzazione” di versioni viete e radicaliste dell’islam e scollegando i fedeli da un islam “locale” o comunque “tradizionale”, generalmente moderato e non politicizzato (il problema è tanto più evidente in aree dove l’islam non ha un radicamento storico, come l’Europa).

La ricezione della fatwa in Occidente fu segnata da reazioni di tutti i generi, molte delle quali davvero scomposte. Il sentimento prevalente fu all’insegna di un facile moralismo (“ma insomma, immaginare che un adulto sconosciuto si attacchi al seno della sua collega è medievale“), tavolta collegato con il rifiuto della presenza dei musulmani in Occidente (“vedete quanto sono selvaggi i musulmani? Vogliamo questi medievali in Europa?) e talvolta ironico (“i bacchettoni che tengono recluse le loro donne dovranno scoprirle il seno”) o divertito (“tutti in Egitto!”).

Il rumore di fondo cessò parzialmente quando si seppe che per l’estensore della fatwa, era sufficiente somministrare una goccia di latte per cinque volte di seguito senza necessariamente attaccarsi al seno (via bicchiere, insomma). Agli osservatori occidentali sfuggì però la rilevanza di tutta la vicenda a livello locale. L’allattamento dell’adulto si sarebbe ridotto ad una specie di rituale, strano quanto volete. E si sa che i rituali, nel tempo, avendo una funzione simbolica finiscono per sostituire del tutto le cose, (si pensi al fatto che i cristiani mangiano il corpo di Cristo in forma di un’ostia e che esistono delle “reliquie per contatto” cioé pezzi di stoffa che sarebbero santi perché sono venuti a contatto con la reliquia stessa).

Per quanto strano possa sembrare, si sarebbe potuto immaginare un futuro in cui qualsiasi donna che abbia mai allattato avrebbe potuto vivere in promiscuità con qualsiasi uomo (avendo tuttavia l’obbligo di castità nei suoi confronti, subentrando con l’allattamento rituale il tabù dell’incesto).

Quindi, a parte le ironie, l’effetto dirompente cui un processo simile avrebbe potuto portare non sfuggì ai diretti interessati: gli egiziani.

La cosa fu dibattuta in televisione e discussa in parlamento. Alla fine, come era prevedibile, Ezzat fu cacciato da al-Azhar e tutto venne messo a tacere (nel maggio scorso, fra l’altro, Atiyya ha vinto il ricorso presso la Corte amministrativa del Cairo ed è stato reintegrato ad al-Azhar).

Uccidere la propria collega

Se la fatwa dell’allattamento fece il giro del mondo vista la stravaganza del punto di vista da cui partiva, la fatwa di Abdul Rahman al-Barrak – febbraio 2010 – che giustifica l’assassinio di chi permetta la promiscuità fra uomini e donne sul luogo di lavoro e nelle scuole ha avuto invece ben poca eco. Ciò forse avvenne perché una fatwa di questo genere aderisce ad uno stereotipo consolidato che vede l’islam nel suo complesso attestato su posizioni viete e retrograde.Eppure la vicenda avrebbe meritato maggiore attenzione: il saudita al-Barrak non è uno sconosciuto anzi. Si tratta di uno degli `ulama’ (dotti, dottori della Legge) che Bin Laden citò nel lontano 1994 nella sua famosa Lettera allo Shaykh bin Baz, l’allora Gran Muftì dell’Arabia Saudita (morto nel 1999). In quella lettera, il suo primo messaggio al mondo, Bin Laden criticava Bin Baz per la sua condiscendenza con il regime saudita e la sua posizione nei confronti dei negoziati di pace di Oslo fra israeliani e palestinesi. Bin Laden, lì, poneva le basi della sua teoria jihadista o meglio – essendo un comunicatore più che un “dotto” – esprimeva il sentire suo, del suo gruppo e di una folta squadra di `ulama’ sauditi, fra cui proprio Barrak. Era l’emersione, della quali pochi tennero conto, della strategia comunicativa del più efficace e distruttivo terrorismo dei nostri tempi. Lo stesso al-Barrak, nell’ottobre 2011, emanava un’altra fatwa in cui  si affermava che le donne non possono votare perché questo sarebbe una “imitazione degli infedeli” e aggiungeva che “le elezioni sono la cosa peggiore che i musulmani hanno mutuato dagli infedeli”.

Il sesto pilastro dell’islam saudita (la segregazione femminile)

Stessa scarsa attenzione prestata nei mesi successivi alla più generale questione dell’ikhtilat, ovvero del contatto/mescolanza di generi (in inglese diventa mixing genders e in italiano “promiscuità” nel senso meno sessuato del termine) fra persone non appartenenti alla stessa cerchia famigliare. Nel marzo 2010 Youssef al-Ahmad, un `alim saudita consigliava di abbattere la moschea della Mecca, ovvero la moschea più importante del mondo dove si trova la ka`aba e verso cui ogni musulmano prega, e ricostruirla in modo che uomini e donne potessero rimanere segregate. In aprile Ahmed Bin Qassim al-Ghamdi veniva deposto dall’incarico di Presidente del Comitato per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio (la polizia religiosa) dell’area di Mecca perché si era pronunciato contro la segregazione dei sessi. A giugno si era poi accesa la vicenda della breastfeeding fatwa in Arabia Saudita. Da una parte c’era `Abd al-Mohsin al-`Obaykan (pro, ad alcune condizioni), e dall’altra Ishaq al-Huwayni (contro, senza se e senza ma). Il primo, epigono in tutto del suo ispiratore egiziano, Ezzat Atiyya, affermava che il latte della donna con cui si vuole essere in promiscuità non deve per forza essere preso direttamente dal seno. Ishaq al-Huwayni rispondeva che in qualunque modo tu lo prenda fai male. Contestualmente alla polemica arrivava la notizia che l’autista di un pullman per sole donne, nell’est del paese, aveva intimato a una passeggera di porgergli il suo seno. La donna lo denunciava. Verso la fine di giugno questa vicenda dell’autista ispirava alcune donne saudite che combattono per poter avere la patente di guida che a loro è negata: minacciavano di allattare i propri autisti. Infine, il 13 agosto 2012, l’Authority saudita per la proprietà industriale, l’ente statale responsabile per lo sviluppo industriale delle città del regno Saudita, chiedeva e otteneva un finanziamento di circa 108 milioni di euro per la costruzione di una “città delle donne”, ovvero un luogo, nella municipalità orientale di Hafuf, in cui le donne possano lavorare senza avere alcun contatto con gli uomini.

La fatwa va alla guerra

Probabilmente nessuno dei pur numerosi jihadisti presenti in Siria, anche stranieri, ha mai preso in seria considerazione la fatwa di Ezzat Atiyya: come abbiamo visto l’opposizione ad essa proveniva proprio dagli ambienti più tradizionalisti. Eppure nel 2012 la fatwa diventava oggetto di propaganda, con tutte le storture e le volute omissioni del caso, nel contesto della guerra civile siriana, per “dimostrare” quanto fossero chiusi e retrogradi gli oppositori al regime di Bashar al-Asad, identificati dalla propaganda stessa come “terroristi islamici pagati dal Qatar e dall’Arabia Saudita”. Il blog “The Truth about Syria” (23 gennaio 2012, ripreso dieci mesi dopo da “Informare per Resistere”) la citava in un lungo post dal titolo: “I media arabi e occidentali rendono onore agli stupratori e ignorano le vere vittime innocenti”:

Molti dei nostri problemi nascono perché sheykh e uomini di religione condonano alcuni oltraggiosi comportamenti e incoraggiano i loro sostenitori a perpetrarli. E non solo: il disastro si compie quando alcuni sheykh che vivono nell’est del mondo (o anche sulla luna) emanano alcune fatwa e molti stupidi musulmani in tutto il mondo ritengono che seguirle sia un dovere dettato da Dio in persona.

Menzionerò qui una fatwa molto famosa emanata dallo sheykh Izzat Ateyyah che insegna hadith nella moschea di al-Azhar in Egitto, conosciuta come “la fatwa del succhiare il seno”.

In parole povere la fatwa significa: quando un uomo e una donna lavorano insieme e siedono nello stesso ufficio o luogo di lavoro senza la presenza del cosiddetto mahram e con il fatto che essi possono legalmente sposarsi, è meglio per la donna lasciare che l’uomo succhi il suo seno e prenda del latte, cosicché l’uomo diventi un mahram e non la possa più sposare. (il mahram è di norma un parente diretto maschio della donna, come il padre, il figlio, il nipote o qualcuno che lei non possa sposare in base alla legge islamica).

I partiti liberali in Egitto si sono incolleriti dopo l’emanazione di questa fatwa, considerata oltraggiosa e inaccettabile, così al-Azhar ha dovuto sospenderla ed espellere lo sheykh che l’aveva emanata. Tuttavia il danno era già fatto e molti stupidi in Egitto e in Arabia Saudita l’hanno supportata. Anche IslamWeb, un sito che ospita un gran numero di fatwa, difese questa pazzia anzi, essi la attribuirono al profeta Muhammad, la qual cosa è assolutamente ridicola.

La fatwa di Facebook

Il 3 febbraio 2010 si diffonde la notizia secondo cui Sheykh Adbul Hamid al-Atrash, ex presidente della commissione per le fatwa dell’Università di al-Azhar, avrebbe emanato una “fatwa contro Facebook”. Secondo la fonte, un quotidiano del Qatar, la fatwa di al-Atrash condannerebbe quel social network in quanto distrugge le famiglie: sarebbe uno dei motivi dell’aumento di divorzi in Egitto. La fatwa è un parere, di natura giuridica ma un parere. Il mufti, in questo caso al-Atrash, è colui che può emanare le fatwa. Le fatwa non sono vincolanti (escludendo alcuni casi particolari in particolari paesi) se non – moralmente – per coloro che riconoscono autorità nel mufti che l’ha promulgata.In sostanza: niente di più che una raccomandazione ad opera di un mufti egiziano, neanche il più importante, a coloro che lo ritengono degno di essere ascoltato. Eppure il giornale radio di RAI2 titola: “Islam contro facebook”. A cascata, partendo dai lanci di agenzia, arrivano i titoli in rete: “L’islam proibisce facebook, causa divorzi e infedeltà”; “Niente Facebook per musulmani”; “Islam: Facebook rovina la famiglia e causa divorzi, una fatwa lo vieta”.In giornata arriva la smentita: al-Azhar non avrebbe mai emanato una fatwa del genere e sul sito dell’università islamica non è mai stata pubblicata. Il giorno seguente anche Marc Lynch, sull’autorevole Foreign Policy, smonta completamente la notizia in un articolo dal titolo: “Al-Azhar ha davvero emanato una fatwa contro Facebook?”. Tuttavia il tema è “virale” e si diffonde a macchia d’olio (la fonte, per tutti, è un trafiletto del quotidiano al-Quds al-arabi) mentre passano sotto silenzio le proteste, in Marocco, per una fatwa contro il vino. L’ANSA, addirittura, costruisce un’inchiesta attorno alla non-notizia, dal titolo: “Fatwa contro Facebook? Coro di no dai giovani musulmani”. Il lavoro di ricerca dell’inchiesta consiste nel raccogliere le lamentele di “giovani” quanto generici “musulmani” al riguardo della fatwa, come se questo nonprovvedimento interessasse tutto l’islam, dal Marocco all’Indonesia, e non – al limite – soltanto l’Egitto. Il pezzo esordisce con la ripetizione della non-notizia, che contiene lo stesso errore iniziale, ovvero vi si cita una fonte “al-Quds al-arabi” che non è la fonte originale. Segue un report sulla smentita, piena di frasi al condizionale. Si passa a interviste a questi “giovani musulmani” che vogliono la libertà per poi chiudere il pezzo. Secondo l’ANSA le autorità egiziane tengono da tempo sotto osservazione FB perché rappresenta un momento di libertà di espressione e di organizzazione. In questo contesto si cita anche il movimento 6 aprile che, più tardi, sarà protagonista della rivoluzione egiziana:

Circola voce non confermata che più volte [le autorità egiziane] avrebbero valutato l’ipotesi – come è accaduto in Iran – di chiudere l’accesso al sito. Specie a seguito delle manifestazioni organizzate dal movimento “6 Aprile”, nel 2008 contro la chiusura di una fabbrica, che radunarono 70.000 persone nel nord dell’Egitto, violando la legge d’emergenza del 1981 emessa dopo l’assassinio di Sadat, che proibisce raduni non autorizzati.

Cosa ci voleva dire l’ANSA? Che le autorità egiziane e sheykh al-Atrash, ovvero lo pseudo-emanatore della fatwa, erano in combutta, o che le autorità egiziane avevano messo in bocca ad al-Atrash cose che al-Atrash non voleva dire passando per un giornale del Qatar? Non è credibile. Tanto più che nel 2007 fu proprio sheikh al-Atrash ad emettere una fatwa che autorizzava le donne a picchiare i mariti che le maltrattano.A imprecisioni, insomma, si sovrapponevano imprecisioni. Dall’Egitto si arrivava all’islam e dall’islam si ritornava in Egitto, coinvolgendo un movimento, quello del 6 aprile, che di “islamico” aveva e ha ben poco. E perché, allora, ignorare le proteste contro la fatwa del vino?

Pomodori e Facebook

Su Facebook compare la pagina di una Lega Popolare Egiziana Islamica. Si tratta di un gruppo di ispirazione salafita che sosteneva Abu Ismail, il candidato salafita alla presidenza dell’Egitto, poi espulso dalla corsa elettorale e in seguito decide di appoggiare il candidato dei Fratelli Musulmani, Mohamed Morsi. Sulla pagina, che al tempo dei fatti qui descritti non contava più di 4000 iscritti, si trovano molte fotografie “emblematiche”, ad esempio un occhio sulla cui cornea è inciso il nome di Muhammad, l’Inviato di Dio, o anche un uomo barbuto che bacia la foto di Bin Laden (dimostrando che anche i salafiti, al contrario di quanto loro stessi pensano, sono “idolatri”. Figura addirittura un’immagine di Cristiano Ronaldo che tiene in mano un quadro su cui si trova scritta la shahada, la formula che testimonia l’appartenenza all’islam: non c’è altro Dio che Iddio e Muhammad è il suo Inviato).

In una di esse, postata il 9 giugno 2012, compare l’immagine di un pomodoro tagliato a metà. Nella didascalia si legge che sarebbe vietato mangiare pomodori perché il loro taglio mediano metterebbe in luce il disegno di una croce e che si “prega di pubblicarla perché una sorella palestinese ha visto il profeta in visione che metteva in guardia sua madre dal mangiarlo [il pomodoro]”.

La “notizia”, pubblicata originariamente dal libanese NowLebanon e ripreso dal quotidiano turco Hurriyet, fa il giro del mondo “diventando” progressivamente una fatwa. Il “Quotidiano Nazionale”, ad esempio, titola “Facebook, fatwa dei salafiti contro il pomodoro: ‘E’ un cibo cristiano’”. Più tardi, il 22 giugno, arriva il commento irritato di Yasser Metwaly, cofondatore del partito salafita egiziano al Nour: “Questa presunta fatwa è assurda, fatta apposta da chi vuole diffamare il movimento islamico. Il divieto sul pomodoro non può venire da una persona intelligente”. Ma è troppo tardi: il tutto passa alla storia come “fatwa del pomodoro” e c’è anche chi, il polemista anti-islamico Ugo Volli, scrive un “elogio del pomodoro”: “Allora, la notizia è questa: il pomodoro è proibito. Strettamente proibito per i musulmani. C’è una fatwa degli islamisti salafiti egiziani che lo stabilisce: guai ai fedeli scoperti ad affettare pomodori, le pene saranno terribili […] Conclusione numero uno: signori miei, perché preoccuparci? Questo dominano un bel pezzo di mondo, stanno seduti su metà delle riserve mondiali di energia, sono un miliardo e mezzo, tutt’attorno ai cinque milioni di israeliani. Ma sono così stupidi (non le persone, naturalmente, non facciamo discorsi razzisti, ma l’ideologia), ma così stupidi, che non possono fare troppo male […] conclusione numero due: gli stupidi sono peggiori dei figli di buona donna. Perché il cattivo, se non è stupido ed è per l’appunto figlio di buona donna, cerca di fregarti e certamente non gli importa niente di farti del male, ma  bada ai suoi interessi e dunque puoi fermarlo, contrattando, minacciando rappresaglie, o facendogli presente che può essere più conveniente lavorare con te che eliminarti”.

Piramidi su Twitter

Luglio 2012. Secondo il giornale egiziano Roz el-Yusef, lo sheykh sunnita del Bahrain ha scritto un tweet e inviato su Facebook un post in cui si invita il neo presidente egiziano, Morsi, ad abbattere le piramidi, che sarebbero simboli religiosi pagani da abbattere.

Lo sheykh, che ha una carica importante in Bahrein (ma è bene sapere che quel paese è in stragrande maggioranza sciita e la carica dello sheykh è governativa, di quei governanti che schiacciano da molti lunghi mesi una sacrosanta rivolta con l’aiuto dei carri armati sauditi), ha poi smentito. Anche qui la notizia fa il giro del mondo. La forma che prende la notizia, nei titoli, è più o meno “i salafiti vogliono abbattere le piramidi”, e c’è chi, come il leghista Borghezio che afferma: “”Sta facendo il giro del mondo il demenziale diktat dei fondamentalisti che vorrebbero imporre al nuovo Presidente dell’Egitto l’immediata attuazione di un punto chiave del loro programma di totale islamizzazione del Paese: abbattere Piramidi e Sfinge che essi ritengono simboli del paganesimo e come tali da cancellare dalla faccia della terra. Un grave pericolo incombe dunque sui sacri simboli plurimillenari della Civiltà egizia, espressione-madre di tutti le grandi Tradizioni. Simboli universali di un sapere sapienziale che ha attraversato i secoli e permeato di sé anche la più alta cultura dell’Occidente”.

Stranamente, in questo caso, sono in pochi a definire questa uscita “una fatwa”. Stessa cosa avviene più tardi, nel novembre 2012, quando Murgan Salem al-Gohary, leader salafita egiziano vicino ai telebani, in una trasmissione televisiva andata in onda su TV2 Channel propone la distruzione delle Piramidi di Giza e dalla Sfinge perché simbolo di idolatria. Curiosamente, tuttavia, la voce di Wikipedia in inglese, sotto il titolo “fatwa controverse”, inserisce la dichiarazione di al-Gohary: “Nel 2012, sheykh Murgan Salem al-Gohari, egiziano ed ex-talebano, ha emanato una fatwa che chiede ‘la distruzione della sfinge e delle piramidi di Giza in Egitto’ perché “Dio ha ordinato al Profeta Mohammed di distruggere gli idoli”.

L’imprinting, i furbetti e la fatwa

Lo schema “una fatwa strana e la sua ricezione nei media occidentali e in Egitto (o in altre aree del mondo islamico)” si è riproposto più volte dal 2007 a oggi. Più in generale sui mass media si scrive “fatwa per creare un po’ di clamore e, soprattutto in Occidente, generare allarme. Occorre ricordare, inoltre, che l’attenzione dell’Occidente verso le fatwa, che sono uno strumento del fiqh, ha origini molto lontane, nel 1989, quanto l’Ayatollah Khomeini, ne emanò una in cui condannava a morte Salman Rushdie per un passo del suo “I versetti satanici”. Quella fatwa era davvero rilevante, essendo promulgata dalla guida spirituale dell’islam sciita duodecimano che ha una rilevanza infinitamente maggiore di un qualunque sheykh sunnita. L’imprinting però rimane e c’è chi, come Daniela Santanché, è riuscito a ottenere una scorta grazie a una fatwa inventata. Ali Abu Shwaima, imam milanese dell’Unione delle Comunità e delle Organizzazioni Islamiche in Italia (UCOII), fu accusato nell’ottobre del 2006 dalla parlamentare Daniela Santanchè, allora esponente di Alleanza Nazionale, di aver pronunciato a margine di una trasmissione televisiva una fatwa che comportava una condanna a morte nei confronti della deputata. La notizia, diffusa il giorno seguente in un articolo del giornalista Magdi Allam sul Corriere della Sera, si basvaa sul fatto che secondo la Santanchè l’imam avrebbe, alcuni minuti dopo il termine di un dibattito televisivo tra i due, apostrofato la parlamentare con la frase «lei semina l’odio, è un’infedele». Secondo Magdi Allam – che all’epoca era ancora musulmano – tale frase era assimilabile a un’accusa di apostasia (anche se la Santanchè, che non è mai stata musulmana, non può abbandonare un Islam in cui non è mai entrata), punibile con la morte secondo alcune interpretazioni radicali del Corano.

Alcuni giorni dopo il Ministero dell’Interno aveva accolto la richiesta di scorta avanzata dalla Santanchè a causa della presunta minaccia. L’imam, intervenuto nuovamente nei giorni successivi in una trasmissione televisiva, dichiarava di non aver emesso nessuna fatwa (che comunque non ha titolo di emettere e che dovrebbe essere emessa semmai in un procedimento formale da un ‘alim) e che ritiene che “la vita è sacra, sia di un musulmano che di un non musulmano”.

La fatwa omofoba

Ali Abu Shwaima torna in cronaca il 5 maggio 2011. Secondo le sue stesse parole: “in una riunione che si è tenuta nei giorni scorsi tra fedeli a Milano ho spiegato che ritengo sia giusto votare a sinistra perché è lì che troviamo posizioni più vicine ai nostri ideali. Ho però aggiunto che a sinistra ci sono diverse componenti, e certamente quella di Sel, dove sono candidati alcuni musulmani, non è la più consona perché la condotta del suo leader contrasta con l’etica islamica e noi non possiamo condividere il loro comportamento”. La cosa scatena polemiche, anche all’interno della comunità musulmana milanese. Secondo la stessa fonte: “Contro l’invito rivolto ai fedeli dell’esponente islamico (si calcola che siano circa 100mila i musulmani aventi diritto al voto a Milano) si è espresso però Abu Bakr Geddouda, segretario della moschea milanese di Cascina Gobba: ‘Ritengo sia sbagliata la sua posizione nei confronti di Davide Piccardo e dei candidati di Sinistra Ecologia e Libertà (Paolo Abdullah Gonzaga per il consiglio di zona 2 e Omar el-Sayed per il consiglio di zona 9, ndr). Noi non possiamo giudicare i candidati per la loro vita privata ma valutiamo i loro programmi, perché abbiamo tante cose che ci interessano e dobbiamo far capire a tutti che noi immigrati di seconda generazione siamo cittadini italiani a tutti gli effetti’”

Ciò che qui interessa è che i giornali danno questa presa di posizione, criticabilissima, come una fatwa. “La Repubblica” titola: “La fatwa dell’imam su Vendola ‘Non votatelo perché è gay’”. Il “Corriere della Sera”: “Fatwa contro il candidato di Sel Piccardo: «Non votatelo perchè Vendola è gay»” . “Libero” mette le virgolette: “Contro Vendola la ‘fatwa’ dell’Imam: ‘Non votatelo, è gay’”. Lo stesso Davide Piccardo non getta acqua sul fuoco dell’equivoco: “trovo scorretto da parte dell’imam di Segrate emettere una sorta di fatwa nei nostri confronti. E’ improprio emettere un verdetto giuridico di tipo islamico sostenendo che è un peccato votare per noi – spiega – perché i partiti vanno gioudicati per i loro programmi e non per le scelte di alcuni singoli. Inoltre ritengo che la mia comunità non possa rimanere in questo stato di arretratezza culturale, ma debba andare avanti affinché si possano garantire i diritti di tutti’”.

La fatwa contro i crackers

Nell’aprile del 2010 uno sparuto gruppo di estremisti newyorkesi, raccolti attorno a un sito intitolato “revolutionmuslim” minacciò gli autori di South Park, il famoso cartoon americano, per aver messo Maometto nei panni di un orso. L’organizzazione non contava più di 10 individui, tutti americani. Il loro fondatore, Zachary Chesser, era un americano che, per questo si faceva chiamare al-Amreekee, cioè “l’Americano”, e sembrava essere più un cane sciolto che abbaia alla luna che un terrorista: aveva provato a unirsi alla Shabab della Somalia, senza riuscirvi. Il raggio d’azione del gruppo, inoltre, sembrava non andare oltre il web e un “Centro Culturale Islamico” di New York. Tuttavia, sebbene davvero i proclami del gruppo, evidentemente autocostruito e autoctono anche se inneggiante a Corano, Sunna e Bin Laden, non costituissero una seria minaccia (il sito, pochi giorni più tardi, fu attaccato e tirato giù), il “mondo libero” organizzò un “Everybody Draw Mohammed Day”, durante il quale ognuno doveva esercitare le proprie doti nel disegno sul tema “Maometto”. Specialmente nella rete, la notizia ebbe grande eco. I toni si accesero e la cosa fu raccontata e/o commentata centinaia di modi diversi. Arsalan Iftikhar, per la CNN, faceva notare quanto le minacce fossero irrilevanti e che l’appeal che una notizia del genere può avere non giustificava l’accapigliarsi scomposto attorno ad essa:

Tristemente, invece di dedicarci a casi veri di razzismo, fanatismo e xenofobia che con regolarità vengo lanciatee sulle onde radio pubbliche da alcuni dei nostri politici e opinion maker, abbiamo permesso a noi stessi di venire risucchiati in una falsa controversia che coinvolge due idioti senza nome che hanno un sito radicale tramite il quale se la prendono con quattro impuberi personaggi di South Park, Colorado.

Ravi Somaiya, un blogger di Gawker.com, scrisse un post intitolato: “Perchè gli estremisti che odiano South Park odiano anche i Triscuits?“. Vi si raccontava che in una precedente invettiva “revolutionmuslim” se la prendeva contro chi mangiava quei crackers. Somaiya si chiedeva perché proprio i Triscuits e poi faceva della sacrosanta ironia, sottolineando quanto “improvvisati” e “sparuti” fossero questi personaggi.

Ma qualche giorno dopo Christian Rocca, blogger e giornalista, riprende quel post in un’altra chiave, intitolandolo: “La fatwa contro i crackers“:

I fascisti islamici che hanno minacciato di morte gli autori di South Park ora delirano contro “quei froci darwinisti che sono spregevoli e vanno in giro mangiando Triscuits“. I Triscuits sono crackers. Magari fanno male al pancino dei fasci-islamici, ma c’è sempre la possibilità di farsi curare all’Emergency room.

La fatwa, ovviamente, non c’era. C’era un blogger americano che scriveva un post ironico e un provincialissimo invettore italiano che prendeva la palla al balzo per usare toni dispregiativi nei confronti di una Ong italiana, Emergency, che in quei giorni era accusata (specialmente da alcuni settori dell’opinione pubblica americana) di essere dalla parte dei Talebani afghani, svolgendo il proprio lavoro in zone da questi controllate

Cumuli di fatwa

Più in generale le fatwa, reali o immaginarie, sono uno dei principali argomenti usati da polemisti, giornalisti e bloggers che vedono nell’islam un pericolo, per suffragare l’idea che l’islam, nel suo complesso, sia portatore di un messaggio retrogrado e oscurantista. Spesso poi, si sconfina nel caricaturale, come a marcare una ancora più irriducibile differenza “di civiltà”. La rete è inondata di “liste” di fatwa strane, minacciose, ridicole, anacronistiche. In questo “Tutto l’Islam fatwa per fatwa: vietato gridare gol, il rock e fare sesso nudi” (sottotitolo: “Non solo condanne a morte ma anche regole di vita quotidiana suggerite dall’autorità religiosa. A volte, però, condannano al ridicolo…”), apparso su “Il Giornale” il 2 settembre 2012, Massimo M. Veronese esordisce con una presentazione al limite del “politicamente corretto”, affermando che:

Ha una fama sinistra ma la fatwa, alla fine, è solo una prescrizione che orienta la vita di tutti i giorni  e, se uno se la sente, non è nemmeno obbligatorio rispettarla, Per avere valore deve uscire dalla bocca di un’autorità religiosa e fare riferimento alla legge islamica.

Subito dopo, tuttavia, capiamo l’obiettivo dell’autore:

In molti casi vale come una scomunica, una condanna, una messa all’indice. E che a volte ha come punizione la morte. In altri fa la morale alla vita di tutti i giorni come quella che vieta i gadget, quella che vieta di leggere gli oroscopi e quella che proibisce la riproduzione di cd e dvd. Abbiamo raccolto le fatwe più curiose degli ultimi anni. Roba da non credere..

Veronese elenca le fatwa, vere o presunte che siano. Ognuna di esse contiene un elemento che le rende pericolose e/o antioccidentali ma, soprattutto, buffe. Vengono titolate con l’obiettivo di gettare il lettore in un’allucinazione divertente e allo stesso tempo preoccupante: “Grande Fratello” (2004), i Pokemon (2001), eclissi (2001), il calcio (2011), le statue (2006), le sigarette (2008), Roma (2006), il rock (2012), la nudità negli intercorsi sessuali (2007), le biciclesse per le donne (2012), McDonald’s (2012), i granchi (2009), i cani (2010), lo yoga (2009), la cassiera (2010), il compleanno (2011). Dietro a questi titoli si celano cose, persone, autorità e paesi differenti. Ma l’autore mira all’”effetto cumulo” e a ridurre “tutto l’islam” a una serie di “fatwa”.

Le fatwa degli altri

Una volta installatasi nell’uso corrente, la parola fatwa entra a far parte del senso comune, compie un percorso autonomo venendo infine a indicare un generico oscurantismo religioso, un ordine indiscutibile, una minaccia o una qualche maledizione ammantata di superstizione. La casistica è decisamente ampia e non vale la pena, qui, cercare di coprirne l’estensione: basti ricordare che in questo processo in concetto perde progressivamente i suoi collegamenti con la realtà per entrare in un immaginario dai contorni stereotipati. E che questa fatwa “percepita”, cioè il clone decontestualizzato e ricontestualizzato della fatwa, contribuisce infine alla costruzione di un “islam percepito”. È forse questa percezione ad aver determinato l’idea che un musulmano “ragioni per fatwa” e che, dunque, una qualsiasi iniziativa istituzionale riguardante l’islam debba passare per l’emanazione di pareri giuridici? Sembra di sì. Costituitosi presso il Viminale l’11 febbraio del 2010, il “Comitato per l’islam italiano” era formato di 19 membri scelti fra “esponenti di organizzazioni e comunità islamiche presenti in Italia, docenti di diritto musulmano e dei paesi islamici, di diritto ecclesiastico, autorevoli giornalisti e scrittori esperti della materia”. Nelle intenzioni dei suoi istitutori, l’allora Ministro degli interni Roberto Maroni e il suo sottosegretario Alfredo Mantovano, il Comitato aveva “la funzione di fornire elementi concreti per i temi legati all’immigrazione, con particolare riguardo all’integrazione e all’esercizio dei diritti civili, e per assicurare una migliore convivenza nella società italiana. A tale scopo il comitato esprimerà anche pareri e proposte su specifiche questioni indicate dal Ministro con l’obiettivo di migliorare l’inserimento sociale e l’integrazione delle comunità musulmane nella società nazionale, anche nell’ottica di sviluppare la coesione e la condivisione di valori e diritti nel rispetto della Costituzione e delle leggi della Repubblica”. Lasciando da parte considerazioni approfondite sulla provenienza e l’autorevolezza dei 19 membri, e notando che la questione “islam” è qui trattata solo in relazione alla questione dell’immigrazione e non in relazione all’esistenza di almeno 50.000 cittadini italiani di religione musulmana, era importante sottolineare che questo Comitato, che nasceva sulle ceneri della defunta “Consulta per l’Islam in Italia” formato unicamente da musulmani italiani, contava almeno otto non-musulmani (oltre che da personaggi noti per la loro islamofobia).

L’attività del Comitato, la cui esperienza si chiuse nel 2011 con la fine del Governo Berlusconi, procedette a rilento. Nell’aprile del 2011 si venne a sapere che erano stati formati quattro gruppi di lavoro e che un membro del Comitato si era dimesso. I quattro gruppi avrebbero esaminato i temi della formazione degli imam, delle moschee, del velo integrale e dei matrimoni misti ma furono subito contestati. Il dimissionario, Mario Scialoja “si diceva sconcertato per le nomine”. “Sono stati nominati come sostenitori, e neanche relatori, solo 2 musulmani su 8 – dice Scialoja –. Ma la cosa più vergognosa è che i due più importanti temi, la formazione degli imam e le moschee in Italia, siano stati affidati a relatori non musulmani come Carlo Panella e Andrea Morigi che hanno sempre avuto atteggiamenti notoriamente islamofobi. Ci sono un’infinità di articoli a riprova del loro pensiero. Questo io lo considero vergognoso, inaccettabile e insultante per la comunità musulmana.

Ad appoggiare la scelta dell’ex ambasciatore, con l’invito rivolto al segretario generale della grande moschea di Roma Redouane a fare altrettanto erano “gli Intellettuali Musulmani, già in precedenza molto scettici sulla composizione dei membri in quota musulmani del comitato: «La presenza islamica è del tutto insoddisfacente sia sotto il profilo della rappresentatività, sia sotto quello della competenza culturale e religiosa» dichiara senza mezzi termini Ahmed Giampiero Vincenzo, presidente degli intellettuali musulmani. Che sottolinea: «A parte i due esponenti della Moschea di Roma, gli altri musulmani fanno parte di formazioni di scarsissimo rilievo, in alcuni casi create solo in funzione della partecipazione al Comitato. Per questo apprendiamo con piacere la decisione di Mario Scialoja di rassegnare le dimissioni e abbiamo consigliato al Segretario della Grande Moschea di Roma di fare lo stesso».

Nonostante questa prima defezione il Comitato procedette nei lavori e ciò che colpì maggiormente, nel valutarne i risultati, fu che quell’entità sembrava, nei fatti, emanare “pareri giuridici”, basati su analisi socioculturali e comparazioni nel campo del diritto, andando anche a toccare ciò che “naturalmente” compete ad autorità musulmane. Ironia della sorte al Ministero facevano notare che proprio questa natura “non vincolante” del Comitato. Mentre la precedente Consulta aveva “l’esigenza di promuovere un dialogo istituzionale con la componente islamica”, il Comitato aveva unicamente il compito di “emanare pareri e proposte”, tenendo conto dei quali gli attori politici avrebbero poi indirizzato le proprie iniziative. Una specie di “think tank” ad uso del Ministro che finì per emanare vere e proprie fatwa. O, comunque, farne il verso. Il ché sarebbe risultata un’operazione opinabile, a livello di autorevolezza, se i membri del Comitato fossero tutti stati musulmani, ma offensivo poiché in quel Comitato v’erano anche persone che con l’islam avevano poco a che fare.

La prima uscita “ufficiale” del Comitato era intitolata “Burqa e niqab. Parere del Comitato per l’Islam Italiano” e, nei punti cruciali, considerava “come punto di riferimento fattuale, anche per chi deve valutare proposte di legge, il dato storico-critico che emerge dal Corano”, appellandosi anche al ben noto meccanismo del “consenso” (ijma‘: “Su a chi si rivolgessero esattamente queste prescrizioni non vi è consenso fra gli interpeti”), per infine concludere “quello del burqa e del niqab non è un obbligo religioso che derivi dal Corano, né è riconosciuto come tale dalla grande maggioranza delle scuole giuridiche islamiche. La materia va dunque deconfessionalizzata”.

Al “parere” seguiva poi la proposta di legge di Mantovano che, in maggio, intervenendo in commissione affari costituzionali, da mesi impegnata nell’esame di varie proposte di legge in materia, proponeva proprio una versione ”deconfessionalizzata […] la questione si risolve in quella più generale concernente l’uso di qualunque mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona in luogo pubblico o aperto al pubblico”.

Il 27 gennaio 2011 uscì poi un secondo elaborato, questa volta sui “Luoghi di culto islamici” che, come a ribadire la funzione del Comitato, aveva nel titolo la stessa “formula” del precedente: “Parere del Comitato per l’Islam Italiano”. Vi si esploravano concetti comparsi nella giurisprudenza islamica  nei primi secoli dell’islam, come quello di dar al-islam e dar al-harb, vi si seggerivano “buone pratiche” per la gestione della zakat, o elemosina rituale, il terzo pilastro dell’islam. Si suggeriva anche che i sermoni fossero “pronunciati in lingua italiana, laddove la recitazione coranica della preghiera rituale deve essere tenuta in lingua araba” per evitare che veicolassero messaggi “ultrafondamentalisti”. Dimenticando, però, che per le quattro scuole giuridiche sunnite la recitazione in altra lingua di una khutba, o sermone, del venerdì, rende nulla la preghiera.

 

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Lorenzo Declich20 parole +Fuori misurafatwa,islam,islam percepito
Un mondo islamico costellato di fatwa minacciose e/o stupide e/o folkoristiche. Un mondo dei mass media che sul termine fatwa monta allarmi, inventa notizie, produce falsi. Un “classico” dell’”islam percepito”. Il tema della promiscuità dei sessi (ikhtilat, alcuni rendono il concetto con l’eufemistico “intimità”) è centrale nella percezione che abbiamo...