Alfabeto, diglossia, dialetti, traslitterazione e trascrizione. Nella “traslazione” di parole, nomi e concetti da una lingua all’altra, da un alfabeto all’altro, si svolge un’operazione culturale complessa, spesso irta di ostacoli e soggetta a mistificazioni e misunderstanding.

Il primo “campo di battaglia”, il primo “scoglio culturale” per chi si avventura nel mondo degli arabi e in quello dei musulmani. E anche per arabi e musulmani che si affacciano in “Occidente”.

[questi temi interessano pochi, ma quei pochi sono “buoni”. A loro chiedo, attraverso i commenti, di riempire eventuali buchi, o integrare cose, o sottolineare eventuali errori. Buona lettura]

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Difettività della scrittura araba – La scrittura araba è consonantica e non segnala, o segnala difettivamente, pronunce e ortografie. È usata, o è stata usata, per un buon numero di lingue non arabe, ad esempio il persiano e il turco. La sua difettività, unita al suo uso in diverse lingue, ha determinato due fenomeni opposti e paralleli: da una parte parole che si pronunciano in modi molto diversi sono scritte allo stesso modo, dall’altra parole non arabe vengono “arabizzate” in virtù del fatto che sono scritte con l’alfabeto arabo e/o che l’arabo è la lingua del Corano e della religione.

Sintesi e ipertesto della scrittura – La scrittura araba, in rapporto alla più analitica scrittura latina, è dunque deficitaria sotto l’aspetto della corrispondenza fra suoni e lettere e in rapporto alla notazione di alcune varianze grammaticali. Nel caso dell’arabo, tuttavia, è estremamente ricca di riferimenti linguistici, grammaticali e sintattici. La lettura di una parola in arabo, spesso, non può prescindere dalla conoscenza della grammatica e della sintassi da cui essa dipende e ciò può rappresentare un problema in partenza ma una comodità in seguito. È un sistema che ci permette di individuare con velocità la radice della parola che stiamo leggendo, circoscrivendone il campo semantico anche in base al tipo di modificazioni e aggiunte che la radice ha subito. Capiamo spesso dalla sua forma un plurale, un femminile, un verbo, un aggettivo, un participio e molte altre cose. In certe situazioni riconosciamo un participio attivo o passivo a un primo sguardo. In altre individuiamo subito l’esistenza di un participio, pur dovendo procedere poi a ulteriori analisi per capire se esso è attivo o passivo.

Diglossia – Tutto questo portato, insieme alle “deficienze” di cui sopra, determina il fenomeno che va sotto il nome di “diglossia”, ovvero la presenza, in ogni arabo alfabetizzato, di due lingue arabe, una scritta e una parlata. Si tratta tuttavia solo di una “tendenza”: da una parte perlomeno a livello lessicale, l’arabo parlato entra sempre più nella letteratura, dall’altra esiste un “arabo standard” usato dai mezzi di comunicazione di massa, che mette in comunicazione le diverse comunità dialettali.

Dialetti – Quello della diglossia è vissuto da molti linguisti come “un problema”, specialmente nello studio dell’arabo parlato, dunque nei dialetti. Immergendoci in questa ulteriore Babele troveremo, usando l’alfabeto latino, un diverso sistema di invarianze sia di natura fonologica che grammaticale, che forse potrebbero acquisire lo status di “regole” solo se i “parlanti” in quel dialetto abbandonassero l’omogeneizzante difettività della scrittura araba. Facendo questo, tuttavia, quei “parlanti” rischierebbero di perdere i contatti con tutto ciò che la scrittura araba, nella sua difettività, segnala e denota, regalando fra l’altro agli alfabetizzati un formidabile strumento di comunicazione inter-dialettale e un collegamento organico con l’immenso corpus della letteratura araba classica.

Trascrivere – Il complesso delle dinamiche linguistiche che si strutturano attorno alla scrittura araba si ripercuote con esiti spesso imprevedibili sulle trascrizioni in alfabeto latino il quale, a sua volta, è usato per scrivere diverse lingue. Nomi e cose potranno essere trascritti in base a una determinata pronuncia o attuando una “normalizzazione”, basata su regole morfologiche, grammaticali e sintattiche che elimini le varianti dialettali o le diversioni fonologiche. In entrambi i casi si perderà qualcosa, sempre che il tutto sia messo in pratica con un certo rigore scientifico.

Traghettare – Le ligie esecuzioni di norme per la traslitterazione scientifica e le scrupolose indagini linguistico-dialettologiche in fase di trascrizione sono spesso confinate alla letteratura scientifica. E se anche nel mondo dell’accademia accade che, per noti fenomeni di aggiustamento fonetico e/o di “naturalizzazione” delle parole provenienti da un’altra lingua, alcune trascrizioni si allontanino molto dall’originale, nel mondo dei mass media e della divulgazione esploda una Babele nella Babele, in cui si incontrano/scontrano patenti inaccuratezze ed erronei ipercorrettismi. Qui nasce una storia e un’economia delle trascrizioni sia all’interno di specifiche lingue d’arrivo che nella relazione fra diverse lingue d’arrivo, un processo in cui le parole d’origine, oltre a “perdere di senso” rispetto all’originale, ne guadagneranno in base alla percezione che di esse hanno le persone che se ne appropriano.

Doppio salto mortale – Spesso le trascrizioni dall’arabo viaggiano da lingua a lingua. Ciò produce l’inserzione nella trascrizione di elementi linguistici “comprensibili” nella lingua nella quale si è trascritta la parola ma non in quella che “riceve” la trascrizione senza “tradurla”. Ad esempio negli ultimi anni le trascrizioni francesi e inglesi usano il dittongo ou per indicare la presenza del grafema U che, in quelle lingue, non ha una pronuncia univoca. L’italiano non avrebbe bisogno di questa specifica anzi, di regola quel dittongo andrebbe pronunciato facendo seguire una U a una O. Tuttavia spesso si preferisce mantenere l’uso del dittongo, anche a rischio di storpiare la parola. Più antico, e ormai quasi dismesso, è l’uso inglese della coppia OO per indicare una U e della coppia EE per indicare una I. Vittime della moltiplicazione delle trascrizioni sono soprattutto i nomi personali (che presentano anche altri problemi). In questo caso, a contribuire alla Babele, ci si mettono anche coloro che scrivono in caratteri arabi. e che, dovendo trascrivere talvolta i propri nomi in caratteri latini, fanno uso di criteri di trascrizione in uso in una o in un’altra lingua di arrivo, in base anche alla storia che li lega, in un modo o in un altro, a quella lingua (inoltre, ricordiamolo, chi scrive in caratteri arabi non è necessariamente una persona che parla arabo). Un tunisino, ad esempio, tenderà a usare una trascrizione alla francese. Un pakistano all’inglese.
Talvolta il “doppio” passaggio, non rilevato, determina uno spostamento di senso, o meglio uno svuotamento di senso, con relativo spaesamento, perché non si individua la parola d’origine.

La Babele ortografica

Le vocali – L’arabo non distingue fra vocali aperte, chiuse, semichiuse, semiaperte. Ne ha solo tre, o meglio: la sua struttura morfologica e grammaticale nota solo quelle che, per convenzione, definiamo A, I e U. Le denota in due forme, lunga e breve, la prima delle quali assume in talune posizioni e situazioni, caratteristiche consonantiche (le vocali lunghe, ad esempio, fanno parte della radice di una parola). Sebbene non facciano parte della struttura della lingua la O e la E nell’arabo esistono in più o meno consapevoli pronunce di vocali brevi o lunghe. Non esistendo come suoni distintivi, suoni che cioè segnalano un mutamento di significato o una qualche varianza sintattica, la O e la E si assimilano alle altre tre, in un sistema variabile e non codificato. Una I e una A talvolta assomigliano più a una E, mentre le U talvolta si avvicinano molto a quella che definiremmo una O. [Inoltre i dittonghi AY e AW si pronunciano correntemente come E e O] Se l’esistenza di un numero ridotto notazioni vocaliche facilita il compito di imparare la difficilissima grammatica araba, essa contemporaneamente rende molto approssimate le trascrizioni dell’arabo “pronunciato”. Di qui le diatribe su “come dobbiamo scrivere il nome del nuovo Presidente egiziano: Morsi o Mursi?

La J – L’arabo ha la ǧīm, ovvero una affricata postalveolare sonora, un fono che in italiano si produce con l’accostamento della lettera g alle vocali e ed i, oppure con l’accostamento di gi alle restanti vocali. È insomma un “gi” dolce, non seguita da una H. Possiamo scriverla G in questi casi ma anche in Italia è invalso l’uso di renderla “all’inglese” con una J. La cosa è comprensibile e funzionale, evita molti fraintendimenti, ma non tutti. La J, in spagnolo, si rende con una Y, [mentre con J, sempre in spagnolo, si rende di solito il suono Kh (vedi alle H)].

Le H e gli articoli – L’arabo ha ben tre H: fricativa faringale sorda, fricativa velare sorda, fricativa glottidale sorda. L’italiano di H non ne ha, o meglio: la H è usata in seconda posizione in alcuni digrammi (ch, gh), o in alcune parole (ho, ha, hanno) per indicare nel primo caso come la prima lettera va pronunciata (dura e non dolce) e nel secondo che siamo di fronte alla coniugazione del verbo “avere”. La mancanza di una fricativa in italiano determina un buon numero di problemi nella trascrizione delle parole arabe (a volte vengono elise), ma soprattutto nell’apposizione degli articoli. La grammatica ci dice che questi sono suoni consonantici, quindi dovremmo preporre l’articolo “il”, ma la mancanza strutturale di un suono fricativo in italiano e il suo uso puramente grammaticale provoca la sostituzione dell’articolo “il” con un un “l+apostrofo”. Il hijab diviene l’hijab, il harem diventa l’harem. Si incontrano anche correttismi erronei, dovuti al problema di trattare una H allo stesso modo di una C o una F, che producono una forma lo hijab.

Maschile/femminile e articoli – Un altro problema con gli articoli si verifica anche se non conosciamo il genere della parola ma riteniamo di saperne il significato. Il caso più frequente è la parola jihad, un termine di genere maschile usato quasi esclusivamente in ambito religioso islamico che significa “sforzo”, anche bellico, sulla via di Dio, ma che in italiano, e in molte altre lingue, passa a definire, con un parallelismo assai ambiguo, il concetto (cristiano) di “guerra santa”. Il fatto che vi sia questa sottintesa “traduzione” provoca il cambio di genere, dunque si passa a dire e scrive la jihad invece che il jihad. Anche in questo caso incontriamo correttismi erronei di ritorno. Chi sappia che jihad è maschile si trova talvolta curiosamente in ambasce nel mettere l’articolo: anche qui troviamo chi scrive lo jihad. Al di là di questo dettaglio l’uso del maschile o del femminile per l’articolo da mettere insieme a jihad è spesso spia del fatto che questa parola viene usata con maggiore o minore coscienza del significato originario. Nell’islam percepito la jihad e il jihad o lo jihad sono parole diverse.

L’apostrofo e sua sorella – Altra fonte di ambiguità e confusione nel processo di trascrizione di parole dalla scrittura araba è la resa grafica di due suoni molto diversi fra loro, la hamza e la ‘ayn. La hamza segnala un’assenza, o meglio, un’interruzione dell’emissione. È un afono colpo di glottide e si rende con un apostrofo, cioè con il segnalatore di un’elisione, di un troncamento o di un’aferesi, il ché rende problematica la lettura in italiano. Ancora meno intuitiva è la trascrizione di un suono consonantico semi-afono, la ‘ayn. La ‘ayn che troviamo solo in arabo, è di difficile descrizione e pronuncia. Tecnicamente corrisponde a una fricativa faringale sonora o all’occlusiva glottidale sordo faringalizzata, due foni allofoni nella lingua araba. In trascrizione viene reso con una piccola C in apice (c) o con un’apice singolo di apertura (‘). I due segni, sebbene corrispondano a due eventi fonici completamente diversi, sono molto simili, dunque vengono confusi, sempre che non siano elisi o equivocati in qualche forma.

La Q – La Q indica la presenza di un fonema diverso da quello che indichiamo con la C (escludendo i gruppi CI e CE) o con la K nelle diverse lingue. Il suo nome, in arabo, è qaf: in fonetica è una occlusiva uvulare sorda, non una occlusiva velare sorda. Ci sono eccezioni, anche importanti (vedi l’Enciplopedie de l’Islam) ma in tutto il mondo si usa ormai trascrivere con la Q questo particolarissimo fonema arabo che, fra l’altro, in diversi dialetti viene spesso sostituito da una hamza e da altri da una G dura, ovvero una occlusiva velare sonora.
In italiano, invece, non vi sono differenze fonetiche fra ciò che indichiamo con la K, col digramma CH e con la Q. La Q in italiano denota unicamente l’esistenza di una sequenza QU, cui segue un’altra vocale. Non esiste una regola che permetta di determinare quando vada messa una Q e quando vada messa una C prima di una U: l’occorrenza della Q è una delle poche cose che chi voglia imparare l’italiano deve imparare a memoria, caso per caso L’unica certezza che si ha è che dopo una Q va certamente una U e ciò determina decise storpiature nella trascrizione delle parole arabe che contengono una occlusiva uvulare sorda. Si veda ad esempio la strampalata resa del termine burqa‘ con burqua. O anche Quatar per Qatar.

La quarta H – A complicare la situazione delle H arabe nella trascrizione italiana intervengono le rese grafiche di alcuni fonemi arabi in altri lingue, specialmente l’inglese e il francese. L’arabo usa un suono, ġayn (una fricativa uvulare sonora o fricativa velare sonora, foni allofoni in arabo) che in quelle due lingue si trascrive correntemente con un dilittero, GH.. In italiano tuttavia GH si pronuncia con una G forte nel caso sia seguito da una I o da una E. A questo potenziale di ambiguità si aggiunge il fatto che in alcuni dialetti arabi contemporanei, specialmente quello libico, la Q diventa una G forte (la G di Gheddafi è in realtà una Q). La H è usata di seguito a una D per segnalare una ḏāl (fricativa dentale sonora) che si pronuncia in maniera molto simile al suono THE in inglese, e di seguito a una T per segnalare una ṯā’ (fricativa dentale sorda), simile al suono THI in quella lingua. La cosa non genera ambiguità specifiche in italiano sebbene spesso si verifichi che, proprio per questo, il trascrittore italiano si chieda cosa ci stia a fare quell’H dopo una D o una T, e dunque proceda a eliderla o a spostarla all’interno della parola. Il problema delle H si manifesta anche per tre suoni dell’arabo che definiziamo “enfatici”: ḍād (occlusiva alveolare sonora faringalizzata) e’ẓā’ (fricativa dentale sonora o fricativa alveolare sonora faringalizzate. Allofone in arabo). Anche in questo caso infatti l’inglese e talvolta il francese fanno seguire una H a una D a una T o a una Z. A ingarbugliare il tutto ulteriormente ci sono le ambiguità che nascono dall’uso di un dilittero che porti una “H” in seconda posizione per una lingua che usa ben tre tipi di H. Come dobbiamo leggere, ad esempio un DH? Si tratta di una normale D seguita da una delle tre H o della suddetta ḏāl? A chiudere la rassegna c’è la resa grafica del suono “Š”, la scin araba, cui in italiano segue sempre una I o una E se non nel popolare verso che si pronuncia in diverse occasioni per intimare a qualcuno di tacere (SH!), e che l’inglese, con uso invalso in italiano, si rende con un “SH”. Anche qui, ad esempio nel nome Ishaq, non sappiamo come leggere il dilittero (nel caso menzionato si tratta di una S seguita da una H forte). Senza contare, poi, che in francese troviamo “CH” al posto di “SH” (ma la “C” dolce nell’arabo classico non esiste).

Gli articoli arabi e le lettere – In arabo esiste un solo articolo determinativo: “al”. Graficamente l’articolo si inserisce all’inizio di parola e si legge in base a ciò che viene prima – se c’è una vocale questa “mangia la “A” dell’articolo – e in base a ciò che viene dopo – alcune consonanti, dette “solari”, provocano un’elisione della “L” e un raddoppiamento della consonante stessa. Nel risulta che la presenza di un articolo, che nel parlato spesso sostituisce una “E” alla “A”, assume moltissime pronuncie, sebbene venga scritto sempre nello stesso modo. In trascrizione si possono assumere due atteggiamenti: rendere la pronuncia o stabilire che la pronuncia corretta è a carico del lettore. Inoltre è possibile segnalare l’esistenza dell’articolo separandolo dalla parola con un trattino. La stessa parola, con articolo, può assumere dunque molte forme. “La religione”, al-din, può trascriversi: addin, eddin, eddine (alla francese), al-din, el-din. La cosa genera.

La H silenziosa – Come se non bastasse c’è un’altra H nelle trascrizioni dall’arabo. La troviamo al termine di parola e questa volta non va pronunciata perché indica la presenza di una lettera speciale dell’alfabeto arabo, la tā’ marbūṭa (la T legata) che ne denota il genere femminile. In arabo si scrive come una delle tre H, la più dolce, ma con due puntini sopra, i quali indicano che in un caso speciale (e molto frequente, lo “stato costrutto”) quella lettera va letta come una T. La T, nell’alfabeto arabo, è infatti resa con un dente al di sopra del quale si trovano appunto due puntini. La tā’ marbūṭa è insomma un segnalatore di natura grammaticale che può indicare la mancanza o la presenza di una T. Tuttavia spesso molte trascrizioni conservano una H, si vedano ad esempio nomi femminili come Sarah o Norah, con conseguente altro livello di disorientamento.

Lorenzo Declich20 parole +Fuori misuraalfabeto arabo,diglossia,lingua araba,scrittura araba
Alfabeto, diglossia, dialetti, traslitterazione e trascrizione. Nella 'traslazione' di parole, nomi e concetti da una lingua all'altra, da un alfabeto all'altro, si svolge un'operazione culturale complessa, spesso irta di ostacoli e soggetta a mistificazioni e misunderstanding. Il primo 'campo di battaglia', il primo 'scoglio culturale' per chi si avventura nel...