Quando studiavo i manoscritti arabi di Zanzibar c’era un grande affaccendarsi attorno al loro reperimento, in città e in archivio.

Un gruppo di 2-300 era arrivato da un istituto ormai chiuso e attendeva di essere “riconsiderato”, elenchi alla mano.

Si capì che un buon numero di questi manoscritti si erano volatilizzati nel tragitto fra il vecchio istituto e l’Archivio Nazionale di Zanzibar.

Ogni tanto arrivava qualcuno, in archivio, dicendo di avere manoscritti.

Ma in generale in pochi, fra coloro che a Zanzibar ne avevano, li portavano in archivio.

Nessuno si fidava di quell’istituzione e, in buona sostanza, non si poteva dar loro torto, perché l’archivio era, come tutti gli organi statali di Zanzibar e Tanganyika (cioè la Tanzania), un’accolita di corrotti e corrottini che, al bisogno, avrebbero potuto usare il loro “tesoro” in maniera impropria.

D’altronde il fondo di manoscritti dell’Archivio Nazionale di Zanzibar non era altro che il risultato dell’espoliazione di ciò che rimaneva della biblioteca del Sultano dopo che i rivoluzionari di Okello vi erano entrati, nel 1965, e dell’attività di collezione “coatta” di diversi Residenti britannici fino a quella data.

E anche di questo “trasferimento” di cui vi ho appena scritto: l’altisonante Eastern Africa Centre for Research on Oral Traditions and African National Languages da cui il fondo proveniva conservava principalmente il frutto dell’espoliazione della biblioteca di una importante famiglia di dotti locali, gli al-Amawi.

Andai a trovare i discendenti di quella famiglia, un giorno.

Non avevano neanche un libro in casa.

Mentre una volta, con Omar, andai a Bububu, a casa di un imam.

Da una vecchia libreria di legno, che stava in moschea, mi tirò fuori un manoscritto che, alla fine, è risultato fondamentale per le mie ricerche: attraverso di esso ricostruii l’intero ramo genealogico di una famiglia di funzionari sultaniali omanita ibadita.

Lui non era ibadita, né omanita, ma aveva quel manoscritto e se lo teneva.

Un’altra volta andai da un famoso sheykh di centro città.

Aveva in casa decine di manoscritti e libri che teneva in bacheca. Era sempre in cerca di fondi e ogni tanto qualche ricercatore gli dava qualcosa.

Ha raccolto molto, ma a un certo punto si è fermato perché nessuno gli dava più nulla.

Poi una volta casa sua è andata a fuoco (molto si è salvato).

Un’altra volta ancora mi dissero che lo Sharia Mkuu della Città di Pietra aveva la casa piena di manoscritti ma non li faceva vedere a nessuno.

Pare che fosse impelagato in cose di magia nera.

Sembra anche che Pemba, l’isola che si trova a nord di Zanzibar, sia stracolma di manoscritti.

Ma ognuno i suoi se li tiene a casa sua.

Bene, tutto questo per dirvi che nei luoghi in cui ci sono manoscritti ci sono spesso anche persone che a questi manoscritti ci fanno caso.

E che Timbuktu è probabilmente uno di questi posti, grazie al cielo.

A questo proposito leggete questo:

http://www.france24.com/fr/20130130-manuscrits-tombouctou-destruction-mali-islamistes-saccage-culture-musee

Il link lo fornisce Francesco Zappa [ciao], studioso di islam in Africa occidentale che, nella mailing list dell’Associazione Italiana Biblioteche aggiunge:

Shamil Jeppie in particolare è fonte autorevolissima, è uno studioso
sudafricano di chiara fama che ha un ruolo fondamentale nei progetti di
salvaguardia, digitalizzazione e studio dei manoscritti di Timbuktù
sponsorizzati (e generosamente finanziati) dalle università del Sud
Africa. Quindi il fatto che sia citato come fonte mi rassicura molto. E
anche Ben Essayouti El-Boukhari.
Da studioso di Islam in Africa Occidentale tiro un sospiro di sollievo,
anche perché mi sembra plausibile che la dépendance fatta costruire dai
sudafricani come annesso all’edificio principale del Centro Ahmed Baba
contenesse per lo più testi già digitalizzati, visto che è molto più
recente e nota più che altro per essere dotata delle migliori risorse
tecnologiche. In effetti l’istituto esiste dal ’73 (per iniziativa di
studiosi statunitensi) e la maggior parte dei manoscritti è rimasta
nell’edificio principale, mentre la dépendance sudafricana è del 2009.
Resta il timore che siano andati perduti pezzi pregiati, che magari
saranno stati pure digitalizzati, ma non è ovviamente la stessa cosa che
avere gli originali. Tanto più che una parte dell’ala sudafricana era
destinata all’esposizione dei manoscritti miniati di maggior impatto
visivo. Quindi oltre al dato meramente quantitativo occorrerebbe ancora
una volta verificare il valore di quel che è andato perduto.
Confidavo comunque nel fatto che le grandi famiglie di dotti della
città, come dice l’articolo, conservassero ancora gelosamente molti
testi e mausolei tra le mura domestiche. E di certo gli avvenimenti di
quest’anno non le incoraggeranno a cederli alle biblioteche, come i vari
progetti di conservazione lanciati negli ultimi quarant’anni avevano
tentato, finora con un certo successo, di convincerle a fare…

C’è anche quest’altro link al blog del progetto sudafricano di salvaguardia dei manoscritti di Timbuktu.

http://www.tombouctoumanuscripts.org/blog/entry/timbuktu_update/

 

Lorenzo Declichjihadicaislametro,Prequel
Quando studiavo i manoscritti arabi di Zanzibar c'era un grande affaccendarsi attorno al loro reperimento, in città e in archivio. Un gruppo di 2-300 era arrivato da un istituto ormai chiuso e attendeva di essere 'riconsiderato', elenchi alla mano. Si capì che un buon numero di questi manoscritti si erano volatilizzati...