1. LO STORICO TABARI (839-923), NELLA SUA Tariḫ al-umam wa-l-mulūk (Storia degli imam e dei re), narra – ma la tradizione è contestata – che dopo la pace decennale siglata nell’anno 628 con i quraishiti, la tribù egemone della Mecca, il profeta Maometto inviò delle lettere a diversi governanti del tempo invitandoli a «tornare» all’islam. Dodici secoli più tardi, nel 1858, l’allora vescovo di Betlemme, Etienne-Barthélemy Bagnoud, si recò in Egitto e in un monastero trovò quella che sembrava una di quelle lettere, spedita agli allora regnanti di Alessandria d’Egitto. Più tardi, nel 1904, il periodico egiziano al-Hilāl pubblicò la fotografia di quel documento che, insieme ad altri simili, fu infine studiato nei dettagli.

In calce alla lettera c’era lo stampo di un timbro tondo, che letto dall’alto verso il basso recita: Allāh, Rasūl, Muḥammad (Iddio, Profeta, Maometto). Dal punto di vista testuale si tratterebbe della seconda parte della šahāda, la professione di fede dei musulmani, che recita: «Non c’è altro dio che Iddio e Maometto è l’Inviato di Iddio» 1 . Ma solo leggendo il testo dal basso verso l’alto.

Se il documento fosse autentico (è lecito dubitarne), quello stampo potrebbe essere considerato una sorta di firma di Maometto, il quale cita se stesso solo al di sotto di Dio e della sua missione di inviato. Sembra che alcuni interpretino la cosa proprio in questo modo: ritroviamo la «firma di Maometto» su una bandiera jihadista a partire dal 2006. Sopra di essa, in una grafia stilisticamente simile, figura la prima parte della šahāda: la ilāha illā Allāh («non c’è altro dio che Iddio»), che a differenza della seconda ha origini molto più chiare, essendo una frase coranica.


2. All’inizio la bandiera jihadista sventolava in Somalia, presso gli šabāb affiliati ad al-Qā‘ida. Esisteva in due versioni: nera con scritte in bianco e bianca con scritte in nero. La prima era una bandiera di guerra, la seconda indicava la presenza di un comparto amministrativo. Poco più avanti la ritroviamo in Iraq, alla nascita dello Stato islamico dell’Iraq (Isi). L’Isi univa attorno alla sua leadership diversi gruppi jihadisti, ereditando anche il carisma e le forze del gruppo che, sotto la guida di Abū Muṣ‘ab al-Zarqāwī (poi ucciso dagli americani nel giugno del 2006), aveva adottato diverse denominazioni, per poi affiliarsi ad al- Qā‘ida e divenire noto come «al-Qā‘ida in Iraq».

A prima vista la bandiera recante la «firma di Maometto» è quasi uguale a una normale bandiera qaidista, che sopra a un cerchio bianco o giallo vuoto riporta la šahāda. In questo caso però il messaggio è il contenuto, reso meglio dal fatto che la scritta non porta con sé alcuna particolare connotazione grafica (è stampata in uno stile calligrafico pulito, ma standard). Stesso contenuto fu posto su una bandiera dai militanti del movimento wahhabita del Nağd (odierna Arabia Saudita) sul finire del XVIII secolo, e compare oggi – in continuità con il messaggio purista di quel movimento – su diverse bandiere nazionali, prima fra tutte quella saudita.

La bandiera dello Stato islamico invece decostruisce (certo arbitrariamente: nulla nella bandiera del jihād richiama, se non in un raffazzonato immaginario jihadista, una vera assonanza con l’epoca di Maometto) la šahāda, presentandosi paradossalmente come più autentica e, dunque, più radicale. Lo stile di scrittura, a differenza delle succitate bandiere, non è calligrafico (la calligrafia araboislamica ha una lunga e illustre storia), ma epigrafico. La frattura storica che l’Isi, e prima ancora gli šabāb somali, individua nel suo logo è il profeta stesso dell’islam: si cerca il reperto storico che abbia avuto un contatto con la sua mano e lo si mette su una bandiera. Anche se non è certa la sua autenticità, anche se quei documenti sono, in fondo, roba da orientalisti. L’Is (Stato Islamico, già Isis, Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) compie un altro passo sulla strada dell’approccio globalizzato e postmoderno al dato religioso, un cammino che Olivier Roy individuava nelle cosiddette correnti «salafite» contemporanee: «Il più incisivo ruolo della religione come fattore politico e strategico non è un ritorno alle religioni tradizionali nel loro alveo culturale. Al contrario, esso marca una rottura con questa percezione culturalista della religione» 2 .


3. La nuova bandiera rimase a identificare i qaidisti somali e quelli iracheni per alcuni anni. La vediamo poi dal 2012 in Libia, nelle mani di Anṣār al-Šarī‘a, poi in Siria, nell’aprile del 2013, a due anni dall’inizio delle proteste contro il regime di Baššār al-Asad e a poco più di un anno dall’inizio dei combattimenti in quel paese. Dal gennaio 2012 e fino ad allora in Siria aveva agito un’organiz­zazione qaidista, Ğabhat al-Nuṣra, che tuttavia non aveva ufficialmente rivelato la propria affiliazione (anche se gli analisti ne avevano sottolineato a suo tempo i legami con l’Isi, a sua volta legato ai servizi segreti di al-Asad). Abū Bakr al-Baġdādī, il leader dell’Isi, in un comunicato annunciava la fusione del suo gruppo con Ğabhat al-Nuṣra e la nascita di una nuova denominazione, lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante; nella bandiera, sotto la «firma di Maometto», iniziò a comparire la scritta al-Dawla al-Islāmiyya fī al-‘Iraq wa al-Šām (Dā‘iš l’acronimo arabo).

Contestualmente all’apparizione della bandiera dell’Isis in Siria iniziava a consumarsi l’allontanamento della nuova organizzazione dalla centrale di al-Qā‘ida diretta da Ayman al-Zawāhirī. Se da una parte Abū Muḥammad al-Ğūlānī, leader di Ğabhat al-Nuṣra, si svelava qaidista, dall’altra rifiutava la fusione. Al-Zawāhirī gli dava ragione, invitando al-Baġdādī ad abbandonare i propri propositi e a tornare in Iraq, ma questi rifiutava e anzi rilanciava: molto probabilmente c’è la sua mano dietro all’assassinio di colui che aveva designato come «arbitro» della disputa, un vecchio «afghano arabo» che in quel momento militava in un’altra delle formazioni jihadiste siriane anti-Asad, Aḥrār al-Šām.

Muḥammad al-Bahāyā era divenuto famoso ai tempi dell’attentato di Madrid (2004) col nome di Abū Ḫālid al-Sūrī. Vicino a Osama bin Laden e allo stesso al-Zawāhirī ai tempi del jihād afghano, eta stato scarcerato da al-Asad e si era dato un nuovo nome di battaglia, Abū ‘Umayr. Nei giorni successivi alla sua morte, al-Zawāhirī ne ricordava le gesta.

Il dissidio culmina nel maggio 2014 con una decisione senza precedenti: l’Isis è espulsa da al-Qā‘ida. Dopo l’organizzazione compie la ben nota operazione in Iraq, partendo dalle retrovie siriane e istallando la sua roccaforte a Mosul. Qualche giorno più tardi, Abū Bakr al-Baġdādī, in abito e copricapo neri, pronuncia la sua prima ḫuṯba (sermone) da califfo di quello che, con un nuovo mutamento di denominazione, diviene semplicemente Stato Islamico (Is).

La bandiera dell’ormai globale califfato, che alcuni chiamano anche bandiera del jihād e che non si associa più al marchio di al-Qā‘ida, conosce una più rapida diffusione. Mentre sul Web compaiono le mappe del nuovo progetto di conquista, la ritroviamo addirittura in Nigeria, nelle mani dei militanti di Boko Haram. I nuovi simboli risuonano toccandosi. Non sappiamo con esattezza in che punto della storia un jihadista o probabilmente un jihobbyist (jihadista per hobby) o un ehadi (jihadista elettronico) abbia trovato davvero islamico e finanche califfale il sigillo tondo. Sappiamo però che il simbolo adottato dalla prima organizzazione genuinamente post-qaidista della storia occupa oggi abusivamente il riquadro dedicato alle bandiere della pagina in arabo dedicata ai «califfi ben guidati», i primi quattro califfi dell’islam (632-661). In questi dettagli si scorge una forte cesura col passato recente (al-Qā‘ida) e lontano (la wahhābiyya), oltre che un tentativo di «salto all’indietro» (all’epoca dei quattro «califfi ben guidati») che è, in effetti, un salto in avanti (oltre al-Qā‘ida). Resta invece invariata l’attitudine al­l’utopia regressiva della quale sul finire degli anni Ottanta discuteva Bruno Etienne, attribuendola a tutte le espressioni dell’islam politico 3 .


4. Dal punto di vista mediatico il cambiamento cui assistiamo dall’espansione di Isis a oggi colpisce. Non c’è più il moderno e straripante messaggio video di Osama bin Laden, che arringa le folle e minaccia l’Occidente con toni messianici. Non c’è più l’aspro dibattito sull’autenticità di quei messaggi e sulla ricerca spasmodica di indizi riguardanti nuovi attacchi terroristici. Non c’è più lo scandaglio dei forum jihadisti alla ricerca di messaggi in codice o tracce di mutamenti dottrinali e strategici. C’è un «califfo» che pronuncia una ḫuṯba; c’è un progetto di califfato dai confini indefiniti e in cui a macchia di leopardo regna il terrore o il compromesso; c’è un torrente di cinguettii corredati di fotografie e video la cui relazione con le realtà fattuali, strategiche o dottrinali è pressoché impossibile da stabilire (chi ha disegnato la mappa del califfato? È la visione di un jihadista da tastiera poco ferrato in storia dell’islam o è un disegno strategico?).

Coi gattini che abbracciano fucili, jihadisti americani che sorseggiano birra analcolica con la pistola in mano e combattenti impegnati in un torneo di ammazzatutto sulla playstation, possiamo solo fare sociologia. Attraverso i messaggi di Osama bin Laden, come dei suoi più stretti collaboratori, è stata costruita un’ideologia, farneticante quanto si voglia, dai percorsi culturali e religiosi chiari. Il qaidismo è stato supportato da schiere di šayḫ che diffondono da decenni i loro trattati in Rete. Molti di loro oggi bollano l’operazione califfato come illegittima, derubricano quei militanti come ḫawāriğ (uscenti), inserendoli in un’antica categoria eresiologica, e dipingono i loro rampanti šayḫ come degli ignoranti (Turkī al-Bin‘alī aka Abū Sufyān al-Sulāmī, ad esempio, classe 1984). Sopra la flebile copertura ideologica di questi ultimi si posano i tweet di centinaia di jihadisti provenienti da mezzo mondo, la pletora di video, comunicati, volantini, editti e decisioni dai quali ricaviamo principalmente un mosaico di attitudini estremiste impastato di culto della guerra e colorato di califfi, turbanti neri, mappe e bandiere. Cibo dato in pasto alle migliaia di aspiranti jihadisti della nuova generazione, che privi degli strumenti per valutare un ponderoso volume dottrinale in arabo possono seguire, aderire e poi, forse, partire.


5. Eppure, dietro all’esplosione mediatica che ha diffuso il messaggio di Is ci sono persone e strategie. Il nuovo jihadismo trova un’origine soprattutto in Iraq e solo in un secondo momento arriva a coinvolgere l’intera galassia jihadista mondiale. La trasformazione ha inizio nel 2006, quando l’Isi cerca un’alleanza con le tribù sunnite dell’Iraq settentrionale nella regione dell’Anbār, trovando invece un’amministrazione americana che, in risposta, arma quelle tribù, le quali si federano sotto il nome di ṣaḥwa e riescono, per diversi anni, a tenere i qaidisti nell’angolo.

Il paradigma cambia con la guerra in Siria e l’invasione dell’Isi, che lancia una sorta di opa su Ğabhat al-Nuṣra e, contestualmente, inserisce il Levante nella propria denominazione. Come osserva Murat Hazine4, la disputa che ne deriva segna, oltre all’allontanamento di Is da al-Qā‘ida, anche la crescita dell’organizzazione e il suo ridispiegamento: «Questo processo ha reso visibili i due differenti volti dell’Is. L’Is, che in Iraq aveva combattuto contro i gruppi che non gli obbedivano, ha poi formato un’alleanza strategica con quelle tribù. (…) L’Is, che ha imposto rigide regole nelle regioni che controlla in Siria, ha scelto di condividere la gestione del potere con altri gruppi in Iraq. La pratica di due diverse politiche in Siria e in Iraq è un chiaro indicatore della fine strategia dell’Is, come del fatto che esso ha una visione per il futuro dell’Iraq. L’Is, i cui vertici sono tutti iracheni, sa bene di non avere futuro in Siria (dove incontra sempre più l’opposizione della popolazione, n.d.r.) e mira a mantenere la propria influenza in una regione vicina alla frontiera irachena, perseguendo una politica aggressiva. Tuttavia, sta seguendo una politica compatibile con la presenza di altri gruppi in Iraq, al fine di stabilirvisi permanentemente e diventare una parte influente del nuovo sistema. Il risultato di questa strategia è che i divieti praticati a Raqqa non sussistono a Mosul».

Questo principio strategico spiega il coordinamento dell’Is con le milizie che nascono in seno agli aderenti di una confraternita sufi, la Naqšbandiyya irachena: un fatto inedito nel mondo del jihadismo di matrice salafita. Non si tratta, come ai tempi dell’Afghanistan, di installarsi in un paese in cui era possibile suggellare una fratellanza fra gli emigrati, in massima parte arabi, della futura al- Qā‘ida e i taliban locali. Si tratta piuttosto di giungere a patti e coordinarsi con unità di combattimento valide senza alcun riguardo per la loro matrice ideologica e/o religiosa. Si svela così un elemento chiave dell’Is: l’organizzazione si ordina attorno a una malcelata politica di potenza che solo in seconda battuta trova un’ideologia di supporto.

Per capire quanto sia fluida la relazione fra ideologia e pensiero politico-strategico nell’Is, basti notare che l’organizzazione non ha smesso di etichettare i suoi nemici come ṣaḥwa. Stavolta però i ṣaḥwa sono in Siria: così vengono definiti i gruppi jihadisti che gli si oppongono, ad esempio il Fronte islamico. La cosa ben si accosta a un’altra cifra ideologica dell’Is: lo scontato antiamericanismo, a sua volta volano per le campagne di reclutamento internazionale e confliggente con il pensiero strategico dell’organizzazione, proprio nel momento in cui il governo e le milizie sciite, il tradizionale nemico dell’Is, avviano contatti con gli americani.

In questa prospettiva risultano interessanti le affinità tra Is e milizie Naqšbandi. Oltre alla nazionalità irachena della loro leadership c’è anche un forte collegamento con l’esercito iracheno dell’epoca di Saddam Hussein. Sebbene non siano confermabili connessioni dirette dello stesso Abū Bakr al-Baġdādī, sappiamo che alcuni leader dell’Is hanno trascorsi nell’intelligence mi­litare o nell’esercito dell’ex dittatore 5 , tanto che lo stesso Hazine afferma: «La profondità strategica e l’attitudine politica dell’Is sono direttamente correlate alla rifondazione, all’interno dell’organizzazione, dello spirito di intelligence dell’esercito iracheno, che riuscì a gestire le rivolte durante il periodo di Saddam Hussein». Quanto alla milizia Naqšbandi, che emerge ufficialmente alla fine del 2006, dopo l’esecuzione del ra’īs, oltre a essere dichiaratamente nazionalista e neobaatista annovera fra i suoi leader personaggi come ‘Izzat Ibrāhīm al-Dūrī, il più alto ufficiale di Saddam Hussein (ex vicepresidente) a non essere stato catturato e processato dagli americani.

L’Is, che i media rappresentano come la più spietata, rigida e violenta espressione del terrorismo jihadista (ha fatto il giro del mondo il falso dell’ordine del «califfo» di praticare l’escissione su tutte le donne irachene), annovera fra i suoi leader persone che hanno obiettivi chiari (controllano diversi pozzi di petrolio in Iraq e in Siria e smerciano il greggio tramite i canali del contrabbando; attaccano l’Esercito siriano quasi unicamente per conquistare aree economicamente redditizie), sanno come fare la guerra, sanno gestire un territorio in base alle contingenze politiche e, non ultimo, sanno gestire la propaganda molto meglio dei vecchi qaidisti. Il tempo di Osama bin Laden che gioisce insieme ad Ayman al-Zawāhirī di fronte alle immagini delle Torri Gemelle che crollano è finito. L’Is consegna alla storia il vecchio paradigma.


1. Gli imamiti, cioè gli sciiti, aggiungono ad essa una frase su ‘Alī , cugino e genero di Maometto, «amico/prossimo di Dio».

2. «Religious Revivals as a Product and Tool of Globalization», ispionline.it, aprile 2010.

3. L’islamisme radical, Paris, Lgf, 1989.

4. «On the Trail of a Shadow: Which Isis?», Turkeyagenda.com , 9/7/2014.

5. «Exclusive: Top Isis Leaders Revealed», Al Arabiya, 13/2/2014.

1. Si veda ad esempio: «Islamic State Group “Executes 700” in Syria», 17/8/2014, goo.gl/NtFlKJ

2. Vedi ad esempio «Suicide Bomber Kills anti-Isil Leader in Iraq’s Anbar Province: Source», Reuters , 3/6/2014, goo.gl/HC9PDP

3. H. AL OBAIDI, «Anbar Tribesmen Stand up against Isil: Iraqi Officials», al-Shorfa, 15/8/2014, goo.gl/KbyOvS

4. J. HEWSON, «Rise of Islamic State in Southeast Asia», Aljazeera, 1/9/2014, goo.gl/twu960

5. «Boko Haram Voices Support for Isis’ Baghdadi», Afk, 13/7/2014, goo.gl/pPkncJ

Lorenzo Declichjihadicalimes,Prequel
1. LO STORICO TABARI (839-923), NELLA SUA Tariḫ al-umam wa-l-mulūk (Storia degli imam e dei re), narra – ma la tradizione è contestata – che dopo la pace decennale siglata nell’anno 628 con i quraishiti, la tribù egemone della Mecca, il profeta Maometto inviò delle lettere a diversi governanti del tempo...