Distratti dalla sincronicità degli attacchi terroristici del 26 giugno, ne abbiamo travisato in parte la natura.

O meglio, ne abbiamo valutato l’aspetto globale – concentrandoci in parte erroneamente sul fatto che siano avvenuti durante il mese di digiuno dei musulmani, il Ramadan – ma abbiamo tenuto in secondo piano quello locale.

Riordinando i fatti in un sistema di coerenze meno condizionato dall’impatto mediatico incappiamo nel doppio binario dell’attività terroristica che, fatalmente, va a incrociarsi in Tunisia. Da una parte il “jihadismo fai da te”, alimentato dalla rete di comunicazione e propaganda di Stato Islamico e al-Qaida e a suo tempo teorizzato in un lungo trattato da Abu Mus’ab al-Suri. Dall’altra la dottrina del consolidamento territoriale nelle aree in cui ciò è reso possibile dall’instabilità politica e/o da un fiorente sottobosco criminale, incarnato oggi dal gruppo Stato Islamico.

Così troviamo in Francia un lupo solitario – certamente imbevuto di propaganda jihadista – che si vendica del proprio datore di lavoro decapitandolo e in Kuwait il seguito di una strategia, iniziata qualche settimana fa con gli attacchi suicidi nelle aree sciite dall’Arabia Saudita, che intende acuire quella divisione settaria su cui lo Stato Islamico spinge fin da quando, nel lontano 2006, portava ancora il nome di “al-Qaida in Iraq”. Il messaggio è chiaro: se siamo in difficoltà sul nostro territorio siamo pronti a esportare l’odio infraconfessionale, dunque il caos.

L’incrocio fra i binari paralleli avviene in un paese, la Tunisia, dove in questi mesi abbiamo visto per la prima volta in azione il jihadismo di ritorno tanto temuto in Occidente.

Le tradizonali organizzazioni qaidiste tunisine, sotto l’influenza della propaganda dello Stato Islamico e di coloro che hanno combattutto nelle aree “centrali” del conflitto – Iraq e Siria – aderiscono con sempre maggiore evidenza al progetto del califfato. Ma, non essendo la Tunisia un paese in cui è praticabile il “modello” iraqeno o siriano, né una contrapposizione sunniti-sciiti, portano attacchi tesi a destabilizzare il paese: attentati dalla forte carica simbolica (il cuore economico della Tunisia) e di sicuro effetto messi in atto da piccole cellule.

Destabilizzare la Tunisia è molto più facile di quanto si immagini. A dinamiche istituzionali che – come tutti gli osservatori notano – proiettano il paese verso una democrazia matura si affianca una situazione economica e sociale che presenta evidenti debolezze.

Basti far cenno alla strategia economica del governo tunisino, che si basa sul tentativo di attrarre investimenti esteri e sull’integrazione con i mercati internazionali e che riceve un terribile colpo d’arresto ogni volta che nel paese si verifica un attentato. Oppure (anche qui siamo distratti da una “emergenza migranti” in Italia più percepita che reale) al peso in termini di stabilità sociale dell’afflusso nel paese di centinaia di migliaia di profughi: uno ogni dieci abitanti secondo le stime più prudenti. La maggior parte di questi proviene dalla Libia, anche perché i libici non hanno bisogno di visto per entrare in Tunisia.

I nodi sono venuti al pettine il 4 luglio, quando il presidente della Repubblica, Beji Caid Essebsi, ha dichiarato in diretta tv lo stato d’emergenza per 30 giorni su tutto il territorio nazionale. Il fatto, comprensibile se si tiene conto di quanto fin qui accennato, porta con sé chiarissimi pericoli.

Reagire con uno strumento straordinario ad attentati pur sanguinosi (quello sulle spiagge di Sousse è stato l’attacco più letale della storia tunisina) può avere l’effetto boomerang di galvanizzare i terroristi.

Lorenzo Declichjihadicalimes,Prequel
Distratti dalla sincronicità degli attacchi terroristici del 26 giugno, ne abbiamo travisato in parte la natura. O meglio, ne abbiamo valutato l’aspetto globale – concentrandoci in parte erroneamente sul fatto che siano avvenuti durante il mese di digiuno dei musulmani, il Ramadan – ma abbiamo tenuto in secondo piano quello...