Con le lacrime agli occhi:

– Roma- – (di Francesco Palmieri) C’è un angolo dell’Asia dove da sessant’anni gli archeologi italiani scavano, repertano, restaurano e conservano i tesori dell’incontro fra due mondi: Oriente e Occidente. è la valle dello Swat, nel nord dell’attuale Pakistan, che fu tappa importante della spedizione di Alessandro Magno in India nel 327 avanti Cristo. Da lì sarebbe più tardi partito Guru Rinpoche (Padmasanbhava) per introdurre in Tibet la novella del Buddha, che ha informato storia e cultura del Paese delle Nevi fino ai giorni nostri. Sospesa fra tempi remoti, ma inclusa nell’attualita’, la Missione italiana non s’è circoscritta in un’astratta funzione scientifica, diventando invece parte integrante della terra su cui insiste. è del 2011 la ripresa degli scavi, utilizzando grazie alla lungimiranza del ministero degli Affari Esteri un finanziamento del programma di riconversione del debito Italia-Pakistan per realizzare un progetto, concluso nell’autunno 2015, denominato ACT: Archaelogy, Community, Tourism Field School. Sono stati quasi 300 gli operatori locali formati e coinvolti nei lavori sui siti che punteggiano lo Swat, creando occupazione strutturale grazie alla costituzione della prima associazione di guide archeologiche riconosciuta dal governo. Il Pakistan punta alla valorizzazione turistica dello Swat, paragonabile per importanza a una “Pompei dell’Asia”, e alla Missione italiana – diretta oggi dall’archeologo romano Luca Olivieri – è stata affidata la ricostruzione con il riallestimento a Saidu Sharif del Museo inaugurato dal fondatore della Missione, Giuseppe Tucci, nel 1963, poi danneggiato da un terremoto nel 2005 e da una bo

mba nel 2009, quando il territorio finì nelle mani dei talebani. “Il segreto ce lo ha trasmesso Tucci stesso”, spiega Olivieri in un’intervista all’AGI: “Essere sempre vicini alla realta’ umana, non guardarla dall’alto di una presupposta superiorita’ scientifica, o altro”. Se l’opera degli italiani è proseguita per sessant’anni, si deve anche al silenzioso coraggio di chi l’ha rappresentata. Olivieri, che scava in Pakistan dal 1987, vi rimase nel sanguinoso periodo del dominio talebano, quando lo Swat divenne una importante retrovia qaedista ai confini con l’Afghanistan. Questa non facile perseveranza, la rara competenza e la capacita’ di coltivare il dialogo con le genti locali sono il segno di fabbrica della tradizione scientifica italiana nel mondo.

Dal suo inizio, a cavallo tra il 1955 e il ’56, la Missione nello Swat ha riportato alla luce duecento siti di cui alcuni di eccezionale importanza, come il più grande stupa buddhista dello Swat; la moschea di Udegram, la terza più antica del Paese che risale al 1048; la citta’ fortificata indogreca di Barikot, nota come Bazira ai tempi di Alessandro Magno; le necropoli protostoriche che datano a fine secondo millennio avanti Cristo. Non basta: la Missione ha restaurato il Buddha gigante di Jahanabad, un’opera rupestre dell’VIII secolo dopo Cristo sfigurata con l’esplosivo dai talebani. L’intervento, tecnicamente molto sofisticato, ha evitato la ricostituzione dei dettagli anatomici del volto per non suscitare offese alla sensibilita’ religiosa locale, poichè altre azioni iconoclaste hanno avuto luogo negli ultimi vent’anni. Oggi l’obiettivo delle autorita’ pakistane è restituire allo Swat, anche grazie all’opera degli studiosi italiani, il soprannome che aveva acquisito in trascorsi decenni del secolo scorso: la “Svizzera d’Oriente”, per la prosperita’ di cui godette come Stato autonomo dal 1917 al 1969. Il fondatore dello Yusufzai State of Swat, Badshah Saheb, pacifico’ la valle e attuo’ sagge riforme, dotando il territorio di infrastrutture e comunicazioni. Fu il figlio che gli succedette, ultimo Walì dello Swat, a schiudere le porte agli italiani. Luca Olivieri lo descrive come “un uomo raffinato, cosmopolita, sempre in elegantissimi completi inglesi e scarpe italiane, la bella testa fiera, la sigaretta in mano. Eppure, chiunque lo poteva incontrare ogni mattina, senza appuntamento, nel darbar dove amministrava la giustizia e gli affari dello stato”. Nel suo palazzo gli italiani furono di casa. L’illuminata intuizione di avviare una missione di archeologia in Pakistan fu del sommo orientalista Giuseppe Tucci, fondatore dell’IsMEO (Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente), che vi si dedico’ dopo avere gia’ esplorato in lungo e in largo il Tibet e il Nepal. L’eredita’ è stata coltivata senza interruzioni o tradimenti da tre successive generazioni di archeologi, producendo oltre agli scavi e alle ricerche sul campo una messe di oltre 700 pubblicazioni, rapporti e studi quasi tutti in lingua inglese che ne hanno fatto uno dei maggiori pilastri della ricerca mondiale in questo settore. Si segnalano tra questi, la recente serie monografica ACT Reports and Memoirs, che dal 2013 ad oggi ha pubblicato in Pakistan otto volumi. La serie prosegue ed integra la prestigiosa serie Reports and Memoirs dell’IsMEO, poi dell’IsIAO, chiusa nel 2011 con la messa in liquidazione dell’IsIAO. Quello fu un atto amministrativo che ha d’un colpo cancellato il prestigio scientifico e diplomatico che quell’Istituto – unico in Italia, tra i pochi nel mondo – aveva acquisito in quasi ottanta anni di studi e scavi in Asia. Nonostante questo la Missione in Swat rimase aperta – appunto grazie al progetto ACT – e oggi fa parte dell”Associazione ISMEO, che raccoglie gran parte del corpo sociale del defunto IsIAO.

E’ affascinante che ancora adesso la Missione sia ospitata nella ‘Casa Italia’ di stile post-coloniale aperta da Giuseppe Tucci nel 1960 al numero 31-32 del College Colony, a Saidu Sharif, dove sono intatti persino gli arredi originali, con 12 posti letto, una sala da disegno, la ricchissima biblioteca, un laboratorio di restauro e depositi archeologici che immagazzinano oltre 50 mila oggetti. Nel tempo si è dunque compiuto il voto di Tucci, di porre “sia pure con ritardo, l’Italia alla pari dell’Inghilterra, dell’America, della Francia, della Germania, e di altre nazioni ancora, che da oltre mezzo secolo – scriveva nel volume ‘La via dello Swat’ del 1963 – finanziano attive missioni archeologiche in diverse parti dell’Asia”. La Missione è stata infatti la prima iniziativa italiana oltre i tradizionali confini di ricerca del Vicino Oriente e vanta il primato di essere la più longeva in Asia dopo la ‘Delegation’ francese in Afghanistan nonchè la prima fra le straniere a essersi stabilita in Pakistan. Notevole l’interesse con cui quest’operato è guardato nel mondo, specialmente a Pechino. Qui è stata inaugurata alla Beida University una mostra fotografica sulla storia della Missione in Pakistan per il sessantesimo anniversario (restera’ aperta ancora diversi mesi) ed è stata presentata l’edizione cinese di due pubblicazioni della Missione, stampate presso i tipi della Shanghai Classics nella serie EurAsia diretta da Giuseppe Vignato e Francesco D’Arelli, che ha gia’ visto la monumentale traduzione dell’opera maggiore di Giuseppe Tucci, ‘Indo-Tibetica’. Tanta longevita’ e successo derivano probabilmente dallo sguardo con cui sapevano e si sanno porre gli scienziati italiani, che non è molto cambiato da quello del fondatore Tucci, quando arrivando nello Swat comparo’ l’atteggiamento degli indigeni rispetto agli occidentali: “Noi corriamo che ci manca il fiato; essi hanno ancora il tempo di dimenticare il Tempo: che è il segreto per vivere ancora con se stessi, la meravigliosa facolta’ che permette di restare in bilico fra noi e gli altri, fra il concreto e l’astratto”. “Gran parte delle scoperte, le più importanti – spiega Olivieri -, le dobbiamo sullo scavo agli operai, e ai contadini che ci hanno accompagnato in montagna. Tucci faceva mettere tutti in giacca e cravatta anche per andare a salutare il capo della polizia di un oscuro villaggio. Non era piaggeria, o opportunismo, solo il riconoscimento di una realta’. Eravamo e siamo ospiti di un Paese e di genti, di cui riconosciamo e apprezziamo la profonda civilta’ umana. Non vorrei abusare del luogo comune che come Italiani, questo ci riesca più facile. No, non è così. Comunque questo stile – conclude l’archeologo – ci ha permesso di rimanere vicini allo Swat e alle sue genti, anche quando il mondo intero lo dava perduto nella barbarie. E ricominciare a scavare appena la valle è stata pacificata”. (AGI)

http://www.agi.it/estero/2016/01/06/news/pompei_dellasia_60_anni_di_archeologia_italiana_in_pakistan-392708/

Lorenzo DeclichA 30 secondimissione archeologica italiana,pakistan,saidu sharif,swat
Con le lacrime agli occhi: - Roma- - (di Francesco Palmieri) C'è un angolo dell'Asia dove da sessant'anni gli archeologi italiani scavano, repertano, restaurano e conservano i tesori dell'incontro fra due mondi: Oriente e Occidente. è la valle dello Swat, nel nord dell'attuale Pakistan, che fu tappa importante della spedizione...