[Articolo apparso su Limes 1/2018] La ventennale presenza islamica nella capitale nasce e resta dispersa nel territorio. Malgrado la Grande moschea, le comunità stentano ad autorganizzarsi e si appoggiano sempre più alle reti internazionali. Il protocollo d’intesa Stato-islam è all’anno zero.

1. Roma porta il marchio di capitale d’Italia, nel bene e nel male. In città albergano (e talvolta banchettano) la politica, la politica economica e diversi poteri antichi, fra cui un numero di poteri criminali. Al centro di Roma, poi, c’è il cuore e la testa della Chiesa cattolica, il Vaticano, con tutto quel che comporta in termini di indotto culturale, sociale, politico, diplomatico ed economico. Chiunque abiti a Roma, qualunque attività svolga, finisce per accorgersi che quel marchio condiziona in maniera rilevante il proprio modo di vivere la città, così come il modo di vivere di tutti gli altri suoi abitanti, senza eccezioni.

Ciò è vero anche per i musulmani di qualunque retroterra, ceto, nazionalità. A differenza di altre città italiane, essi devono infatti misurarsi col fatto che Roma ospita il lato ufficiale e diplomatico di ciò che chiamiamo sommariamente «mondo islamico». O perlomeno, una versione all’italiana della rappresentazione di un rapporto, di una relazione: quella fra il nostro Stato e un generico islam. Tale relazione ha il suo inizio storico nel 1995, quando viene inaugurata la Grande moschea di Monte Antenne.

La moschea, cui è associato un grande centro culturale, è stata fortemente voluta dal re saudita, che l’ha finanziata. Tutto ciò che la descrive appare simbolico: è tuttora fra le moschee più grandi d’Europa, ma al contempo è collocata in un’area quasi nascosta della città, tra il facoltoso quartiere Parioli e il tratto nord della tangenziale, dove il minareto può svettare senza arrivare a guardare il cupolone di San Pietro, coperto com’è dal monte. La gigantesca costruzione di Renzo Piano, imponente quanto basta a soddisfare la committenza, si trova inoltre in una sorta di cono d’ombra panoramico: da nessuno dei belvedere romani vedremo qualcosa di islamico. Se ciò sia ipocrita o meno non è tema di questo articolo, ma di certo non sfugge che a predominare su tutto sia l’elemento di rappresentanza. È la moschea della diplomazia e dei diplomatici, della munificenza e della generosità saudita e dunque della moderazione wahhabita, tipicamente bifronte: apertura e un certo «ecumenismo» (che esclude gli arcinemici sciiti, specie se iraniani) all’estero, chiusura in patria.

La moschea di Monte Antenne vorrebbe essere la moschea principale di Roma, il luogo dove nel venerdì, giorno di festa, tutti i musulmani si recano per la preghiera comune. Di moschee del genere in un paese musulmano c’è n’è una per ogni agglomerato urbano, ma in una situazione come quella romana, cioè nel pieno del dār al-hiğra (dimora della migrazione, luogo in cui l’islam è fortemente minoritario), darsi da sé l’appellativo di Grande moschea ha il sapore di un’autoproclamazione che rivela ambizioni di egemonia politico-religiosa, o almeno un abbozzo di soft power. Ma l’islam della diaspora, anche nel caso romano, è necessariamente policentrico perché somma (solo talvolta mescola) le tradizioni confessionali, dottrinali, giuridiche di comunità provenienti da luoghi disparati dal punto di vista linguistico, culturale, politico e religioso; oltre che le comunità di musulmani italiani, convertiti o di seconda o terza generazione, cittadini ufficiali o ufficiosi.



Si tratta di comunità che possono o meno percepirsi come tali; che possono aver voglia o no di confrontarsi e far proseliti dentro e fuori il recinto islamico; che possono essere portatrici di una forte identità nazionale (come i marocchini) o politica (i diversi partiti bengalesi); che spesso hanno approcci differenti alla migrazione e all’essere musulmani italiani o in Italia; e che hanno relazioni più o meno strette con organizzazioni religiose (come Gamā‘at al-tablīġ) o socio-politico- religiose (come i Fratelli musulmani), internazionali o del paese di provenienza (come la tunisina al-Nahḍa). Il tutto in assenza di una proposta aggregativa da parte italiana. I protocolli d’intesa con le comunità musulmane restano al palo nonostante il recente Patto nazionale per un islam italiano 1. La struttura dell’islam a Roma, ma soprattutto la sua visibilità, non prescindono dal fatto che ci troviamo nella capitale di un paese che riesce a costruire una moschea ufficiale, una specie di San Pietro in salsa islamica, ma non ha ancora concluso l’iter per la firma, al pari di quasi tutte le altre religioni presenti in Italia (esclusa quella cattolica, che ha il concordato), di un protocollo d’intesa che regoli le relazioni tra Stato italiano e musulmani. Il risultato è che la moschea di Monte Antenne, pur essendo rilevante dal punto di vista architettonico e mediatico, non lo è nel senso religioso: né per i musulmani d’Italia, né per quelli di Roma.

Ciò non implica, ovviamente, che il venerdì sia vuota. Tanto più che, guardando alla mappa delle sale di preghiera (muṣallayāt) in città, essa è tra le più centrali. Presumibilmente vi si recano tanti fedeli sparsi a Roma Nord, area in cui non si trovano altri luoghi di culto musulmani. Un tipo di aggregazione su base topografica, il grado zero della coesione di comunità, ottenibile anche soltanto con l’app islamica che serve a trovare le moschee.

Con la moschea di Monte Antenne abbiamo steso il primo strato di vernice sul muro dell’islam di Roma. Si tratta di un colore di fondo, che edulcora la rappresentazione e in certa misura dissimula ciò che è più evidente nel resto delle metropoli italiane, ma che avviene anche nella capitale: l’autonomo organizzarsi delle comunità musulmane.


2. La presenza musulmana a Roma, che nel tempo si traduce in una visibilità sempre più marcata (si pensi alle feste musulmane celebrate nelle piazze), ha una sua storia specifica. Una storia molto romana, perché si inserisce nelle dinamiche socioeconomiche e demografiche che caratterizzano la città negli ultimi quarant’anni, dallo spopolamento delle aree centrali al progressivo gonfiarsi delle periferie lontane e di un hinterland fatto di piccole cittadine sulla costa o nell’interno ormai divenute dormitori 2.

Storicamente (siamo negli anni Ottanta), la prima caratteristica è la dispersione: il territorio romano è vastissimo e gli arrivi di musulmani non sono, a dispetto dei luoghi comuni, concentrati in un’area specifica 3. Uniche eccezioni, che producono un primo «effetto aggregazione», si hanno sul finire del decennio con le occupazioni a scopo abitativo di aree degradate del centro e della periferia, come il quartiere Esquilino o la baraccopoli del Quarticciolo. In questi luoghi, connotati più dal dato economico che da quello etnico-religioso, risiedono migranti provenienti da paesi diversi, non necessariamente musulmani. Qui troviamo le prime sale adibite a moschea. Ma le comunità musulmane emergenti vivono lo stesso percorso centrifugo di tutte le altre comunità di migranti e di molti autoctoni: un moto che parte dal centro per arrivare in periferia e infine fuori città.



In alcuni casi, come scrive Alessandra Caragiuli, sono gli sgomberi delle aree occupate a dare il via al fenomeno: «Lo spostamento dal capoluogo alle aree periurbane, avvenuto a partire dagli anni Ottanta, ha comportato gradualmente l’estensione provinciale dei network comunitari presenti a Roma, insediamenti di gruppi che conducono la loro vita privata e spesso lavorativa in provincia, mantenendo con la capitale un costante pendolarismo. I primi insediamenti storici nell’hinterland metropolitano, prevalentemente di pendolari nordafricani, erano legati non solo all’espansione economica di alcuni settori lavorativi che necessitavano di manodopera a basso costo, ma anche allo smistamento di immigrati dalla capitale in residence dislocati in provincia, a seguito dell’applicazione dei piani d’accoglienza adottati dalle amministrazioni per la sistemazione alloggiativa di richiedenti asilo e di senzatetto pakistani, bengalesi, somali, zairesi e senegalesi. La popolazione pakistana, e in misura minore quella bengalese, a seguito dello sgombero della Pantanella fu alloggiata nell’Albergo Belen di Lavinio, frazione del Comune di Anzio, luogo divenuto teatro di conflitti sociali dal quale ha avuto inizio la loro permanenza oramai consolidata. Questa frazione ospita dal 2008 l’Associazione islamica per la pace e la da‘wa, formata dallo stesso gruppo di nordafricani e pakistani che nel 2005 fondarono l’Associazione culturale Badr (luna piena) di Tor San Lorenzo e nel 2010 la moschea di Aprilia. La maggioranza delle collettività musulmane si è insediata in una località precisa del grande ghetto-periferia del litorale o dell’interno collinare. La componente dei praticanti ha tentato di ricostruire, come nei contesti originari, relazioni sociali che ruotano intorno a un luogo di culto, spazio che riproduce forme di vita comunitarie, compatibili con la società d’insediamento, ma che resta anche luogo di aggregazione di necessità, in un contesto privo di spazi pubblici d’incontro per la popolazione straniera» 4.

Nella periferia si raccolgono prevalentemente comunità nazionali, a differenza di ciò che succede nel centro e nella cosiddetta Roma solida: lo spazio (che va spopolandosi) che unisce il centro al Grande raccordo anulare, dove le comunità nazionali sono meno distinguibili e dov’è più facile trovare un islam generico, connotato solo nelle sue fondamentali suddivisioni (sunniti, sciiti, sufi). Qui valgono tutt’al più le grandi discriminanti geografiche (islam arabo, islam del subcontinente indiano), attive nel ridefinire le identità dei migranti: «Al di là della presenza di singoli lavoratori di fede islamica, il processo di strutturazione in vere e proprie comunità religiose è avvenuto inizialmente a Colleferro, a Lavinio e a Velletri, recentemente a Ladispoli. Gruppi mono-nazionali, prevalentemente arabi, si sono costituiti fuori dagli ambiti privati domestici, attraverso l’apertura di un luogo di preghiera e successivamente la creazione di associazioni. L’associazionismo quale modalità di partecipazione sociale, per molti acquisita esclusivamente nella società di arrivo, rappresenta la forma più comune che ha assunto la spinta all’autorganizzazione da parte dei gruppi a partire dagli anni Novanta, a seguito della ratifica del capitolo B della Convenzione di Strasburgo, volta all’inclusione degli stranieri nella vita delle comunità locali. Mentre Roma si mostrerà col passare degli anni sempre più una città cosmopolita, sulla scia di una drastica ristrutturazione legata all’integrazione economica globale, l’hinterland metropolitano (specie i centri nella prima corona del capoluogo, dei Castelli e del litorale, e i Comuni della Valle del Tevere) ancora oggi conserva il tratto di essere prevalentemente ‘arab [arabo], nonostante sia in crescita l’esigua presenza organizzata di collettività indo-musulmane e africane, in particolare senegalesi di etnia wolof» 5.



3. Dal punto di vista associativo, cioè dell’emersione di un associazionismo riconducibile all’organizzazione della vita spirituale dei musulmani romani, la città è in forte ritardo rispetto ad altre realtà nazionali, soprattutto del Nord: «La centralità della città di Roma nell’organizzazione dei musulmani nella diaspora è un fenomeno databile comprensibilmente all’ultimo quindicennio. Le ragioni di questo ritardo sono legate sia a fattori riguardanti i tratti identitari dei diversi gruppi, sia alle caratteristiche del contesto urbano d’insediamento. L’iniziale dispersione dei gruppi in una vasta area, il pendolarismo dai centri urbani ai piccoli Comuni dell’hinterland e l’estensione provinciale sin dagli anni Ottanta dei network marocchini presenti a Roma, rallentarono sin da subito la spinta all’organizzazione, che si scontrò col problema della carenza di alloggi e del caro-affitti nella capitale. Il Quarticciolo, Corviale, l’ex colonia Vittorio Emanuele a Ostia, l’Hotel Giotto a Primavalle, l’ex oleificio a Ostiense, Pantanella, rappresentano alcuni spazi urbani occupati e abitati dalla fine degli anni Ottanta ai primi anni Novanta da significativi insediamenti, che raggruppavano sulla base dell’area di provenienza immigrati nordafricani, sud-asiatici, somali, che si adoperarono per ricavare da spazi dismessi le prime sale di preghiera e moschee di quartiere. «L’altro motivo che ritardò il processo di organizzazione pubblica del culto è legato agli elementi identitari di quella parte di popolazione che si costituirà in comunità di fede. La spinta propulsiva all’organizzazione del culto nell’Urbe non venne, come in altre parti d’Italia, dalla componente studentesca, completamente assorbita nelle mobilitazioni degli atenei romani in rivolta, ma in parte dagli esuli politici, aderenti ai movimenti islamisti tunisini ed egiziani della Fratellanza musulmana, in parte dall’autorganizzazione dal basso dei nuclei familiari, migranti di cosiddetta prima generazione investiti dalla riscoperta dell’identità religiosa all’estero. A partire dagli anni Novanta, la città di Roma iniziò la sua corsa verso la reislamizzazione, che interessò inizialmente soprattutto i marocchini e i nordafricani, i primi per vicinanza geografica a essersi insediati nel nostro paese» 6.

Tuttavia, «Se nel Nord Italia il processo di organizzazione pubblica del culto fu alimentato da un islam di tipo politico e mistico, a Roma si mostra predominante la tendenza letteralista ultraconservatrice (come la Gamā‘at al-tablīġ, n.d.r.), rispetto alle visioni riformatrici proposte negli anni Novanta dai movimenti islamisti, rappresentati dalla rete Ucoii». A Roma «è in corso una capillare “re-islamizzazione dal basso”, che sta portando alla creazione di luoghi di culto, fondati con lo scopo preciso non più di rispondere al bisogno di salvaguardia dell’identità religiosa dei credenti, già garantita dall’esistenza di decine di sale di preghiera, ma di realizzare un progetto mondiale: islamizzare intere fette di territorio allo scopo di richiamare all’islam i musulmani in Occidente o occidentalizzati già in patria. L’obiettivo storico è quello di scongiurare la privatizzazione della sfera religiosa e la “culturalizzazione” dell’islam che interessa larghe fasce della popolazione giovanile» 7.

Fondamentale, per inquadrare queste ultime osservazioni, è rimarcare la presenza del fenomeno (del tutto normale in qualsiasi comunità diasporica) di appropriazione e riappropriazione di alcuni tratti, reali o immaginati, della propria identità. Fra essi vi sono anche i tratti religiosi. Alessandra Cargiuli, al pari di tanti altri autori, definisce correttamente questo fenomeno di reislamizzazione, perché nel nuovo ambiente il ritorno alla religione significa per molti versi recepire nuovi stimoli e dare nuovi significati alla propria identità. La reislamizzazione entra nel radar delle istituzioni e dei media in forme differenti ma fondamentali, perché influenzano il fenomeno, tenendo conto che sono le parti attive (dunque spesso i musulmani praticanti) a spendersi per comunità che di norma sono abbandonate a se stesse, ragion per cui essi «appaiono» molto di più del resto. Nel primo caso avendo le istituzioni necessità di trovare referenti ufficiali nelle comunità e dunque rivolgendosi ai «titolari» di gruppi e associazioni musulmane; nel secondo perché i media, specie in corrispondenza di eventi tragici come un attacco terroristico, vanno «a caccia di musulmani» più o meno radicalizzati (o peggio, vanno in visita presso quelle che nel loro immaginario sarebbero delle Molenbeek italiane, prendendo cantonate) che parlino in quanto musulmani. Capita così molto spesso che trovino sensato parlare con quanti fanno dell’islam il perno della propria identità e della propria attività nel sociale, più che normali migranti, o residenti, o cittadini di religione musulmana il cui approccio alle questioni religiose può essere anche molto superficiale e laico.

Per questo vale la pena dare un’occhiata al numero dei musulmani in relazione al numero di praticanti, sebbene non sia facile stabilire percentuali certe. «I praticanti rappresentano una fetta dell’intera popolazione islamica e parte di un tutto immisurabile con rigore scientifico, per l’assenza di criteri oggettivi nell’individuazione delle appartenenze religiose di ognuno e nello specifico dell’idealtipo del musulmano praticante. Si può stimare però il numero dei fedeli che partecipano alle attività educative e sociali nell’ambito della sfera pubblica dell’islam. La presenza su una larga parte del territorio di moschee favorisce una stima attendibile, che si ricava da fonti orali e dall’osservazione partecipante ai momenti devozionali di raduno collettivo. Su 100 mila musulmani stimati al livello romano, gli osservanti che frequentano abitualmente i diversi centri aggregativi disseminati nel territorio sono circa 16 mila, pari al 16% del totale. A questo numero occorre aggiungere circa un 10% – altre 10 mila persone – di donne e mistici, che praticano la fede in spazi privati prestati ai rituali religiosi. Dato quest’ultimo che sottostima il numero dei fedeli praticanti nei luoghi privati, di gran lunga superiore nei contesti migratori rispetto alla stima fornita. Queste stime crescono incredibilmente, fino ad arrivare al 40%, in occasione della congregazione del venerdì, durante l’arco del mese di Ramadan e nelle celebrazioni delle festività islamiche» 8. Quest’ultimo dato ci ricorda che il ruolo dell’islam in alcune aree è proprio quello di fare società attraverso un punto d’unione e riunione in occasione di momenti sentiti dalle persone come basilari. Per questo sono importanti le associazioni, punti emergenti di comunità che si vogliono organizzare ma non sono per forza «fondamentaliste» e trovano nel modello sociale della moschea l’unico riferimento valido che conoscono.



4. In conclusione discutiamo di spazi e relazioni fra essi. L’islam romano risulta polidimensionale, come risulta valutando e collegando fra loro un certo numero di dati. C’è un primo livello, la distribuzione delle moschee nell’area urbana e in provincia: come visto, le due realtà si collegano fra loro tramite le associazioni che le gestiscono. Questi contesti vanno poi valutati all’interno dello spazio nazionale, dove l’islam romano risulta negli ultimi anni emergere quanto a importanza, a fronte però di realtà estremamente radicate nel tessuto socioeconomico e dotate ormai di un’identità specifica (si vedano tra gli altri gli esempi di Milano e della Lombardia) 9.

Nel contesto nazionale è importante rimarcare quanto osservato sulla moschea di Monte Antenne, la cui presenza ha un forte impatto istituzionale, determina legami internazionali (con il Golfo, in particolare con l’Arabia Saudita, e con un «islam diplomatico» propugnato ad esempio dal Marocco, paese da cui provengono molti musulmani residenti in Italia), promuove una sua «politica religiosa» grazie alla quale le comunità marocchine possano rimanere in contatto con la madrepatria (con un ritorno economico evidente). Tuttavia, si trova a una distanza siderale dalle realtà autorganizzate cittadine e provinciali.

Non ci sono infatti solo le tradizioni locali dei paesi di provenienza a influenzare i comportamenti e le attitudini dei musulmani di Roma, ma anche e in maniera crescente le diverse organizzazioni religiose o politico-religiose mondiali cui i musulmani sono affiliati o vanno affiliandosi nel loro percorso di reislamizzazione. Tenendo fuori da questa valutazione le reti del terrorismo di matrice islamista, che pescano in un contesto per molti versi indifferenziato, il terzo livello spaziale riguarda proprio organizzazioni come la «società missionaria» Gamā‘at al-tablīġ, che assume crescente rilevanza nelle comunità di origine indo-pakistano-bengalese 10; o la Fratellanza musulmana 11, decisamente rilevante nelle comunità di origine araba. Parti di quest’ultima organizzazione, che trova espressioni di sé ben lontane se non aliene da un estremismo dai risvolti violenti, percorrono anche nella capitale d’Italia la via del dialogo interreligioso con le tante realtà del mondo cattolico impegnate sul territorio.


Note:

1. A.M. Scalabrin, «Il “Patto nazionale per un Islam italiano”: le nuove basi per un’intesa fra Stato italiano e Islam?», Islam Italia, 22/1/2016.

2. Si veda al riguardo M. Crisci, Italiani e stranieri nello spazio urbano: dinamiche della popolazione di Roma, Milano 2010, Franco Angeli.

3. A. Caragiuli, Islam metropolitano, Roma 2013, Edup.

4. Ivi, pp. 38-39.

5. Ivi, p.39

6. Ivi, p. 27-28

7. Ibidem.

8. Ivi, p. 66.

9. M. Bombardieri, «Mappatura dell’associazionismo islamico in Italia» e «Le moschee in Italia», in A. Angelucci, M. Bombardieri, D. Tacchini, Islam e integrazione in Italia, Marsilio, 2014.

10. «Muslim Networks and Movements in Western Europe», Washington 2010, Pew Forum; «Jemaah Tabligh in the World», goo.gl/fFbezk; «Markaz List World Wide», goo.gl/7Vyd6s

11. B. Maréchal, The Muslim Brothers in Europe, Roots and Discourse, Leiden 2008, Brill.

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La ventennale presenza islamica nella capitale nasce e resta dispersa nel territorio. Malgrado la Grande moschea, le comunità stentano ad autorganizzarsi e si appoggiano sempre più alle reti internazionali. Il protocollo d’intesa Stato-islam è all’anno zero. 1. Roma porta il marchio di capitale d’Italia, nel bene e nel male....