Introduzione

Ho visto un bosco di condizionatori grandi come armadi surgelare il terrazzo dell’imitazione di un ristorante damasceno, mentre il cameriere di Aleppo con famiglia fuggita dalle bombe in Turchia prendeva gli ordini vestito da Saladino.

Ho visto in prima pagina, sul quotidiano nazionale patinato a colori “The Peninsula”, campeggiare la fotografia di una pila di tablet made in china e made in india sopra a un articolo di fondo in cui si evidenziava con preoccupazione che i “low-income-expat” di Asia e Africa ne facevano incetta e in cui si specificava che invece i tablet di marca funzionano molto meglio.

Faceva 41 gradi all’ombra quando ho visto quei low-income-expat vestiti da operai olandesi lavorare a mezzogiorno sul tetto del nuovo museo nazionale “Rosa del deserto”, di Jean Nouvel, in cui alloggerà fra gli altri il “Nafea faa ipoipo” di Paul Gaugin, pagato 300 milioni di dollari.

Ho visto gli occhi iniettati di sangue e lo sguardo terrorizzato di Harun, dello Sri-Lanka ma senza passaporto, mentre mi parlava delle sue 12 ore di lavoro dalle 6 alle 6 e dei suoi 500 euro mensili in un cantiere italiano per costruire una sopraelevata nel nulla di pietre e sabbia, a un’ora di pullman da casa e da qualsiasi altro luogo dove riposare davvero, quando ancora lo stadio dei mondiali cui la sopraelevata porterà non hanno iniziato a costruirlo e al termine del torneo lo smonteranno.

Ho sentito dire da un ingegnere italiano, nell’ufficio della sua azienda dopo un briefing di un’ora sulla sicurezza nei cantieri, che quelli come Harun dopo due anni di lavoro tornano in patria e si comprano casa.

Ho sentito dire che le foreste di grattacieli che ho visto all’orizzonte sono fatti con lo sputo – quando piove si allaga tutto e quando fa troppo caldo cadono le lastre di vetri – e crolleranno in breve perché gli operai che li fanno sono dello Sri-Lanka e non sanno lavorare.

Ho ascoltato diverse persone chiedersi cosa succederà del Qatar dopo i mondiali, quando l’ultima farsa edilizia del Qatar avrà termine e di tutta questa roba nessuno saprà più che fare.

Ho camminato per le vie e i canali di una ricostruzione di Venezia, dove non passeggiano esseri viventi se non guardie e spazzini e dove, nelle piazze spettrali, al posto dei negozi ci sono cartelloni che li riproducono.

A cinquecento metri in linea d’aria, di fronte ai negozi di Ferrari e di Rolls Royce, ho visto un qatarino in bmw biposto da corsa uscire dalla propria autovettura e allontanarsi senza spegnere il motore.

Culture altre?

Fra le favole de Le Mille e una Notte c’è n’è una intitolata “Abdallah uomo di terra e Abdallah uomo di mare”. Narra di un povero pescatore che incontra un suo omologo che vive sott’acqua. Sott’acqua c’è un posto pieno di tesori: Abdallah di terra ne fa conoscenza grazie ad Abdallah di mare. Questi lo rende ricchissimo dandogli una parte di questi tesori sottomarini. Poi la storia finisce male.

Dovendo collocare geograficamente una tradizione che possa rendere conto di un’ambientazione terra-mare di questo genere viene subito in mente la costa sud-occidentale del Golfo Persico, dove per secoli si sono raccolte perle nel mare. In quell’area lì c’è anche la penisola del Qatar. Dunque, andando in Qatar ho pensato a questa fiaba: se c’è una cosa che troverò lì sarà proprio il ricordo di questo mondo di cacciatori di perle. Quello che ho trovato è un nuovissimo quartiere residenziale di Doha chiamato “la perla”, una manciata di famiglie ricchissime di confessione sciita che commerciano in gioielli e un ammasso di rovine abbandonate. Gli stanziamenti dei pescatori e cacciatori di perle, una serie di villaggi costruiti principalmente col fango che orlano la costa del Qatar, sono tutti vuoti e crollano, anno dopo anno.

L’altra “anima storica” (una storia di “lunga durata”) del Qatar doveva essere il beduinismo, un qualcosa della quale Le Mille e una notte ci racconta solo in relazione a una civiltà metropolitana e cosmopolita, quella della Baghdad califfale, soprattutto.

Cioè: in Qatar c’erano questi due tipi di gruppi umani, i costieri e i beduini, quelli che vivevano all’interno, nomadizzando nel deserto. Sul beduinismo in Qatar c’è molto ricamo e le persone cittadine del Qatar amano sentirsi beduine, sembra. La forma che questa percezione di sé stessi assume è la seguente:

  1. indossano quotidianamente indumenti percepiti come beduini, anche se non lo sono davvero o meglio sono delle “riedizioni” di vestiti indossati da alcuni imprecisati beduini. Nel caso delle donne la riedizione prevede l’eliminazione di tutto ciò che poteva essere considerato un “ornamento”, cioè di fatto ciò che di più interessante c’era nella cultura femminile beduina;
  2. da novembre a marzo, quando non fa un caldo insopportabile, prendono un gigantesco SUV, vanno nel deserto e, mentre un nepalese monta un tendaggio definito come “tenda beduina”, fanno volare questi falchi addestrati alla caccia. Fanno un barbecue imperiale, dormono nel tendaggio non prima – forse – di essersi abbandonati a pratiche lascive e dissolute, tornano a casa. I falchi costano dai 3.000 euro in su.

La versione “gran lusso” di questo schema contempla l’espatrio verso luoghi dove c’è effettivamente qualche animale da cacciare. La qual cosa ha certe controindicazioni: ad esempio quando sei l’emiro del Qatar e ti ammazzano il falco in Kazakistan oppure quando tu, membro della famiglia reale, fai una battuta di caccia in Iraq e ti rapiscono.

L’ultimo appiglio alla realtà storica qatarina riguarda la relazione della penisola del Qatar con il grande Oceano indiano, di cui il Golfo Persico, in cui il Qatar si trova, è una delle ramificazioni occidentali (l’altra è il Mar Rosso). Fino all’avvento delle navi a vapore, metà dell’800, questa relazione si identificava con la presenza di grandi barche a vela romana, il cui nome generico in arabo è dhow. I dhow solcavano il grande mare portando merci di ogni tipo, da quelle di prima necessità alle più lussuose. Non è che la penisola del Qatar fosse esattamente il terminale di questo traffico, anzi. Le barche erano dirette per lo più sulla riva nord del Golfo, con destinazione finale Baghdad – appunto – o, comunque, le grandi realtà cittadine dell’Iraq. Doha era uno scalo tecnico, un porto di rilevanza locale, e la cosa suona bene con quell’architettura di fango di cui sopra.

Prendere visione di qualche fotografia della città in periodo pre-petrolifero spiega bene questo concetto: Doha, in zona, era solo il villaggio di fango più grande degli altri. Ciò non significa che il dhow per il Qatar non debba essere qualcosa di simbolico: lega il luogo al mondo esterno, e qui di questo simbolo si fa grande uso.

Di dhow se ne vedono a centinaia, attraccati di fronte alla skyline di Doha. Sono sempre vuoti, a dir la verità, seppure dovrebbero rappresentare una delle maggiori attrazioni turistiche del paese. In pochi hanno conservato gli alberi per le vele, sono quasi tutti a motore. Di notte c’è questo spettacolo molto triste di centinaia di dhow illuminati che aspettano in rada i turisti per un giro di notte nella Baia Ovest. Turisti che non arrivano, giro che non si compie.

All’aeroporto di Doha cancelli definitivamente i pescatori del Golfo, la carovana di dromedari che solca distese pietrose in lontananza, Sinbad e le sue navi. Sovrascrivi tutto ciò nel momento in cui noti che alla dogana ci sono tre file: qatarini (2 sportelli vuota), non qatarini (20 sportelli, piena, ti fanno la scansione della retina e ti controllano il visto), businessmen e prima classe (2 sportelli semivuota).

Tutto tornerà davvero, però, quando lascerai il Qatar, non all’arrivo. Proprio sopra al controllo passaporti in uscita noterai un gigantesco banner – sorprendentemente non sponsorizzato – il cui messaggio, sullo sfondo di fotografie in bianco e nero prese da non si sa bene dove ma non dal Qatar, recita una cosa come: “l’eredità culturale è alla radice del nostro futuro”. Una scritta e un’iconografia che ti spiegano bene il motivo per cui il Qatar un futuro non ce l’ha.

Se c’è un leitmotiv della mia esperienza in Qatar è questo ritornello, ripetuto avanti e indietro da diverse persone con cui ho parlato, riguardo al fatto che nessuno sa cosa succederà al Qatar dopo il 2022. In effetti ci sarebbe una “vision 2030” (qualcosa che hanno anche i sauditi) che è poco più di un fantasma aggirantesi in un castello ancora da costruire, e prima c’è questo 2022, l’anno del mondiale di calcio.

Quelli che si chiedono cosa succederà dopo, sono più o meno gli stessi che ora stanno facendo soldi in Qatar. Se lo chiedono essenzialmente perché oggi in Qatar non si fa che costruire questo evento, e miliardi vengono spesi ogni giorno al fine di renderlo reale. Montagne di soldi. Stadi refrigerati che, poiché non serviranno più una volta utilizzati, devono essere concepiti per essere smontati o per essere riconvertiti in qualcos’altro. Un qualcos’altro di cui il Qatar non ha alcun bisogno.

Si stanno costruendo strade nel nulla, il cui unico scopo è collegare questi stadi con il resto del pianeta. Si parla di ricettività. Si lavora sull’aeroporto per renderlo ancora più gigantesco. Si ragiona in grande sul settore alberghiero, partendo dalla fascia altissima e arrivando all’hooligan, che di valore economico ne ha pochissimo. Sono cose che ora stanno facendo ricchi tanti imprenditori ma che domani non ci saranno più. Un business a scadenza: dal 2022 in avanti il rubinetto – se nel frattempo non si trova qualche altro motivo anche più stupido di un mondiale di calcio per continuare a far cose inutili in mezzo al deserto – si chiuderà inesorabilmente. Insomma ci sarà un dopo i mondiali. Per quanto mi riguarda, però, è più interessante chiedersi che cosa succederà quando si terranno i mondiali di calcio. Anche perché un dopo potrebbe non esserci se le cose andranno come pensiamo io e Massi.

Civiltà?

Fra le cose che mi hanno più affascinato dell’islam storico c’è il tipo di città che esso produce. La città islamica “classica” costruisce il proprio tessuto urbano attorno tre “istituzioni”: il bagno pubblico (hammam), la moschea (masjid) e il mercato (suq). Qualsiasi città storica nel mondo musulmano è fatta così ed è molto divertente, quando si fa visita, individuare i confini e le caratteristiche di questi agglomerati appuntando sulla mappa la dislocazione di questi tre oggetti.

Riguardo agli hammam dirò subito che a Doha ci sono delle Spa, spesso annidate in qualche hotel, travestite da hammam. In altri posti, ad esempio Marrakesh o Istanbul, ti può dare fastidio il fatto che diversi hammam siano rifatti, finti. Che insomma, in definitiva, siano una roba postmoderna di merda. In quelle città ti devi andare a cercare l’hammam di quartiere e alla fine lo trovi anche se magari capiti malissimo.

Qui a Doha invece di hammam non ce ne sono affatto. Forse non ce ne sono mai stati. Il ché racconta in forma molto sintetica il posto che questa città ha nella storia della civiltà arabo-islamica: nessuno.

Al riguardo delle moschee del Qatar vale la pena sottolineare che ce ne sono poche.

Le moschee a Doha sono sparse a caso nella città, non segnalano alcun genere di punto centrale o nevralgico dell’agglomerato urbano che hanno attorno. Spesso non le vedi proprio perché stanno incastrate dentro ai grattacieli. Le moschee di Doha non hanno alcuna caratteristica specifica, se non che sono nuove. Voglio dire: c’è la moschea più alta, c’è la moschea più grande (e ne parlerò). Roba così. Nessuna moschea in Qatar supera i cento anni d’età. Anzi gli ottanta. C’è in effetti anche la più antica – sulla punta della penisola – ma è quasi rasa al suolo, essendo di fango come i villaggi. Le moschee di fango sono bellissime ma a oggi di fatto fra le moschee praticabili nessuna è degna di nota dal punto di vista storico-artistico.

Arriviamo ai mercati. Quelli ci sono, ce ne sono a decine nella forma dei mall, cioè di centri commerciali. Come tutti i mall quelli del Qatar sono dei non-luoghi, cioè posti nei quali si perde la connessione con tutto ciò che realmente si trova attorno a essi. Ricostruzioni di Venezia (aridaje), della Galleria di Milano, di qualche altro altrove. Una cosa penosa, angosciante, triste. I mall sono esattamente il contrario di un suq, ovvero il terminale di traffici commerciali tracciabili, un luogo in cui percepisci l’esistenza di un reticolo di relazioni sociali, economiche e culturali il cui marchio cittadino è indelebile. Relazioni che in Qatar c’erano in quello che è praticamente l’unico suq, il suq Waqif. Del Qatar si capisce molto facendone il giro. Quello che capiremo è decisamente controintuitivo rispetto a quanto detto dei suq qui sopra. Non è un caso che qui sopra abbia usato il verbo al passato.

Suq Waqif

Il suq Waqif (cioè praticamente il “mercato di sosta”) di Doha è la ricostruzione di un suq che stava lì molto tempo fa e portava lo stesso nome. È un posto che vorrebbe sembrare vero, e per certi verso lo è – possiamo toccarlo in effetti – ma diversi elementi ce lo fanno risultare un plateale fake. Non v’è pietra (corallina), lì, che appartenga all’originale o davvero a quel luogo – (l’antesignano era molto più fangoso – in una dimensione diacronica reale, non immaginata. Allo stesso tempo è palese l’intento, tragicamente mal riuscito, di dare un effetto antichizzante. Le travi di legno che sporgono dagli edifici, ad esempio, non riescono a sembrare parte delle costruzioni, sebbene siano stati messe là dove teoricamente dovrebbero stare se i pavimenti dell’edificio fossero davvero retti da travi in legno. Capisci subito, invece, che gli interni sono di cemento e che quelle travi sono state messe lì solo per farsi vedere in quanto travi di un vecchio edificio. Lo stesso vale per i buchi in cui vanno a infilarsi i piccioni. Sono la copertina del palazzo, non ne sono parte strutturale. Se si ha la percezione di tutto questo, il ché non è affatto scontato, si prova un certo imbarazzo.

Circondata da grandi piazze vuote, l’intera area del suq Waqif è refrigerata da un mastodontico sistema di condizionamento. Il clangore infernale del suo motore satura subito lo spettro sonoro di ognuno. Siamo proprio là dove mandrie di SUV parcheggiano per depositare il loro carico umano. E dove si suppone debbano iniziare a percepirsi i suoni caratteristici di un’umanità laboriosa intenta in piccoli, medi e grandi commerci. Suoni che non percepiamo. Appena entrati nel suq Waqif si nota immediatamente che vi sono addetti al trasporto merci. Si tratta di individui dotati di carriola numerata e pettorina, abilitati ad operare grazie a regolare permesso. Non è chiaro se si possano trasportare merci in altro modo, temo di no.

Sui pavimenti del suq, tanto sono puliti, non faticherei a disporre il cibo per un picnic con mia figlia. Seduto a un bar mi è inavvertitamente caduta una bottiglia di plastica per terra. Non ho fatto in tempo a individuarla che già due spazzini le si erano avventati contro. Uno di loro, il più lesto, l’ha catturata con uno strumento ideato appositamente per raccogliere cose da per terra e accartocciarle. L’ha fatta scomparire nel suo stilosissimo secchio a rotelle rosa, nuovo di pacca e profumato. Ha sorriso sinistramente. Ho provato pena per la bottiglietta.

Quasi tutta la merce esposta nel suq Waqif di Doha non è locale. Ci sono tanti singoli negozi copiati da altri suq, installati per le stradine, fatte a forma di vera stradina di un suq. Sono riproduzioni di negozi veri, non sono negozi veri, questa è la verità che trasmettono. Il negozio di tappeti turco, il robivecchi marocchino, l’artigiano del legno siriano e così via. Sono messi un po’ alla rinfusa, senza quella coerenza tipica di un suq, dove – cazzo – i piastrellari stanno nella via dei piastrellari e gli speziali stanno nella via degli speziali.

Gli pseudonegozi del suq chiudono dalle 13 alle 16. La cosa non avviene a causa del caldo – il suq è refrigerato – ma perché proprio la Regola del Suq Waqif stabilisce questo. Tu bussi alla porta di una di queste metafore di negozio alle 13.01 e dall’interno ti dicono: “è chiuso”. Non ci si crede, dicono proprio così.

Anche i ristoranti, in numero macroscopicamente sproporzionato rispetto a un normale suq, sono delle messe in scena di altri luoghi. I loro nomi richiamano quegli altri luoghi e gli interni sono delle rappresentazioni di essi. I loro camerieri vestono abiti che si ritiene debbano essere tradizionali di quegli altri luoghi. Dei frigoriferi avete già letto.

Le poche cose che si suppone siano davvero qatarine, nel suq Waqif ricevono una pubblicità sfacciata. Qualsiasi guida, di carta o di carne, ti indicherà ad esempio l’unico posto dove si gioca una dama locale. È una specie di sala da té frequentata molto poco, dove campeggiano i ritratti degli emiri e sulle pareti si celebra questa dama del Qatar. Un po’ come sui muri di Eataly si spompina attorno ai cazzo di biscottini piemontesi e ad altri cibi di merda culturalizzati anche male. La guida ti dirige poi verso i negozi dove si vendono i falchi e gli accessori per falchi. C’è un’intera sezione del suq dedicato a questa loro falconeria, un’attività per praticare la quale bisogna essere milionari. C’è anche un efficientissimo e celebratissimo ospedale per falchi. Si va lì a vedere quanto ai qatarini interessino i falchi ma l’impressione e che vi sia un numero di negozi di falchi maggiore del numero di cittadini del Qatar. E poi non ci sono clienti, l’effetto-deserto è immediato. I falchi, quelli senza cappuccio, ti guardano. Tu li guardi. La cosa finisce lì.

Nel suq Waqif c’è un annoiato poliziotto a ogni angolo. Se contiamo quelle in borghese, ci sono quasi certamente più guardie che spazzini. Talvolta passano anche guardie a cavallo, vestite da guardie a cavallo del Qatar, e hai l’impressione che facciano questo giro per far vedere che esistono guardie a cavallo del Qatar. Non hanno niente altro da fare, in effetti, se non dare testimonianza di se stessi. Perché l’immagine che il suq restituisce è quella di un set. È una sensazione che si prova più volte in più luoghi a Doha. Ma il fatto è che qui ci vendono l’antico suq di Doha, non la pantomima di Milano o la parrucca di Parigi. O comunque ci dicono che quello è un suq, cosa che – mi sembra di averlo spiegato con sufficiente accuratezza – tecnicamente non è.

Il suq Waqif si riempie a sera. Qui si svela l’arcano. Questo non è un posto dove si vanno a comprare davvero le cose che servono, è bensì un posto dove si agisce come se lo si facesse. Soprattutto: lì si va a fare una passeggiata. I negozianti sono figuranti, più o meno. Nessuno sembra interessato a fare del commercio vero, qui. Piuttosto tutti vorrebbero agire come se fossero veramente lì per far commercio, e la cosa quando è sera – cioè quando i suq generalmente chiudono – sembra quasi avverarsi.

Il suq Waqif è un nonluogo virato verso stili e abitudini arabislamicheggianti. Si immagina che alla gente trovarsi lì per un rendez-vouz possa far piacere. O anche che questo arabislamicheggiare sia di conforto a chi, di fatto, di islamico a Doha non vede nulla essendo che, come si diceva, il panorama è fatto di grattacieli e gru, non di minareti.

Ogni nonluogo è replicabile, questo è il punto forte. E sembra che il progetto suq Waqif sia piaciuto. Hanno rifatto lo stesso suq ad al-Wakra, una località a sud di Doha. Pare che però sia meglio perché è vicino al mare, e anche più vicino alle famiglie, dicono, quindi pompa di più. Dalle descrizioni che ne fa Doha news si capisce tutto: anche questa è un’esperienza di suq, non un suq. Tanto che deve sembrare vero solo fino a un certo punto. Per funzionare a pieno regime per ciò che è – un parco giochi culturalizzato – deve anche essere patentemente falso. Non sia mai che qualcuno scambi il tema suq per un suq.

Katara

Usciti dall’incubo del suq Waqif non ci si immagina che vi sia un luogo anche più angosciante: il Katara. “Katara”, recita il sito, è l’antico nome dato alla penisola del Qatar da Tolomeo nel 150. Di qatarino qui sembra non esserci assolutamente nulla se non alcuni “impiegati”, cioè qatarini che prendono uno stipendio faraonico per rappresentare un Qatar che lavora. È chiaramente un fake. Il lavoro in Qatar non lo fanno i qatarini. Qualcuno mi ha detto di aver conosciuto uno di questi impiegati del Qatar che parlava dalla mattina alla sera della sua Lamborghini.

Ma comunque. Questo compound recintato e difeso da guardie armate intenderebbe rappresentare un centro culturale del Qatar, quindi va spiegato il senso di tutta l’operazione. Al centro del discorso di Katara, scopriamo, non c’è la cultura del Qatar bensì “la cultura” intesa in un certo qual senso. Per capire questo senso si può cercare di estrarre concetti dal testo di presentazione del centro che si trova in rete. Un testo che, avverto, si presta a diverse interpretazioni e sul quale non mi soffermerò. Di fatto il posto è un costrutto ideologico non vincolato da coerenze concettuali e/o formali di qualche tipo, ad esempio la storia di un qualche luogo, l’architettura di un qualche altro luogo, la letteratura in una certa lingua ecc.. Avendo questo approccio “globale”, il contenuto culturale del centro è nullo. Al Katara coesistono:

  1. l’anfiteatro (greco o romano?) antichizzato di marmo con pseudotravi di legno ivi imbullonate stile suq Waqif;
  2. un’anonima spiaggia che vorrebbe ricordare a volte la Costa azzurra a volte Cuba ma chiaramente assomiglia a Coccia di Morto, nota spiaggia nei dintorni di Fiumicino aeroporto;
  3. alcuni esercizi commerciali culturalizzati come una cioccolateria francese e una pizzeria “Le Vesuvio” (la scritta in arabo recita però “Lu Vesuvio”);
  4. dei teatri con nomi pomposi e un teatro dell’opera;
  5. delle mostre permanenti o meno;
  6. due cosiddette moschee: la prima completamente d’oro e l’altra che è una specie di patchwork, con torri per piccioni maliane come minareti e un parallelepipedo piastrellato che fa da sala di preghiera i cui riferimenti potrebbero andare all’800 tunisino o a Samarcanda ma non sono né l’uno né l’altro – probabilmente la cosa più orribile che vi sia al mondo.

L’unico legame a qualcosa che dovrebbe essere percepito come appartenente alla storia e alla cultura del Qatar, cioè il punto di partenza attorno al quale – al limite – dipanare il proprio discorso sulla cultura globale, sarebbe la generica islamicità di queste due moschee che, invece, sono un vero e proprio insulto alla storia dell’arte islamica.

L’esperienza del Katara funzionerebbe così:

  1. si viene accolti;
  2. si passa in autovettura elettrica fra queste raccapriccianti costruzioni tirate a lucido, alcune delle quali ospitano un centro per la rivalutazione di qualcosa, ad esempio i francobolli, o anche un’area dove si fanno mostre o si tengono eventi.
  3. si va a mangiare.

La cosa è complessivamente così disgustosa da farti entrare in sofferenza psicologica immediatamente. Se avevi fame la fame ti passa. Inizi a pensare al suq Waqif come al bene assoluto, come al luogo più accogliente del mondo, così vicino a te e ai tuoi veri bisogni di essere umano. Giungi ad apprezzare il fatto che almeno lì hanno fatto uno sforzo per farlo sembrare quasi vero. Arrivi a pensare che abbiano fatto quell’orribile antiteatro, costato probabilmente decine di milioni di euro, per ringraziare Tolomeo di aver citato Katara – cioè un secchio di sabbia.

Poi al Katara succede che stai sulla macchinetta elettrica perché sei stato costretto a prenderla: i guidatori di macchinette del Katara devono lavorare almeno una volta al giorno per rappresentare il fatto di lavorare. La macchinetta ti porta via, ti hanno preso in ostaggio. Pensi solo a un modo per fuggire ma non trovi il modo di farlo senza farti prendere a fucilate dalle guardie del compound. Il voltastomaco parte quando scopri che ci sono errori di grammatica in arabo nei nomi delle vie (“Via Seconda” in arabo si scrive shari’ al-thani, cazzo, non shari’ al-tani).

Alla fine ti rilasciano, finalmente il respiro torna regolare. Pensi ai villaggi di fango dei pescatori. Sono troppo di fango, ecco il problema del qatarino culturalizzato. Meglio rifare in cemento armato i minareti di fango del Mali, al Katara. Perché a nessuno interessa assolutamente nulla di come era il Qatar una volta. Anzi si percepisce il fatto che il vero passato del Qatar è una cosa da nascondere o da dimenticare. Altro che banner all’aeroporto.

Venezia

E pensare che per filmare il Katara ci vuole un permesso. Informalmente lo puoi fare, certo. Ma se vai proprio con una troupe televisiva, entri in Qatar in quanto troupe, non puoi filmare niente senza prima avere la pezza di carta. Ecco si dà il caso che io sia entrato in Qatar al seguito di una troupe televisiva. Fra i permessi concessi c’è stato il Katara. Fra quelli non concessi c’è un centro commerciale nel quale hanno cercato goffamente di riprodurre, oltre a una strada dell’Ile de la cité, un canale di Venezia con gondola elettrica annessa. Un’altra proibizione: non filmare gli operai.

Anche coi permessi in tasca scopri che l’atto di filmare procura allarme e provoca un impatto dialogico guardia-te. Ad esempio se fai visita a Venice in Qatar ovvero la Venezia finta e vuota descritta nell’introduzione, non il mall appena citato, e ti metti a filmare, una guardia ti intimerà di smettere. Tu gli spiegherai che hai il permesso di filmare per le strade di Doha, come da documento che vai a mostrare. La guardia ti dirà che quella non è una strada di Doha bensì una proprietà privata. E che quindi bisogna chiedere il permesso al privato.

Ecco l’inghippo. Hai chiesto all’emiro di filmare il Qatar e lui ha detto di sì. Ma in Qatar lo spazio pubblico non esiste. Lo spazio in Qatar è roba privata. Quindi tendi a pensare che quel foglio non serva a niente. E invece no, quel foglio ti permette di non essere arrestato tout court. Cioè: se non ce l’hai vai dritto al gabbio. Se ce l’hai non puoi filmare niente.

Il risultato è che tu in quanto troupe televisiva ti trovi continuamente in un’impasse. Sei di fatto mobbizzato da orde di guardie – sono ovunque, davvero – che ti chiedono ‘sta pizza de fango di permesso. Nel caso di Venezia finta poi arriva anche la beffa. Se chiedi chi sia il privato a cui chiedere il permesso e la guardia ti dice il nome di una società dell’emiro. E se dici: “l’emiro, l’emiro mi ha dato questo foglio!” la guardia ghigna.

Ma concentriamoci un attimo su Venezia. Qatar Airways ha inaugurato la tratta Venezia-Qatar nel 2016. Immagino questi qatarini che abitano a Venice in Qatar (li immagino e basta, perché davvero ho avuto la sensazione che in quel quartiere non abiti anima viva), che vanno al mall per prendere la gondola di merda, e poi vanno a Venezia con la Qatar Airways. Questa deculturazione di Venezia, questa struttura del consumo dell’idea di Venezia, secondo me, spingerà il qatarino che va a Venezia a preferire il mall a Venezia stessa. E magari alla fine pure a comprarsi casa a Venice in Qatar. È per forza così, pensateci. Pensateci riportando alla mente il paradigma dell’aborigeno di Corrado Guzzanti. Se poi l’aborigeno è culturalizzato cosa pensate che ne esca fuori? A me, pseudobeduino del Qatar, di Venezia vera non interessa assolutamente nulla. Io so di Venezia solo perché al mall ci sono le gondole di merda. Nella Venezia vera non c’è nulla che non ci sia a Venice in Qatar.

Sissì, sento le voci che dicono “ma dai, tu la differenza la sai”. Sì, la so. Ma, anche, immagino di essere uno pseudobeduino prezzolato del Qatar che nella vita ha visto praticamente solo i suoi famigliari, gli amici dei suoi famigliari, qualche expat, automobili, grattacieli, un botto di tv satellitare, una valanga di internet e una noncittà di nome Doha, dove prendi il SUV anche per andare a pisciare. Per quale oscura ragione dovrei pensare che Venezia vera non sia la versione puzzolente e caotica del mio mall? Immagino questa cosa e mi prende il coccolo.Molto angosciante, sì.

Pray Inn

La gigantesca moschea-monumento di Doha inaugurata in pompa magna nel 2011 è intitolata a Muhammad Ibn Abd al-Wahhab, fondatore nel XVIII secolo di uno dei movimenti più retrogradi e conservatori della storia dell’Islam, benché moderno.

Vedremo meglio più avanti che ciò non significa affatto ciò che sembra, e cioè che il Qatar sia un paese wahhabita. Concentriamoci ora sul fatto che la moschea può ospitare 10.000 fedeli all’interno e 20.000 fuori, sullo spiazzo di fronte. Ma, soprattutto, che la moschea ha un parcheggio accluso, la qual cosa è già per me – all’età di 50 anni e con un bagaglio discreto di viaggi per il mondo arabo e islamico – una novità assoluta. È un parcheggio di dimensioni mostruose, tenendo conto del fatto – anche – che i posti macchina sono giganteschi, sono fatti per mettere comodo un SUV cioè l’utilitaria del qatarino medio.

A Doha quasi non ci sono marciapiedi. La sola idea che vi possa essere un quartiere purchessia, con botteghe di qualche genere presso le quali recarsi a piedi è aliena a coloro che danno la terra per costruire: gli emiri. Qualsiasi merce è raggiungibile solo prendendo la macchina. Tutto costa molto, ad esclusione delle macchine e della benzina. Entrambe le cose non sono però prerogativa di una fetta considerevole di residenti: gli operai. Loro li portano ai cantieri in pullman. E li portano a casa in pullman. I pullman sono l’unica cosa vecchia che circola a Doha, parliamo di trasporto passeggeri. Tutto il resto è più o meno nuovo di zecca e roboante.

Secondo Doha News, che riporta dei dati dell’OMS, la qualità dell’aria del mondo è pessima. Causa moltissimi morti. Anche in Qatar la qualità dell’aria è pessima, dice. Anzi di più. Chiaro, uno pensa. Usate i vostri SUV come fossero un’estensione del vostro corpo. Le vostre strade, sebbene gigantesche, sono costantemente intasate. E, nonostante i decreti imperiali di cui parleremo, non potrebbe essere altrimenti. Avete fatto Doha così e ve la tenete così.

Secondo Doha News il modo per migliorare l’aria di Doha non consiste nell’evitare di usare il SUV, però. Consiste nell’adottare alcune sane abitudini come:

  • evitare di fumare al chiuso
  • tenere in ordine
  • ventilare bene la stufa a gas
  • Se possibile rimuovere la moquette
  • Coprire il secchio della spazzatura così da non attrarre gli insetti
  • Tenere le scarpe fuori casa
  • non usare deodoranti per ambienti
  • Installare percettori di monossido di carbonio
  • Aggiustare le perdite d’acqua
  • Lavare le superfici spesso
  • Lavare la biancheria in acqua calda
  • Assicurarsi che gli scarichi di bagno e cucina funzionino correttamente
  • evitare di accendere candele profumate in camera da letto

Capite? Tappiamo il secchio della monnezza e moriremo di meno. L’aria condizionata a palla e il SUV sempre più grosso vanno bene, invece.

La moschea nazionale del Qatar è spesso vuota. Non pregano in molti qui se non in momenti particolari, quando l’emiro chiama, in occasione delle feste. In compenso ci sono almeno 50 lavoratori occupati nella pulizia e una ventina nella sicurezza. Tu vai lì e hai gli occhi puntati addosso e cammini su una superficie traslucida. Per fumare una sigaretta sulla spianata di alabastro, cosa vietata, devi cercare gli angoli morti delle telecamere.

Fuori fa 41 gradi, dentro fa 21 gradi. C’è un unico enorme tappeto rosso che a posarci i piedi ti viene sonno per quanto è morbido. C’è un discreto numero di megaschermi che ti spiegano cosa non devi fare in moschea e chi parlerà durante il sermone, il prossimo venerdì. I bambini non possono entrare, ma non ho capito bene il concetto di “bambino” (tifl), A giudicare dal cartello che spiega le regole da seguire nella spiaggia dell’Hilton, alcuni bambini possono avere anche 16 anni (e devono essere supervisionati costantemente dai genitori). Sugli schermi, all’interno, puoi vedere vedere financo la moschea da un drone. Ma dal punto di vista storico artistico, drone o non drone, non c’è nulla da segnalare.

Dettaglio scenico: la spianata si affaccia sulla skyline di Doha. Tu preghi in direzione della Mecca, poi ti giri per tornare a casa e vedi questa skyline. Il vialetto che porta all’entrata principale è una “strada privata”, è vietato l’accesso. Il “privato” che la può percorrere in automobile è l’emiro. L’emiro avrà il privilegio di godersi in automobile la facciata della moschea all’andata e la skyline al ritorno, percorrendo il proprio vialetto. Ultimo dettaglio. Da questa prospettiva la skyline si pone davanti alla rotta di molti aeroplani in atterraggio. L’effetto ottico che si produce e che non sono riuscito a riprendere con i miei potenti mezzi audiovideo, è di una possibile collisione dell’aeroplano in atterraggio con uno dei grattacieli. Una specie di 11 settembre potenziale ogni 7-8 minuti.

La moschea è anche chiamata Grande Moschea o Moschea nazionale. È la moschea ufficiale, la moschea dello Stato del Qatar (Dawla Qatar). Ecco io adesso in due righe descriverò di quale nazione/Stato stiamo parlando, dal punto di vista religioso. Lo Stato del Qatar ha una costituzione in cui al primo articolo si dice che la shari’a, cioè sommariamente parlando la legge islamica, è la fonte di ispirazione principale della legislazione (non potrebbe far altro che “ispirare”, la shari’a, essendo un insieme molto limitato di imposizioni, consigli, indicazioni). Ma lo Stato del Qatar è una monarchia assoluta, i cittadini sono sudditi. Bene, il punto è questo: la moschea nazionale poteva anche intitolarsi a Omar Sharif, la sostanza non cambia perché le leggi le fa il re. Ispirandosi. Questo è il wahhabismo del Qatar.

Un buon esempio di come funziona la Legge in Qatar è questa disposizione su chi può avere la patente e chi no. È così: c’è un elenco di professioni che non possono accedere al permesso di guida. Fra queste ci sono, per esempio, i fotografi, gli aiuto farmacisti, gli agricoltori. Tutto questo servirebbe a eliminare il traffico, o a renderlo meno congestionato.

Bene. Sfido chiunque a immaginare in che modo questa disposizione possa ispirarsi alla shari’a. A me sembra un pezzo de “Il dittatore dello Stato libero di Bananas” di Woody Allen.

Si prende tutto, anche il caffè (cit.)

Spero abbiate capito: in Qatar la relazione fra ciò che viene definito “cultura” e ciò che potremmo chiamare “realtà culturale” non esiste. E ciò avviene un po’ perché in paesi come quello, questa “realtà culturale”, se esisteva, è stata dimenticata o letteralmente rasa al suolo o sovrascritta in modi diversi. La cosa è sintomatica di un andamento globale, ma di questo parleremo in chiusura. Di fatto in questo mondo, oggi, esiste una “cultura” solo nel momento in cui si avverte la necessità di averne una per un qualche motivo anche stupido, anche di potere, anche di distruzione del nemico. Spesso il motivo è banalmente commerciale. Ma il risultato alla lunga è una tabula rasa. Perché tutto il resto viene buttato nel cesso.

L’emblema di tutto questo lo trovi in questa pubblicità dello Starbucks qatariota:

Esaminiamola. Allora:

  1. al mondo esiste il caffè;
  2. gli italiani sono fra gli amanti del caffè;
  3. esiste al-Mukha (o al-Mokha o semplicemente Mokha), una città portuale dello Yemen che per secoli è stata al centro dei commerci di caffè essendo stata il maggior porto dello Yemen;
  4. dopo la seconda guerra mondiale Bialetti inventa una macchinetta del caffè, la moka, che faceva il caffè più velocemente della precedente “napoletana” (e per alcuni lo faceva anche più buono, ma su questo possiamo discutere). La intitolò “moka” riferendosi a “Mokha” ma togliendo l’”h” e lasciando il “k” per comodità di lettura (l’Italia del dopoguerra era quello che era);
  5. la catena di caffetterie Starbucks intitola una delle sue indigeste brode a Mokha, usando la esotizzante e depistantissima trascrizione “Mocha”.

Bene, ora: in arabo sulla foto qua sopra c’è scritto “moka”, col “k”. Cioè si utilizza una consonante che trasforma un bevanda il cui nome deriva dalla città di Mokha in una bevanda che prende il nome da una macchinetta del caffè italiana. Eppure Mokha sta tutto sommato non molto lontano da Doha rispetto a – che so? – Los Angeles e, soprattutto, all’Italia. Mentre la moka in un paese come il Qatar probabilmente non l’hanno mai vista nemmeno in cartolina. E il mocha di Starbucks con una tazzina di moka c’entra veramente zero. A chiudere il percorso al termine del quale hai la sensazione che in quei bicchieri potrebbe anche esserci merda di cavallo fusa – tanto è uguale – scopriamo che la parola usata per “caffè” in caratteri latini è proprio “caffè” – cioè all’italiana – e non “coffee” come sarebbe normale in inglese. Addirittura, in arabo la parola è trascritta come un calco della parola italiana (“kafih”), cancellando la parola che in arabo si usa per indicare il caffè: qahwa.

Ecco bo’, fate voi. Vi “sentite un po’ Mocha” come nella scritta in inglese o “desiderate bere moka” come nella scritta in arabo? Niente paura, comunque: il caffè vero (anzi: quasi-vero) lo trovate al suq Waqif, là dove si gioca alla dama qatarina. E scommetto uno zilione di riyal che entro 3 anni al Katara faranno una conferenza sulla rivalutazione del caffè arabo.

Cittadini o fantasmi

Nel 2016 lo Stato del Qatar contava 300.000 cittadini e 1.900.000 residenti, detti anche “expat”. Cioè c’è un cittadino ogni sei abitanti. Dei cittadini il 46% sarebbe wahhabita, il resto no. Parliamo di poco meno di 150.000 persone. Il Qatar è uno Stato wahhabita ma i wahhabiti in Qatar rappresentano poco meno del 10% degli abitanti del Qatar. Un buon 8% dei cittadini del Qatar sarebbero poi sciiti. Fra di essi ci sono gli uomini più ricchi del Qatar, se escludiamo gli emiri. Sono commercianti, gioiellieri. Di questi sciiti non sappiamo nulla se non che hanno qualche moschea e che, come in Arabia Saudita, non sono impiegati ai livelli alti della pubblica amministrazione. Ma pare che stiano meglio che in altri paesi del Golfo. In ogni caso appare chiaro che siano ciò che è rimasto del Qatar pre-petrolio. Erano quelli che facevano i soldi con le perle. E si sono salvati perché erano ricchi mentre tutti gli altri, i vari Abdallah, sono scomparsi.

Fra i cittadini del Qatar, comunque, ci sarebbero anche alcuni Bahai. Sarebbero gli unici cittadini del Qatar non musulmani. Di quei 1.900.000 residenti, invece, circa 400.000 sarebbero cristiani, il resto hindu, buddhisti e un qualche genere di musulmano non wahhabita.

Cristiani, hindu ecc. non sono sempre gli stessi, va detto. Ogni anno a Doha fanno il conto di chi va e di chi viene. I numeri non sono sempre gli stessi ma sono più o meno stabili. Un expat vale l’altro, più avanti capiremo perché. Ma comunque, preventivamente, sappiate che i cristiani in Qatar vengono contati, a loro vengono assegnati luoghi di culto. Nessun trattamento del genere è riservato agli hindu o ai buddhisti. Chissà perché. Sono entrato in un grattacielo in ristrutturazione. Ho fatto un giro. Al dodicesimo piano, sulle pareti ancora da intonacare, c’era dipinto uno dei simboli che gli hindu usano per identificare se stessi.

I cittadini del Qatar si vestono tutti uguali, di norma. Sunniti, sciiti, pastafariani sono intubati in quella specie di divisa post-beduina. I maschi in bianco e le femmine in nero. Conta essere cittadino del Qatar, in tema di vestiti, essendo che il vestito ti distingue da tutti gli altri, cioè i residenti. Perché se c’è una cosa che si nota in Qatar è la differenza visibile fra cittadini e residenti. Facendo due passi nel tra-virgolette-suq noti che attorno a questi qatarini ben visibili per la loro divisa non cammina nessuno. Guai a far qualcosa, anche accidentalmente, contro un qatarino. Ad esempio urtandolo. Potrebbe rivolgersi a una guardia, forse anche a una guardia a cavallo, e farti espellere dal Qatar. Se in qualche loro mall andrai in bagno noterai, oltre al lusso che ti circonda, che le icone che identificano “uomini” e “donne” rappresentano lo stereotipo del cittadino del Qatar, cioè a dire uno pseudobeduino e sua moglie. Quelle iconografie indicano a cinque abitanti su sei chi comanda.

In Qatar non ci sono gli immigrati, ci sono gli “expat”, cioè gli espatriati. La differenza fra le due categorie di persone non è secondaria. I primi vanno da qualche parte per stabilirsi, magari prendere la cittadinanza, poi eventualmente tornare indietro. Soprattutto: possono in qualche modo aspirare a diventare cittadini nel luogo in cui migrano. I secondi sono persone che sono in un luogo per lavorare. Lavorano, lavorano e poi se ne vanno. Non hanno alcuna possibilità di ottenere la cittadinanza. In Qatar gli viene fatta la scansione della retina, gli vengono prese le impronte digitali e gli si consegna una carta d’identità. Il tutto per controllarli bene.

La cittadinanza in Qatar non si acquisisce – unica eccezione: gli atleti scelti per comporre le nazionali – ma si può perdere. Capirete bene cosa è un cittadino del Qatar leggendo qua sotto:

  1. una donna del Qatar che sposa un cittadino di un altro paese perde la cittadinanza;
  2. un uomo del Qatar che sposa una cittadina di un altro paese non perde la cittadinanza e la moglie non diventa del Qatar.

Capito? In altre parole: di quei 300.000 cittadini almeno la metà, cioè le donne, non vale quasi niente.

In effetti c’è una legge sulla nazionalità in Qatar. Fa molto ridere, siamo anche qui in zona “Dittatore dello Stato Libero di Bananas”. Ve ne faccio qui un riassuntino. Per diventare del Qatar bisogna:

  1. risiedere legalmente in Qatar per 25 anni senza interruzioni che superino i 6 mesi
  2. avere un buon carattere e non avere la fedina penale sporca
  3. avere un lavoro
  4. conoscere abbastanza l’arabo

Poiché il qatarino non vuole farsi mancare niente, nemmeno il biasimo di tutte le persone dotate di un qualche senso del ridicolo, sembra che ultimamente vi siano state ampie aperture alla componente demografica degli expat. Al-Jazeera ne amplifica l’eco titolando: “Il Qatar sarà la prima nazione del Golfo a garantire la residenza permanente agli expat”. Una rivoluzione: lo Stato del Qatar prenderà in considerazione un totale di 100 domande di residenza permanente ogni anno. E dico cento, non dico 10. Non lo 0,02 degli expat ma addirittura lo 0,2! Priorità verrà data ai figli di madre qatarina e a persone di “comprovate capacità” che vivono in Qatar da almeno 20 anni. La stessa legge permetterà alla “maggior parte” degli expat di lasciare il paese “senza il visto d’uscita” cioè – apriti cielo – senza il permesso del datore di lavoro.

Approfondiremo la misera condizione di ogni expat in Qatar. Qui occorre chiudere ricordando che in Qatar i matrimoni misti avvengono raramente: sembra che i qatarini si sposino fra loro e basta. Anche fra cugini. La cosa avviene per ovvi motivi di mantenimento dei privilegi patriarcali, spero siate d’accordo. Eppure ci viene raccontato – ricorrendo al più classico degli esotismi – che questo è un retaggio del beduinismo dei qatarini. E allora uno si chiede ancora una volta che fine abbia fatto il retaggio dei pescatori.

Questa cosa del retaggio beduino la vediamo allo specchio, quando parliamo con chi con i qatarini ci lavora e ci fa soldi, ad esempio con gli italiani a Doha. Lì, in quel contesto dialogico, scompare tutto il conflitto di civiltà e si applica un “loro” generico, figlio di quell’esotismo d’accatto di cui sopra. Queste persone dicono: “loro amano la famiglia, le loro figlie vogliono indossare il niqab, si riuniscono tutti insieme in questi posti che si chiamano majlis [che alla fine vuol dire “salotto” ma dirlo in arabo fa molto “beduino”, n.d.r.], uno per le donne, uno per gli uomini, e stanno lì tutti insieme come in una tenda beduina”. Dicono: “I qatarini viaggiano anche per anni o decenni ma alla fine tornano perché amano questo paese”.

Capite? Parlando dei qatarini, questi individui statisticamente prezzolati – il Qatar è il paese con il reddito medio più alto al mondo – applicano, in più, una cosa che definirei poraccismo gratuito. In questa modalità retorica i qatarini sarebbero persone che lottano per mantenere la propria cultura. Un diplomatico dell’ambasciata – cioè uno che alla fine sta in Qatar per facilitare il business italiano – potrebbe poi metterci anche un pizzico di geopolitica, giusto per oliare il meccanismo discorsivo. Potrebbe dirti che il Qatar si trova schiacciato da due grandi giganti, l’Arabia Saudita e l’Iran, e che questo paese si destreggia nella lotta fra i due per non morire. Potrebbe leggere questo paese come in una lotta per la sopravvivenza di sé, della propria specificità, della propria cultura. E noi, alla fine di questo giro di pareri, potremmo anche forse provare pena per quei poveri qatarini che lottano ogni giorno per esistere, per mantenere i loro usi e costumi. E magari sopravvoleremmo sugli schiavi che muoiono nei cantieri, su una demografia che da sola dice tutto. Quasi quasi diremmo che gli italiani fanno bene a vender corvette al Qatar. Senonché poi usciamo in strada, scopriamo che questa specificità non esiste. Poi andiamo al Katara e ci prende proprio il soffoco.

Fede vs identità

L’impressione che si ha andando in Qatar, se non si hanno gli occhi foderati di prosciutto, è quella di un paese secolarizzato. Una delle città più “aperte” del mondo islamico, nota per la sua vita notturna come Marrakesh, in Marocco, appare molto più “islamica” di Doha. Per sentire un muezzin chiamare alla preghiera a Doha devi trovarti proprio vicino a una moschea. Non sentirai quel caratteristico coro scomposto e diffuso, fatto di mille richiami. Sentirai piuttosto il rumore del traffico o il frastuono di un condizionatore. La vita si svolge nei mall, non nelle piazze. Le donne in niqab nei mall segnalano piuttosto la presenza di una cittadina del Qatar che non l’esistenza di una qualche religiosità retrograda diffusa. Di “islamico” troverai un bancomat, per esempio. Cioè un marcatore di identità al livello del consumatore.

Di islamico in Qatar c’è questa identità, della quale tutti parlano, in modi diversi. In relazione ad altri emirati, ad esempio. Dicono che qui “l’identità islamica” è molto forte in rapporto, che so, a Dubai. Io vedo barbe, vedo abaye e niqab, ma di religiosità e/o spiritualità non rinvengo tracce. Si vede che questa identità islamica del Qatar con la religione c’entra poco.

L’italiano expat che guadagna 10.000 al mese per pulire il culo di qualche maggiorente qatarino in un ospedale di lusso ti dice che in Qatar “la situazione peggiora” dal punto di vista della libertà religiosa. Peggiorerebbe, secondo lui, perché vietano di fare San Valentino. Oppure perché fanno la festa nazionale a ridosso del Natale, quindi il Natale non viene benissimo, nei mall le lucette e gli alberelli li mettono proprio gli ultimi giorni, proprio all’ultimo. E l’expat ne soffre. Invece è lapalissiano che questo tipo di cose avviene perché il Qatar è secolarizzato, non il contrario. Lo Stato del Qatar e così secolarizzato da spingere il monarca a introdurre la religione attraverso leggi identitarie. Cioè: l’emiro – il campione del wahhabismo – vuole salvare le apparenze. Terroristi, talebani, altri stronzi colla barba sono politica estera. E basta.

Capisci definitivamente questo concetto quando vai a rimorchio della troupe televisiva di cui sopra per intervistare il responsabile nazionale per il dialogo interreligioso. Entri nel suo ufficio all’interno di un palazzo in cui “lavorano” delle persone del Qatar, addetti genericamente agli “affari religiosi” del paese. Dopo un’anticamera di circa un’ora incontri questa persona che inizia a dirti cose molto generiche in politichese. Alla fine gli chiedi che formazione religiosa abbia e lui ti risponde che è un ingegnere.

Schiavi e padroni

Senza un lavoro tu in Qatar non ci puoi risiedere. Quindi tutti gli expat hanno un padrone. Uno che ha il diritto di toglier loro i diritti tranne – pare – quello di andarsene a fare in culo altrove. Uno che dice in una forma più o meno gentile: non mi servi più, quindi vattene via dal Qatar. In Qatar non esiste lavoro dipendente perché tutto il lavoro è dipendente. Chi non lavora è un padrone. Lascia la bmw accesa e se ne va, fa cose così.

In buona sostanza qualunque noncitaddino residente del Qatar è tecnicamente uno schiavo ma qui io, che sono giocherellone, userò una distinzione fra schiavi e nonschiavi, E’ una distinzione che si basa prima di tutto sul look [sarebbe una battuta] e in secondo luogo sulla tipologia di lavoro svolto: di fatica, non di fatica. So cosa state pensando: “cioè, cazzo dici, io vado in Qatar per 6000 dollari al mese, sto là due anni, torno col bottino e ciao”. Ecco, sì. E’ una roba da schiavi. Schiavi prezzolati, nonschiavi.

Ci sono due tipi di expat maschio. L’expat-operaio-schiavo e l’expat-nonoperario-nonschiavo. Il primo lo trovi al lavoro o nella sua abitazione. Il luogo dove si suppone che si trovi il secondo, oltre al lavoro e alla propria abitazione, è un locale a tema nel seminterrato di un hotel, dove si consuma alcol e dove stanziano nuguli di prostitute. Immaginate un burdel argentino degli anni ’20. La differenza, qui, è che l’expat-non-schiavo rimane tale, cioè non starà in Qatar più del tempo di scadenza del suo contratto di lavoro. In Argentina, invece, l’expat farà l’Argentina.

Ci sono due tipi di expat femmina. L’expat-prostituta-schiava e l’expat-nonprostituta-nonschiava. La prima la trovi, a nuguli, in un locale a tema nel seminterrato di un hotel, dove si consuma alcol. La seconda la trovi in giro per la città, in solitudine o accompagnando il suo expat-nonoperaio-nonschiavo. Ne è generalmente la moglie. E’ molto raro trovare un’expat-nonprostituta-nonschiava che anche faccia un lavoro. C’è qualche giornalista di al-Jazeera, sì. Ho incontrato un’italiana che voleva far fortuna con la moda ma il suo padrone, cioè il qatarino che gli dà lavoro, una volta vista l’intraprendenza della giovane le ha tolto il passaporto. Morale della favola. Già la sapete. Le donne, l’intersezionalità, il patriarcato.

Scartando le eccezioni e sociologicamente parlando, l’expat è maschio e single. Un maschio single in Qatar ha molte difficoltà nei rapporti sociali, non trova persone con cui avere uno straccio di rapporto umano che non siano a loro volta maschi e single. Il Qatar non è fatto per lui, bensì per gruppi di individui raccolti attorno a un patriarca che si riuniscono in un salotto. E possono decidere di andare al parco. Al parco possono circolare le famiglie e i single impegnati in un’attività sportiva. Se sei un expat single e vai al parco in abiti non sportivi non ti fanno entrare. Per camminare in un parco da expat single devi indossare scarpe da ginnastica e calzoncini corti, o una tuta. E ogni tanto zompettare.

L’expat-non-schiavo in Qatar è di fatto un carcerato a cui, perlomeno, danno qualche droga per alleviare la prigionia. Nonostante questo, sembra che il cittadino qatarino invidi qualcosa di lui, principalmente la sua vita virtualmente libera e dissoluta. Anche a questo c’è rimedio e in questo caso il fatto del vestito identitario funziona al contrario. Cioè: se un cittadino del Qatar maschio vuole andare a ubriacarsi nella riproduzione di un pub irlandese, o giacere con una prostituta, allora si veste come un expat per non farsi riconoscere. Molto comoda questa cosa dell’identità, vista dagli occhi del padrone.

In Qatar qualsiasi business deve avere una partecipazione qatarina del 51%. In ogni azienda, poi, ci deve essere una quota riservata ai qatarini. Anche ad al-Jazeera english c’è una quota di qatarini. Lì hanno un ufficio a parte, lontano dalla newsroom. Ecco dunque il motivo per cui i qatarini non devono lavorare per avere soldi. Ma in effetti molti di loro hanno un posto di lavoro nella pubblica amministrazione. Qualcosa devono pur rappresentare di fare. Il reddito medio di un qatarino è di 100.000 dollari l’anno. Quello di un operaio – che non è mai qatarino – è di 6.000.

Può capitare, se parli con un qatarino, che ti dica: “qui lo Stato ama i suoi cittadini”. Ti dice: “non è come da voi, dove i cittadini lavorano per lo Stato. Qui è lo Stato a lavorare per i cittadini”. Non stento a credere a queste parole, tenuto conto che il re permette ai suoi sudditi, che sono un sesto della popolazione, di intestarsi il 51% di ogni iniziativa privata e che questi, contestualmente, è il padrone assoluto del Qatar. Si tratta di un rapporto “win-win” cioè: cammini per strada (o meglio in un mall) e scopri che il re non lavora per 5 persone su 6, che di quelle 5 persone una buona percentuale sono schiavi e la rimanente sono carcerati prezzolati. Fra queste 5 persone su 6 ci sono anche i soldati semplici del Qatar, nessuno dei quali è qatarino.

Non stupisce, a questo punto, che quel sesto della popolazione del Qatar che ha il titolo di cittadino abbia anche un parlamento. È un parlamento per modo di dire, però, perché non ha potere legislativo, è un organo consultivo. Formato da 45 persone, 15 delle quali non elette. Il palazzo del parlamento è un monumento all’assenza di democrazia. Circondato da un prato sempreverde per innaffiare il quale immagino che il Qatar spenda più del pil del Ghana, ha la forma severa di un parlamento ed è spesso chiuso, sebbene coccolato da decine di spazzini e guardato a vista da molte guardie, come la moschea nazionale. Certo, stanti così le cose, trovo difficoltà a parlare di uno Stato del Qatar (eppure il Qatar si intitola proprio così: Stato del Qatar). In assenza di una società qualsivoglia – perché parlare di “società” in Qatar è depistante – uno Stato che cos’è? La “società del Qatar” è una grande farsa. I cittadini del Qatar sono un’accolita di ricchissimi cui viene dato tutto e che non comunica in nessuna forma con il resto del mondo.

Per capire quanto quella del Qatar non sia una società si pensi solo che l’unica strada di terra per un altrove dal paese è quella che porta in Arabia Saudita. È la più trafficata di tutte. Difficile immaginare un luogo la cui unica via di fuga via terra, anche psicologica, ti spinge in un luogo per molti versi peggiore. Difficile immaginare che per uno del Qatar andare in Arabia Saudita significhi vedere una parvenza di paese reale, qualcosa di vivo. È difficile pensarlo ma è così.

Analytica

“Senza l’analisi di classe il Qatar non lo capisci”. Questo dice Massi a cena. E io, che sono una specie di turista del marxismo, ritengo di comprendere solo parzialmente il senso della frase, anche se intuitivamente do ragione al mio amico. L’analisi di classe, a ben vedere, ha in questo caso un limite, perché presuppone l’esistenza di una società. E comunque: parliamo pure del finanziamento del Qatar al jihadismo internazionale ma non facciamo l’errore di pensare che esso obbedisca al fine di imporre l’islam wahhabita al mondo. Il loro fine è il denaro che – essi hanno imparato dai loro colleghi ricchi – non sfuma se si ha il potere.

Facendo una rapida analisi, le carte che i qatarini si possono giocare per avere un ruolo nella spartizione del potere nei diversi teatri, la loro chip nella mano di poker consiste nel:

  1. finanziare gruppi armati che combattano indirettamente per loro;
  2. finanziare organizzazioni di qualche genere che garantiscano la loro presenza su un territorio;
  3. utilizzare il proprio denaro per entrare nel grande gioco della finanza mondiale.

Esemplificando, ed escludendo complottismi ebeti, si osserva che il Qatar gioca a Risiko in paesi come la Libia, il Mali, la Siria; distribuisce finanziamenti “a pioggia” attraverso le sue charities che forniscono aiuti e fanno progetti di sviluppo, costruiscono moschee e centri islamici; coi suoi fondi sovrani compra grandi esercizi commerciali, brand, grattacieli e così via. Niente di così diverso da ciò che fanno gli altri: l’etichetta “islam” viene apposta solo quando serve (nei primi due casi), cioè quando permette l’individuazione di referenti affidabili.

Sì, mi rendo conto che questa cosa è difficile da digerire. Per capire cosa intendo potreste fare un esperimento comparativo. Potreste chiedere a un mercenario che lavora per i francesi in Africa una cosa come: “cosa pensi degli africani?”. Oppure: “cosa pensi della democrazia?”. O anche: “cosa pensi dell’islam?”. Probabilmente ti risponderà scorreggiando in rossobrunese, mostrandosi in tutto il suo nazismo. Alla fine dell’esperimento, se non siete deficienti, dovreste giungere a pensare questa cosa qua: “Ecco, questo merdone se lo prendono i francesi, mentre il barbuto allaheggiante che si fa di eptagon se lo prendono quelli del Qatar”.

Dal Katara agli Ansareddine del Mali la politica del Qatar ha come fine i soldi e la sopravvivenza dei cittadini qatarini, che sono pochissimi. Il mio contributo all’analisi sta nel citare Storia naturale dei ricchi di Richard Connif, un libro molto divertente che racconta i miliardari “nel loro ambiente”, cioè dal punto di vista di una sorta di etologia (il giornalista scrive di come vivono gli animali sul National Geographic). Come si comportano i ricchi? Cosa fanno? Come si riconoscono vicendevolmente? Quello qatarino è un caso a sé, vabbene, ma la sostanza non cambia. Come tutti gli altri ricchi, i qatarini tendono a isolarsi, a stare fra loro. Non sentono il bisogno di dissimularsi quando si mescolano con gli altri, se non in casi specifici (qui abbiamo citato il qatarino che va a mignotte). Anzi, lo fanno identitariamente. E diventano aggressivi quando nasano che potrebbero perdere il loro status.

Ecco, il Qatar è disegnato su questi qua, il Qatar tende a cancellare tutti gli altri, sebbene tutti gli altri siano molti di più. Come nel cartello stradale che segnala l’“attraversamento passanti” che raffigura un uomo in tobe o una donna in abaya, le due divise dei qatarini. O come nella campagna pubblicitaria per prevenire gli attacchi di cuore – stiamo parlando della popolazione più grassa del mondo – i cui cartelli sono ubiqui per le (auto)strade dell’emirato e che ritraggono anche qui persone in tobe e abaya. O anche come in quelle icone che indicano il bagno degli uomini e delle donne nei mall.

Tu ami il Qatar, quindi lo odi

Qualcuno adesso potrebbe pensare che mi sono messo dalla parte di chi ascrive al Qatar e/o ad altri paesi del Golfo tutti i mali che affliggono il Medio Oriente o il mondo intero. Ecco sì, cioè no, non è esattamente questo, vi spiego. Non fatevi depistare dal fatto che i qatarini si vestono in un modo che a loro sembra beduino, che danno soldi a gente con i barboni per sparare in nome di un dio, che il loro sovrano intitola la moschea nazionale a un vieto ideologo del XVIII secolo. Eccetera. Tutto questo è solo espressione – un’espressione profondamente goffa – di un potere che deriva dal denaro. Questi marcatori identitari che vi spaventano da morire sono pura fuffa. In verità voi siete esattamente come i qatarini o meglio, sareste come loro. L’unica vera differenza fra voi e loro sta nel fatto che loro hanno più soldi.

Vorrei che seguiste questo ragionamento: se domani il Qatar venisse bombardato nuclearmente – non ci vorrebbe poi molto in fondo – cioè scomparisse dalla faccia della terra, il vostro modo di vivere, il vostro stile di vita andrebbe in pappa. È abbastanza semplice, l’ha spiegato Adam Hanie in un libro che si chiama Capitalismo e classe nei paesi arabi del Golfo. Il Qatar e gli altri paesi petroliferi sono strutturali nell’attuale sistema mondo: non se ne può fare a meno pena il crollo del sistema. In altri termini: i loro soldi sono i vostri soldi. Sì, voi ne avete di meno, ma questo è il capitalismo, e basta. Se pensate che loro abbiano avuto una fortuna sfacciata a nascere sopra a un giacimento di gas pensate al vostro ius sanguinis che difendete con le unghie e coi denti. Stronzi. L’automobile che avete parcheggiata nel vostro garagetto partecipa del benessere di quei quattro schiavisti del Qatar. Non è questione di politici ipocriti che voltano la faccia. Sì, ci sono pure quelli, ma anche ‘sti cazzi. Loro sono la punta dell’iceberg, la questione è un’altra. La questione è che voi condividete esattamente lo stesso sistema di pensiero di un qatarino. Difendete i vostri privilegi a scapito dei diritti di tutti.

Mi spiego meglio. Il capitalismo funziona che se hai una barca di soldi fai il Katara e tutti ci vengono e dicono: oh cielo, il Katara, ma che bella esperienza. A voi può piacere meno di Las Vegas, ma diciamo che in termini assoluti dei vostri gusti non glie ne frega un cazzo a nessuno. I vostri gusti sono quanto di meno interessante possa esserci essendo voi di base cittadini di un paese vecchio e in declino. Essendo voi, inoltre, quanto di più banale e prevedibile possa esservi in quanto a modelli di consumo. A Milano c’è gente che ha fatto una fila di quattro ore per bere un caffè di Starbuck, non so se vi rendete conto. State ai margini dell’impero, in parte perché siete così coglioni da volervi rinchiudere nelle vostre penose abitudini “italiane” che italiane sono fino a un certissimo punto. Sul piedistallo se non ci fossero i qatarini ci sarebbe qualcun altro, disgustoso come voi, ma non voi. Cioè, in definitiva, voi rosicate per il Qatar perché non siete voi i privilegiati. O perlomeno perché pensate di non esserlo. Vi rendete conto di quanto fate pena?

Ok, allora. Avete davanti a voi questa cosa, questa evidenza:

  1. i qatarini ci hanno i soldi
  2. voi no

E da grandi geopolitici, versati in realpolitik come siete quando parlate – che so? – della Siria, vi si pone davanti un dilemma grosso. Il dilemma è il seguente: ci volete rinunciare a questo cazzo di “privilegio”? Avete una vettura, il telefono, il centro commerciale, e siete in una condizione di profonda insoddisfazione che sanate solo occasionalmente, di fronte a un cappone di Natale ancora intonso o nel brevissimo lasso di tempo che intercorre fra l’aver individuato una merce che stimola la vostra squallida fantasia e il momento in cui ritirate la busta contenente quella merce alla cassa del negozio. Vi piace? Non vi piace? Sono affari vostri. Ma la domanda vera è: perché siete arrabbiati col Qatar? Perché l’emiro la macchina ce l’ha più grossa? Ecco, se è così allora sapete che c’è? C’è che ve la brucio la macchina, vi schiaccio il telefono e vi faccio esplodere tutta quell’altra gadgettistica su cui vi masturbate ogni cazzo di minuto.

Vabbene, mi calmo. Forse il problema sta in quella vostra percezione di esser poveri, di non avere abbastanza, e non tanto nel Qatar “in sé e per sé”. E allora ve lo concedo: radiamolo pure al suolo ‘st’emirato. Il problema, però, è che ciò non potrà che rendere ancora più acuto quel senso di insoddisfazione che avete. Perché per eliminarlo dovreste guardare altrove, pensare proprio un’altra cosa. Se invece pensate che il gioco non valga la candela, ovvero che alla fine tutto sommato va bene così, allora prendetevela con voi stessi. Perché quando guardate il Qatar guardate una delle tante versioni di voi stessi. Sì, ci hanno il fazzoletto in testa. Sì, ci hanno il velo in faccia. Ma anche voi come loro, forse voi lo fate o lo percepite in misura minore – e questo è solo frutto del fato – siete in cima alla piramide del privilegio in questo mondo. E come i qatarini provate in tutti i modi, anche i più efferati, a rimanerci. Siete uguali a loro.

Non ci credete? Vabbene, allora prendete un foglio, dividetelo con una linea in due parti. Da una parte ci vanno i ricchi del mondo, dall’altra i poveri. Fatevi due conti. Capirete che voi state coi qatarini, nella parte ricca, non c’è dubbio. Dall’altra c’è per esempio uno schiavo nepalese utilizzato per costruire uno stadio di calcio nel deserto. O uno stagionale di Rosarno. La parte “poveri” è piena, pienissima. La parte “ricchi” è vuota.

Quello che non dovreste fare è invece etichettare questo Qatar come “islamico”. O almeno: fatelo, se volete, ma poi – per onestà intellettuale – dovrete mettere l’etichetta di “cristiano” su un posto come Las Vegas. A quel punto se non vi sentite ridicoli potete tranquillamente morire così. Badate bene, però. In tanti con un sorrisetto dicono: il Qatar è come Las Vegas, è proprio americano. E sì, è molto americano se lo guardiamo da europei, ma ciò non significa quasi nulla in termini assoluti. Cioè: il problema non sta nel fatto che sia americano ma nel fatto che sia espressione di questo capitalismo mondiale. Il tipo di culturazione e deculturazione operata in Qatar è cosa ben diversa da quella americana anche se alla fine il risultato può sembrare lo stesso. Ci vogliono il suq Waqif e il Katara per capirlo. In Qatar non solo si copia l’America. In Qatar si costruisce un islam di gomma. E questo è il motivo vero per cui – in definitiva – radere al suolo il Qatar potrebbe non essere una cattiva idea.

Epilogo

Vi devo raccontare una cena. Mi spiego: a un certo punto, in questo diario, vi dicevo che io e il mio amico Massi avevamo una cosa da dire, che l’avrei detta nel finale. Eravamo a cena, vi devo raccontare cosa ci siamo detti a cena.

Prima, però, devo specificare due o tre cose, la prima è che tutta questa roba, ad esclusione di alcune integrazioni attualizzanti, l’ho scritta nel 2016, di ritorno dal mio viaggio in Qatar. In questi due anni è successo l’incredibile: il Qatar è diventato bravo. O meglio: è diventato una specie di vittima dell’imperialismo saudita. I più scemi, quelli che non riescono a vivere senza indossare la maglia del “buono”, hanno solidarizzato col “piccolo, povero regno” schiacciato dal grande e arrogante avversario. Fra di loro anche alcuni filo-iraniani sovranisti neri. Nel giro di qualche settimana si è capito che il Qatar poteva tranquillamente fare a meno dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati avendo agganci con l’Iran (ovvio, essendo l’Iran antagonista dell’Arabia Saudita e avendo in comune col Qatar il più grande giacimento di gas al mondo) e con la Turchia. In Qatar questo feroce attacco saudita non ha colpito seriamente niente e nessuno. E una roba di re vs emiro. Di scemo e più scemo. Di ricco e più ricco. Non bisogna scegliere per forza, sono tutti stronzi.

Emblematico è stato l’atteggiamento di Trump. Sulle prime Donald, che ricordiamolo ha fatto la sua prima uscita di politica estera in Arabia Saudita in un disgustoso leccarsi i piedi a vicenda poi fruttato diverse decine di miliardi di investimenti sauditi, si è scagliato contro il Qatar a testa bassa. La cosa ha ricevuto il gradimento di alcune categorie di idioti o venduti variamente alt-right. Poi si è capito che era tutta fuffa, come al solito. Qualcuno inoltre deve aver ricordato a Trump che nel Qatar c’è la più grande base militare americana dell’area: da quel giorno Trump non ha detto più una parola in merito e gli alt-righters hanno semplicemente rimosso il tema.

Il mio diario, a partire dai quei giorni, è invecchiato. La strada verso l’Arabia Saudita, di cui vi parlavo, è stata chiusa. I sauditi hanno pensato anche di scavare un canale lungo tutta la frontiera che lo divide dal Qatar. Si sarebbe generato un “effetto isola” molto interessante – ha scatenato le riflessioni argute dei geopolitici e le bramosie economiche dei produttori di mappe geografiche – essendo quella l’unica frontiera terrestre del Qatar.

I più maligni – nel contesto di quella crisi – avrebbero anche potuto pensare che mi scagliavo contro il Qatar perché sono filo-saudita. Ecco no. Ciò che ho scritto al riguardo del radere al suolo il Qatar vale anche per l’Arabia Saudita anche se lì l’operazione – vista l’area – dovrebbe essere di fatto un bel po’ “chirurgica”. L’Arabia Saudita secerne barbuti e massacri così come fa il Qatar, con gli stessi obiettivi, ma un po’ più in grande. Eccetera. Il fatto è, però, che in Arabia Saudita non ci sono andato e anche se ci andassi domani non mi farebbero entrare a Mecca e Medina, il ché rende il mio interesse per quel paese vicino allo zero. A un certo punto ho avuto l’occasione di visitarlo ma avrei dovuto pagarmi il viaggio e, sinceramente, pagare per andare in Arabia Saudita proprio no: non sono masochista.

Dal 2016 a oggi è successo poi che Doha News, il giornale online che qui ho citato più volte, è stato comprato. Raccontava talvolta roba scomoda, tipo di qualche suddito che faceva outing di vari tipi, adesso no. Sebbene non contenesse alcuna esplicita forma di opposizione nei confronti dell’emiro era la cosa più vicina – vien da ridere a pensarci – a quella che chiamiamo “libertà di espressione”.

Ma veniamo alla cena in cui – come dire? – abbiamo fatto come tutti (escluse le coppie in crisi): abbiamo riso e scherzato. Sulle prime però non eravamo così allegri. Parlavamo di orientalismo, deculturazione, postmoderno. Di quanto in Qatar tutte le storture del mondo capitalista fossero portate all’estremo tanto da rivelarsi nel loro aspetto più farsesco. Massi mi ha raccontato di una notizia che aveva letto su Doha News qualche tempo prima e che poi Reuters ha riportato intitolandola: “Il Qatar potrebbe ospitare i fan dei Mondiali in tende in stile beduino“. In sostanza la storia è la seguente: in Qatar c’è una ricettività limitata – nonostante il roboante lavorio costruttivo – soprattutto per le fasce economiche basse. E’ pieno di hotel a cinque stelle ma di bettole ce ne sono poche o niente. Come fare, dunque, per quegli entusiasti che affronteranno il viaggio in Qatar nel 2022 ma hanno pochi soldi? La risposta è: mettiamoli nelle tende in “stile beduino”.

Be’, noi abbiamo pensato a questi poveri sfigati che si aggirano per Doha, una città senza marciapiedi, durante le pause fra una partita e l’altra. Prendono un dhow, mangiano monnezza a un fast food, si rimpinzano di mocha, guardano Venezia finta. Li abbiamo immaginati mentre prendono un monorotaia che li scarica in mezzo alle sassaie riarse, oltre le periferie gialle della città, nel nulla. Abbiamo pensato a questo accampamento fake, ai supermaket, ai pub beduini. Lo stream è arrivato al suo apice quando Massi ha citato gli hooligans inglesi. Abbiamo riso pensando che l’unico gruppo umano che oggi potenzialmente ha una carta da giocarsi nella partita della distruzione del Qatar sono proprio loro. “I qatarini – ha detto Massi – sono pronti ad accettare bande di inglesotti aggressivi con la pancia gonfia che bevono fiumi di birra e urlano frasi, ma come la mettiamo con le hooligan? Quelle proprio non saprebbero come occultarle, per il Qatar sarà una catastrofe”. Di qui il titolo per un B movie fine di mondo dal titolo: “I giorni dell’Apocalisse”.

L’ho rielaborata, la storia. Ho aggiunto un finale. Eccola.

Siamo nel 2022, è novembre. Le polemiche sono già montate perché i mondiali li fanno in autunno inoltrato, e questa cosa non si è mai vista. La cosa ha scatenato manco farlo apposta il conflitto di civiltà. Sono morti almeno 1000 operai per fare questi maledetti stadi di merda e quindi una quantità abbastanza rilevante di media, chi per propaganda chi per sincero moto di indignazione, ha parlato a lungo della vergogna che si sta consumando. Slavoj Zizek è ormai un’icona dell’English Defense League e, fatalmente, sono gli inglesi a scatenare l’inferno. Non è la Terza Reincarnazione di al-Quaeida che, anzi, sarebbe pronta a incollarsi al televisore per Qatar-Inghilterra.

Li hanno messi in mezzo al deserto. Culturalizzando, cioè esercitandosi nell’arte postmoderna di dare una spiegazione identitaria alla qualunque, i qatarini hanno fatto il seguente pensiero: da novembre a maggio noi facciamo il campeggio nel deserto perché non si muore di caldo. E’ una cosa che noi diciamo essere di origini beduine. Noi siamo beduini e vogliamo accogliere gli hooligans inglesi alla maniera beduina, quindi li mettiamo nel deserto, in campeggio. Ma visto che siamo contemporanei e abbiamo imparato che la sicurezza viene prima della libertà allora abbiamo anche fatto alcune leggi per processare chiunque in al massimo cinque minuti. L’abbiamo fatto ispirandoci alla shari’a, la Legge. In sostanza siamo pronti: se sgarrano li mettiamo in prigione in un nanosecondo.

Pia illusione. I bengalesi sono i primi a prendersi le bottigliate in testa. Il casus belli è il rifiuto, da parte di uno di loro, di non servire birra a una hooligan nel tendapub all’indomani di una sonora sconfitta inglese. Si scatena il parapiglia, la tenda prende fuoco. Le guardie scappano dopo aver provato timidamente a sedare la gigantesca rissa che ne scaturisce e aver ottenuto invece l’effetto opposto. Gli hooligan incendiano tutto, depredano il tendapub e tutti gli altri esercizi commerciali dell’accampamento. Salgono in massa sul monorotaia che li porta in centro, là dove ci sono i famosi grattacieli. Vengono spiegate forze di sicurezza varie, fra cui alcune guardie a cavallo. La loro forza di interposizione si rivela debole e inefficacissima. I qatarini hanno sottovalutato gli hoolingans. Tutto ciò che dicevano i Filosofi su di essi sono vere. Il fatto è che agendo in Europa il loro effetto-distruzione era limitato. Qui a Doha la loro Intelligenza di Massa, il loro essere la Frontiera più intransigente del Sottoproletariato Urbano Glocalizzato e Ingordo che vuole prima di tutto Distruggere ha un esito diverso.

Mettono a ferro e fuoco la città. Tentano di mangiare i falchi da 3000 dollari e torturano quelli dai 30.000 in su, usano le pedine della dama qatarina come proiettili contro i carriolisti inviperiti, fanno colare a picco i dhow ormeggiati in baia intonando il loro feroce “football’s coming home”. Passa alla storia il rogo del grattacielo a forma di cazzo rosa che campeggia proprio al centro della skyline della capitale.

E’ a questo punto che si verifica la catastrofe. L’emiro grida al complotto: sono i sauditi ad aver orchestrato tutto. Gli hooligans sono agenti stranieri e vanno terminati. Scende in campo l’esercito. Le corvette italiane sparano su gruppi di hooligans inermi ma i marines qatarini, non ancora ben addestrati, colpiscono il Marriot, lo Sheraton e diversi altri hotel di lusso, provocando una carneficina di ricchi. I sauditi non vedevano l’ora che si presentasse una provocazione del genere: invadono il Qatar. L’Iran si schiera, chiude lo stretto di Hormuz e manda 350.000 pasdaran a controinvadere il Qatar. Gli Stati Uniti, il cui presidente è – se possibile – più deficiente di Donald Trump, scagliano ordigni nucleari contro Teheran. Mosca indirizza i suoi sulla California. Nel giro di una settimana rimangono in vita 13 persone al mondo fra cui Massi e sua moglie, lo scrivente, sua figlia e la sua compagna. Sceglieranno le colline abruzzesi per ricominciare.

Qualche titolo di coda. Ho pensato di farci un romanzo distopico stile “Guida galattica per autostoppisti” con questa roba. E confesso che quando ero lì avevo anche iniziato a scriverlo. Ma i romanzi non li so scrivere, per ora, quindi ho lasciato perdere. Voglio ringraziare qui Chiara Malditesta Comito, che su Twitter si è dichiarata orfana di un epilogo per questo mio scritto e mi ha spinto a scrivere queste ultime righe.

Volevo poi ringraziare la troupe. Ero in Qatar in una forma che ho pensato essere, alla fine, quasi abusiva. Il mio ruolo – penso – era dispensare consigli o avere qualche idea su cosa fare. Dicevo cose, facevo sottolineature, approfondivo impressioni. Regista, giornalista, produttrice, invece, trottavano come matti e talvolta mi mandavano occhiate di raccapriccio. A mia discolpa devo però dire che io, non senza qualche difficoltà, facevo anche l’aiuto cameraman – il che significava rispondere sempre di sì alla frase “reggi questo” – e quindi a qualche cosa sono stato utile. A un certo punto l’anchorman, cui vanno in miei più sinceri ringraziamenti per avermi voluto a Doha, mi ha anche intervistato per coprire un “buco” che pensava di avere nella documentazione. Fortunatamente l’intervista è stata scartata e non sono andato in TV.

Voglio solidarizzare con gli spazzini di Doha: siete parte di un meccanismo più grande di voi, non è colpa vostra se siete dei maniaci, vi stimo.

Grazie Massi per avermi dato quelle ore di respiro e di pensiero a Doha: stavo per dare di matto.

Lorenzo DeclichNel paese dei decostruzionisti
Introduzione Ho visto un bosco di condizionatori grandi come armadi surgelare il terrazzo dell’imitazione di un ristorante damasceno, mentre il cameriere di Aleppo con famiglia fuggita dalle bombe in Turchia prendeva gli ordini vestito da Saladino. Ho visto in prima pagina, sul quotidiano nazionale patinato a colori “The Peninsula”, campeggiare la...