Non credo di aggiungere niente di nuovo al dibattito, ma soltanto mettere per iscritto un comune sentire di buona parte dell’opinione pubblica mondiale (inclusi ovviamente “occidentali” e “islamici”, per conoscenza diretta), dicendo quello che mi accingo a dire.

Il dibattito accademico su “orientalismo” e “occidentalismo” è iniziato ormai quasi trenta anni fa. Oltre a  Said, Lewis, Huntington, Buruma e Margalith, non bisogna dimenticare la polemica scatenata dalla pubblicazione dei due volumi di Martin Bernal “Black Athena” (1991): esistono sul web decine di siti che ne parlano a vario titolo, dal revisionismo archeologico al black pride.

Prima del crollo delle Twin Towers, il dibattito era, per l’appunto, puramente accademico; ma, curiosamente, sia che si parlasse di rabbia islamica o di origni della cultura classica o di colonialismo culturale, il discorso si poneva sempre su un piano di scontro.

Da una parte coloro che potevano trovare nelle nuove tesi un ragione storica di rivincita, ossia alcuni intellettuali del cosiddetto Terzo Mondo, altri terzomondisti, nonché certi ideologi di movimenti definibili come “anti-imperialisti” di impostazione sia religiosa che politica.

Dall’altra coloro che pur di non passare per tiranni (o forse per conservarne il privilegio) si arroccavano dentro un castello ideologico che pian piano si è andato a rappresentare come il simbolo della Disney: un castello che è l’immaginario collettivo del castello medievale, ma che è totalmente inesistente nella realtà (gli esempi architettonici reali francesi e inglesi sono molto più recenti). Insomma, il predominio scientifico culturale, le radici cristiane (con o senza l’aggiunta di quelle giudaiche), la geografia variabile di un punto cardinale (a scelta), tutti questi elementi sono stati utilizzati come mattoni per costruire questo castello, cementati dalla malta di famosi episodi storici e contemporanei.

Hollywood e i media in genere, hanno avallato questa visione, dal momento in cui, orfani dell’URSS, avevano bisogno di nuovi protagonisti per il loro screenplay più classico: buoni contro cattivi.
Pian piano, e in particolare dopo il crollo delle Twin Towers, quello che era solo un dibattito accademico è diventato, nella vulgata dei mezzi di informazione e dei dibattiti televisivi, un modello (ideologico e politico) di rappresentazione della realtà costruito su una scenneggiatura prefabbricata. Rimaneva solo da assegnare i ruoli, ma, come si sa, ai casting c’è sempre la fila.

Volenti o nolenti tutti gli attori del presunto “scontro di civiltà” sono stati scritturati più o meno inconsapevolmente. Il buono il brutto e il cattivo. Ovviamente quelle che ci rimettono sono le comparse, ma questo è un altro discorso.

Quello che era uno scenario di analisi storica è diventato il palcoscenico fittizio di una realtà da sempre piegata all’ideologia e alla volontà politica, che oggi agiscono conformandosi a quel canovaccio.
Purtroppo sono rimasti fuori da questo scenario proprio coloro che hanno innescato (o forse semplicemente lo osservavano dall’alto del punto di vista storico), ossia gli accademici. E’ vero che alcuni di loro sono stati chiamati in causa proprio per interpretare dei “cameo” dei loro stessi stereotipi: si ricorda la foto di Said che lancia una pietra contro una recinzione di filo spinato israeliana nel Sud del Libano; l’ostracismo dell’establishment americano nei confronti di N.Chomsky; lo stesso Lewis che si mettere a scrivere degli istant-book (ha raggiunto la decina il numero di sue pubblicazioni sull’argomento in meno di dieci anni).

Ma, e questo è un auspicio per tutti noi che interveniamo su www.islamistica.com, la discussione teoretica, l’analisi storica, la rappresentazione filologica, sono e devono rimanere al di fuori del palcoscenico. Qualsiasi concessione all’ironia e alla passione privata, spero non inficii il loro valore. Così come si spera che non i protagonisti, consapevoli o inconsapevoli, di questa fiction (o forse è un reality-show?), bensì le comparse decidano di scioperare in massa e di non prestarsi più a giocare (in inglese: play) a questo gioco.

2005/ott/26