In queste ultime settimane ho fatto un po’ opera di collezione, ho raccolto un numero di frasi, suggerimenti, suggestioni su cui ha senso meditare prima di avventurarsi nel magico mondo della discussione o solo dell’ingaggio o della presa in considerazione con qualcuno della serie razzista, fascista, leghista, grillino, sovranista, identitario eccetera.

Non è stato un grande sforzo, il numero delle cose che ho messo in fila è basso. L’esito potrà essere etichettato da alcuni come “elitario”, da altri “nichilista”. O qualsiasi altra cosa, non importa. Ciò che importa è che voi dovreste capire che “parlare” con queste persone (o di ciò che esse dicono) è profondamente sbagliato. E che tutti gli argomenti a favore dell’ingaggio sono viziati da un falso e spesso utilitaristico “desiderio di capire” o da un altrettanto fastidioso complesso di superiorità.

Recentemente, il 25 settembre scorso, queste cose mi sono state più chiare leggendo un articolo di Matteo Lenardon su una testata che si chiama the Vision. Lenardon ragionava sui razzisti, sul parlare con loro, e citava prima di tutto Bertrand Russell:

Quando nel 1962 il presidente di un partito fascista inglese invitò Bertrand Russell a un dibattito sui meriti del fascismo, la risposta che ricevette fu micidiale. “Gli universi emotivi che abitiamo sono così distinti e nei modi più profondi opposti,” scrisse via missiva il filosofo, “che nulla di fruttuoso o sincero potrebbe mai emergere da un nostro incontro.”
Chiamando in causa Jean-Paul Sartre, Lenardon ci spiegava bene quale “universo emotivo” il razzista abiti:

Nell’inquietante – proprio perché attuale – Riflessioni sulla questione ebraica, Sartre scriveva a proposito dei razzisti: “Se dunque l’antisemita è impermeabile ai ragionamenti e all’esperienza, ciò non vuol dire che la sua convinzione sia forte; ma piuttosto la sua convinzione è forte perché egli ha scelto anzitutto d’essere impermeabile.” Il filosofo francese tratteggia quindi il profilo perfetto ed eterno del razzista. “Non ha paura di se stesso: ma legge negli occhi degli altri un’immagine inquietante, che è la sua, e conforma ogni proposito, ogni gesto a quella immagine. Questo modello esterno lo dispensa dal cercare la sua personalità in se stesso; ha scelto di essere completamente al di fuori, di non fare mai ritorno su se stesso, di non essere altro che la paura che fa agli altri.” Per Sartre parlare con i razzisti si rivela perfettamente inutile. “Essi sanno che i loro discorsi sono vacui, contestabili, ma ci si divertono. È il loro avversario che ha il dovere di usare seriamente le parole, dato che crede alle parole. Amano anzi giocare col discorso perché dando delle ragioni buffonesche gettano il discredito sulla serietà del loro interlocutore.”

L’articolo proseguiva con la presentazione di una decina di casi di discussione con un razzista, raccontava di come fossero inconsistenti le sue argomentazioni. Analizzandole una ad una si capiva quanto fossero faziose. Considerandole tutte insieme si capiva quest’altra cosa: un razzista si vuole aggrappare a qualsiasi argomento pur di vincere una discussione perché il suo obiettivo non è “capire”. Non c’è realtà che tenga. L’arte della persuasione – perché di questo stiamo parlando – non prevede il parametro della verità o meglio: nell’arte della persuasione la verità coincide con ciò che si vuole presentare come verità.

Tornando al desiderio di capire e al complesso di superiorità: ci siamo cascati tutti in questa trappola. Ad esempio, in un’era geologica diversa, io e Anatole avevamo fatto ragionamenti (vedi anche qui) attorno a uno dei punti che in molti hanno individuato come centrali per capire la “mente populista/sovranista”: la teoria del complotto. Non è stato inutilissimo, abbiamo capito – fra le altre cose – che la teoria del complotto non è esclusiva di quella mente là. Più in generale avevamo discusso di cose come le fake news o la verità alternativa (qui – anche in questo blog – qui e qui – ho ragionato di “pregiudizi cognitivi”, primo fra tutti il “confirmation bias”). Si tratta di temi importanti, certamente, ma andando a guardare questa nuova era, quella gialloverde, si capisce che c’è un grosso problema a monte. Quello che non avevamo capito – impegnati come eravamo a spiegare prima di tutto a noi stessi alcune cose – è che centrale, nel confronto con questi fenomeni, è l’intenzione dell’interlocutore – vincere – e il fatto che egli venga innalzato al rango di persona con cui si può discutere. Con Esopo:

Un lupo vide un agnello presso un torrente che beveva, e gli venne voglia di mangiarselo con qualche pretesto. Standosene là a monte, cominciò quindi ad accusarlo di insudiciare l’acqua, così che egli non poteva bere. L’agnello gli fece notare che, per bere, esso sfiorava appena l’acqua con il muso e che, d’altra parte, stando a valle, non gli era possibile intorbidare la corrente a monte. Venutogli meno quel pretesto, il lupo allora gli disse: “Ma tu sei quello che l’anno scorso ha insultato mio padre”. E l’agnello a spiegargli che a quella data egli non era ancora venuto al mondo. “Bene”, concluse il lupo, “se tu sei così bravo a trovar delle scuse, io non posso mica rinunciare a mangiarti”. La favola mostra che contro chi ha deciso di fare un torto non c’è giusta difesa che valga. [Esopo, CCXXI; Fedro, I, 1.]

Una cosa che mi ha sempre stupito, studiando a più riprese il fenomeno dell’islamofobia, non è tanto l’approssimazione delle sue argomentazioni, ma la sua stupidità di fondo. Ho capito che questa stupidità è progettuale, non è emendabile, fa parte della struttura. L’altr’anno mi ero messo in testa di raccogliere un buon numero di “racconti islamofobi”, che definivo “fiabe” (fra i più ilari c’era quello di Magdi Allam che scambia un ripetitore telefonico per un minareto). Nella bozza di introduzione avevo scritto:

Tanti prendono davvero sul serio le storie che narrerò – ci credono o fingono di crederci – e ciò è mostruosamente stupido, è qualcosa che non possiamo permettere per un motivo molto stringente: stupidità simili sono elementi annichilenti, depotenziano qualsiasi presa di posizione, qualsiasi argomento o tema. Inoltre spesso le stupidità vere o presunte o rivendicate sono lo strumento – disperato o sofisticatissimo – di chi, non trovando aperture argomentative, si pone più o meno coscientemente l’obiettivo di squalificare l’intera discussione – e dunque l’avversario – facendola scendere al proprio livello. Certi suprematisti si esercitano con fierezza proprio in quest’arte (“sono fiero di essere islamofobo!”. L’essenza del suprematismo è forse proprio affermare che la propria stupidità debba prevalere, guardate Donald Trump!) e certa propaganda islamofoba raccoglie il vento seminato al precipuo scopo di scatenare una tempesta. Queste non sono persone che vanno comprese bensì avversate, la loro stupidità – come insegna la vita in rete, specie nei social dove taluni sfruttano a proprio vantaggio quel falso egualitarismo strutturale che potremmo anche definire “disintermediazione” – è una vera e propria arma.

Dobbiamo scrollarci di dosso la convinzione – falsa – che la forza della verità abbia la capacità di spingere l’interlocutore a cambiare idea.  Dovremmo invece capire di essere pochi e ghettizzati. Nel 2016, quando l’Oxford dictionary elesse “post-truth” parola dell’anno, si cercò di andare a fondo nel descrivere e circoscrivere il concetto. Venne fuori, fra le altre cose, che già nel 2004 Ron Suskind sul New York Times ci raccontava che nel 2002 un senior adviser di George W. Bush aveva un nome per quelli che «believe that solutions emerge from your judicious study of discernible reality». Li definiva in maniera derisoria una “reality-based community”. Siamo a un anno dall’11 settembre e a pochi anni dalle teorie sulla “fine della storia”, sul “conflitto di civiltà” e altre panzane. Già allora qualcuno pensava che “quelli che credono che le soluzioni emergano da uno studio giudizioso di una realtà distinguibile” debbano essere descritti come una “comunità”, cioè che il problema della realtà non riguardi l’intera umanità bensì, in definitiva, quattro scemi che parlano in salotto. Secondo questa lettura i “seguaci della verità” non sono altro che una specie di setta, un gruppo, una “echo chamber” come tante altre, e tendo a pensare che oggi la situazione sia quella appena descritta.

In concusione: parlare con un razzista, un sovranista, un suprematista, un fascista eccetera è uno sforzo inutile, anzi dannoso. Molto dannoso, perché oltre a farvi perdere un sacco di tempo, abilita l’interlocutore. L’unico modo di riferirsi a queste persone dovrebbe avere come scopo, invece, la loro squalifica. Chiunque si appelli al principio del confronto utile o simili – vedi un Mentana – è un irresponsabile o uno che, sotto sotto, pensa di poter trarre un utile dallo sdoganamento di certi discorsi di merda.
Parliamone.

C’è poi questo post del 14 ottobre 2018 di Franco Palazzi, che non conosco di persona né per qualche suo scritto che non sia social ma non importa:

Vedo molte persone ribattere alle assurde accuse di sperpero dei fondi pubblici rivolte da Salvini al sindaco di Riace menzionando i 49 milioni sottratti allo stato dalla Lega in questi anni. In linea di principio, giustissimo. E però questa replica tradisce un problema: quello di credere che il razzismo si sconfigga (solo, o comunque soprattutto) al livello dei fatti. Non è così – e le esperienze pluriennali di quei conduttori televisivi che hanno ospitato nei propri studi persone come Salvini per “sconfiggerle con gli argomenti” sono lì a dimostrarlo. Il razzismo sviluppa quella che Sara Ahmed chiama un’ economia affettiva; esso opera oggi principalmente al livello delle emozioni, dei sentimenti, degli stati d’animo – cose che per loro natura mal si prestano ad essere confutate con una statistica ufficiale o un’equazione.
Diverse ottime analisi sono emerse nei giorni scorsi per dimostrare che il cosiddetto ‘reddito di cittadinanza’ non farà davvero gli interessi delle fasce più povere della popolazione – ma l’interesse economico non è l’unico da considerare. Più di un secolo fa, analizzando il razzismo manifestato dai poveri bianchi negli Stati Uniti, Du Bois parlava di un “salario della bianchezza”, una forma di compenso indiretto, di natura pubblica e psicologica, che i lavoratori “autoctoni” ricevevano in contrapposizione a quelli di colore. Si trattava di una sorta di salario indiretto che permetteva loro, nonostante la propria drammatica situazione economica, di poter comunque sviluppare una forma di orgoglio suprematista rispetto alle proprie condizioni di vita. Da questa prospettiva, il reddito di cittadinanza probabilmente farà il gioco dei propri ideatori: rinforzando la gerarchia tra poveri italiani e stranieri, non renderà i primi meno poveri, ma più orgogliosi della propria identità di autoctoni.
Che fare in questo scenario? In un bel libro uscito tre anni fa, Paula Ioanide dimostrava come le convinzioni razziste, più che dall’evidenza, vengano scardinate da tre tipi di dinamiche: il fatto che mostrare il proprio razzismo cominci ad essere meno emotivamente vantaggioso, perché ad esempio ci saranno persone che ti faranno avere vergogna di manifestarlo in pubblico; un cambiamento di tendenza nelle idee di chi ci sta intorno – l’antirazzismo, se esplicitato con forza, può essere non meno contagioso del razzismo; un clima sociale in cui chi ha sempre nutrito dei dubbi su una narrazione razzista si senta invitat* ad esplicitarli. Per attivare queste dinamiche non occorre ovviamente abbandonare i fatti e l’argomentazione razionale, ma coadiuvarle con un livello molto più alto di attivismo, di protesta, di resistenza, con l’elaborazione di discorsi antirazzisti che non siano fatti solo di grafici e leggi, ma di volti ed emozioni. Prima ce ne renderemo conto, meglio sarà.