Chi parla a nome di chi: il puzzle dell’islam europeo
1. L’Islam è una religione universalistica. Non è questo il luogo nel quale affrontare tutti gli aspetti e tutte le implicazioni che questo elemento porta con sé. A noi serve, qui, fare un ragionamento semplice e insieme complicato attorno al dato: ogni piccolo nucleo organizzativo di marca musulmana porta con sé il «gene» (o sarebbe più corretto chiamarlo «meme») dell’universalismo. Per esemplificarlo basti pensare a quella che a tutti gli effetti è la più evidente aberrazione del messaggio islamico mai apparsa sul pianeta: l’organizzazione dello Stato Islamico. La sua cifra è, al netto dell’elemento apocalittico funzionale alle attività criminali e terroristiche del gruppo, la ricostruzione (in questo caso cartonata) di ciò che di più universale abbiamo conosciuto nella storia dell’islam: il califfato. E non è un caso che uno dei punti centrali della sua propaganda sia stato l’invito a migrare (hiğra) nei territori dove si sarebbe stabilita la vera umma, la comunità universale di tutti i veri musulmani (cioè in Iraq e Siria).
Quanto ai non jihadisti, cioè al 99,999% del miliardo e 600 milioni di musulmani, il dato universalistico rimane intonso nonostante nel contenitore «islam» vivano decine e decine di entità dottrinarie diverse le quali vanno a colorarsi di specifiche connotazioni etniche, linguistiche, politiche, socioculturali. Ognuna di queste sezioni, più o meno ampia, coltiverà il suo proprio universalismo, la propria convinzione di trovarsi nel bel mezzo di quel variegato mondo. Alcune di queste sezioni carezzeranno, per motivi politici o economici, l’idea di guadagnare un’egemonia sulle altre, si presenteranno come «uniche» e «vere», molte altre no. In condizioni sociali e politiche specifiche, gli appetiti porteranno conflitto interno e una strategia politica nei confronti dell’esterno. Il fatto condurrà a un certo livello di indeterminazione nel momento in cui qualcuno o qualcosa saranno chiamati a porsi in relazione con le varietà suddette.
A iniettare maggiore forza centrifuga nell’islam c’è un altro dato strutturale: il peculiare concetto di autorità e di autorevolezza. Il luogo comune vuole che nell’islam non vi sia un’autorità centrale né un clero e la cosa in termini generalissimi può dirsi vera – sempre se escludiamo la sfera sciita, un 15% dei musulmani, nella quale le gerarchie e il «personale religioso» sono molto ben definiti. Il tema si attualizza continuamente in ampia parte del mondo islamico (cioè per convenzione in quell’area del pianeta in cui i musulmani sono la maggioranza della popolazione), nelle forme di un islam «istituzionale», collegato in forme di dipendenza o meno agli Stati, che attualmente perde autorità e autorevolezza proprio per il fatto di essere tradizionalmente instrumentum regni. E che oggi si confronta con nuove forme di religiosità e dunque di leadership, in primo luogo quelle più «globalizzate» che fino a qualche decennio fa passavano via satellite e oggi passano via Internet. In altri termini: nel dār al-islām i poli dell’autorità e dell’autorevolezza sono storicamente dati – ad esempio l’Università di al-Azhar, al Cairo – così come sono chiari e riconoscibili i curriculum religiosi che rendono alcuni individui autorevoli in campo religioso. Il problema è che, per motivi altrettanto storici, questi poli e questi curriculum non hanno più la forza per imporsi. L’esempio più rilevante riguarda l’islam wahhabita, religione dei re sauditi e degli emiri del Qatar, che da qualche tempo si candida alla guida dell’islam sunnita essendo stato considerato un’eresia sunnita fin quasi agli anni Ottanta del Novecento.
2. Quando rivolgiamo lo sguardo al dār al-hiğra, cioè alle aree a maggioranza non islamica dove i musulmani migrano, ad esempio l’Europa, osserviamo che tutto assume la forma di un vaso di Pandora scoperchiato. Lì le problematiche si presenteranno potenziate perché avremo musulmani provenienti da decine di paesi diversi i quali, per cultura, lingua o tradizione, avranno i loro referenti religiosi specifici, il loro modo di porsi in relazione con le istituzioni eccetera. Nei paesi di migrazione la questione si arricchirà di nuove criticità tenendo conto della reazione, della lettura che della presenza musulmana danno le società e le culture politiche europee. La risposta, spesso, sarà ragionare in base all’unica generica coordinata religiosa, un processo che Olivier Roy ha definito efficacemente introducendo il concetto di «neoetnia» 1. Nel dār al-hiğra, oltre a questa che potremmo definire un’imposizione ideologica dall’alto che conduce verso un’estrema semplificazione – e dunque porta con sé spesso errori di valutazione – vedremo poi potenziarsi l’altra spinta, stavolta interna all’islam, che ha a che vedere con la natura cangiante della sociologia delle religioni nella globalizzazione (dunque non solo con l’islam). Le religioni «che hanno successo sul “mercato globale”» sono «disconnesse con le culture tradizionali e i territori specifici» 2. Le dinamiche religiose, nel mondo contemporaneo, non riguardano più la tradizionale competizione fra confessioni civilizzatrici: «Non è l’Islam in sé che sta crescendo né la Cristianità in sé che sta recedendo: da ambo le parti vi sono specifici spostamenti verso nuove forme di religiosità, e ne fanno le spese le forme di religiosità tradizionali, culturalmente connotate» 3. I movimenti religiosi che crescono con più rapidità sono i pentecostali in ambito cristiano e i salafiti tra i musulmani: entrambi hanno una dimensione globale e il secondo è dichiaratamente nemico dell’islam tradizionale inteso come «islam popolare», collegato a un territorio e a una storia specifici. È proprio il fondamentalismo, all’interno delle rispettive confessioni, la forma religiosa che più si trova in conformità con la globalizzazione: «In quanto [esso] accetta la sua propria deculturazione e ne fa strumento di rivendicazione della propria universalità» 4.
Il tutto, in Europa e nelle altre aree di emigrazione, va articolato tenendo contro di altri fattori «sradicanti».
Primo. Con le nuove generazioni di musulmani autoctoni il riferimento alla diaspora, a un radicamento «geografico» inevitabilmente si perde, l’identità si va costruendo nel luogo di nascita e relazionandosi con i correligionari connazionali (o comunque coresidenti).
Secondo. Nel mondo globalizzato cresce la nicchia economica dell’islam di mercato che, con i suoi «prodotti islamicamente corretti», aiuta la definizione di un’identità musulmana legata al consumo e soprattutto ancora una volta deculturata, globalizzata.
3. È a questo punto che ci chiediamo: se la situazione è questa, con chi parliamo? Dove troviamo il referente «islamico» capace di dialogare ad esempio con uno Stato, o con un’istituzione? Come si intercettano i referenti vecchi e nuovi di questi credenti?
In Europa nel trattare il fascicolo «musulmani» ogni paese è andato per la sua strada essendosi spesso aperto quel fascicolo prima che l’Unione Europea esistesse nella forma che conosciamo ora. Si pensi, ad esempio, al modello multiculturalista adottato dal Regno Unito (alle prese col suo ex impero) rispetto a una situazione come quella italiana, gestita (o meglio non gestita) per qualche decennio con sanatorie (risolvendosi infine in una «linea dura» tanto cieca quanto irrealistica) e promesse di protocolli d’intesa con «i musulmani» mai mantenute (stante fra l’altro un’eredità coloniale misconosciuta).
In breve: il trattamento riservato ai musulmani, così come ai fedeli di altre religioni, è determinato in Europa, da leggi, norme, abitudini e tradizioni nazionali. È uno dei settori meno europei dell’Europa odierna. Ogni paese parla coi «suoi musulmani» così come ogni paese ha i suoi propri populismi sovranisti anti-islamici che minano le fondamenta stesse dell’impianto europeo. E in questo contesto il caso italiano è molto peculiare a causa di una legge che non c’è, quella sulla cittadinanza, che porrebbe nella corretta luce il tema delle centinaia di migliaia di italiani figli di immigrati, per un buon numero musulmani, che vorrebbero godere dei diritti costituzionali, fra i quali c’è quello di professare liberamente la propria religione.
4. Data settembre 2010 il primo e ultimo report del Pew Forum on Religion & Public Life 5. Nella sua introduzione i ricercatori del Pew affrontano un punto critico riguardante i temi finora toccati, cioè in definitiva la presenza musulmana nel Vecchio Continente, la percezione che se ne ha, le risposte che ad essa si danno: «Sebbene siano molti i musulmani in Europa occidentale a partecipare alle attività di movimenti e network, il numero delle adesioni formali a essi sono relativamente ridotti. In effetti diversi studi suggeriscono che un numero relativamente piccolo di musulmani in Europa appartenga a una qualsiasi organizzazione religiosa nel senso di un’adesione formale, incluse le moschee. Nonostante l’adesione formale sia bassa, questi movimenti e network spesso esercitano un’influenza significativa nel definire le agende e nel dare forma ai dibattiti all’interno delle comunità musulmane in Europa occidentale. Non importa che riflettano o meno i punti di vista della maggior parte dei musulmani di una data comunità: essi sono spesso lo strumento attraverso cui si determina quale problematica debba ricevere attenzione in quanto «islamica» nei media, negli ambienti governativi così come nel più ampio dibattito pubblico a proposito dell’islam in Europa. Inoltre molti gruppi islamici ora fungono da interlocutori fra i musulmani e i governi dei paesi europei nei quali essi vivono. Questo accomodamento è spesso avvenuto per iniziativa di funzionari governativi in cerca di organizzazioni che potessero fare da raccordo con le componenti sociali musulmane. Negli ultimi anni un certo numero di governi europei ha istituito consigli per raggiungere le popolazioni musulmane» 6.
Quanto questo tipo di politica sia piena di trabocchetti ce lo indicano diversi fatti. L’esempio forse più sinistro riguarda la Francia, l’obiettivo preferito dai brand terroristici takfiri di genealogia qaidista e contemporaneamente il paese che più ha spinto sull’idea del «raccordo» raccogliendo fin dal 2003 in un unico Conseil français du culte musulman quelle che apparivano come le organizzazioni musulmani più rappresentative del paese.
Secondo i ricercatori che curano le edizioni di Muslims in Western Europe 7 le organizzazioni musulmane in Europa si sono venute formando grazie a tre processi combinati: a) gruppi che emergono dalle comunità con l’obiettivo di dare soddisfazione a quelli che vengono percepiti come bisogni «religiosi» primari (ad esempio luoghi dove pregare, insegnamento dell’islam, accesso al cibo ḥalāl, luoghi di sepoltura); b) gruppi che nascono come estensioni di organizzazioni e movimenti esistenti nei paesi d’origine; c) gruppi che nascono su sollecitazione dei governi o di agenzie governative al precipuo scopo di «rappresentare» i musulmani residenti in un determinato paese.
Scrivono i curatori di Muslims in Western Europe: «Sicuramente durante le prime fasi il processo più comune è stato l’iniziativa delle comunità locali, spesso grazie al lavoro di pochi individui che identificavano un particolare bisogno al quale cercavano di dare soddisfazione. I tipi di organizzazioni che venivano create, quindi, avevano per la maggior parte radice etnica, regionale o locale. Le organizzazioni esplicitamente musulmane erano correlate in special modo a progetti di moschee e, in parallelo, alla creazione di una qualche forma di educazione islamica per i bambini. Tuttavia molto presto organizzazioni e movimenti provenienti dai paesi di origine hanno iniziato a stabilire agenzie o branche in Europa. Col tempo hanno iniziato a dominare la scena quando i gruppi locali più piccoli hanno iniziato a trovare utile avere accesso a potere, risorse e prestigio forniti da questi movimenti più ampi» 8. Senonché, prosegue questa analisi, «le connessioni crescenti fra gruppi islamici e governi europei, così come l’integrazione di alcuni di questi gruppi con il mainstream politico del continente, non hanno portato a una decrescita dell’attivismo da parte loro. Anzi i gruppi e i movimenti musulmani sono diventati più visibili sul palcoscenico politico europeo e diventano sempre più avvezzi all’uso dei media nazionali e dei canali politici per conseguire un vasto assortimento di agende» 9. Istituzionalizzazione e visibilità portano con sé maggiore protagonismo ma questo non significa che ciò sia negli interessi dei musulmani semplici, cioè persone di religione islamica che, principalmente, vorrebbero vivere in pace e non essere tirati per la giacca ogni volta che qualcosa di «islamico» si presenta nel mondo dei media. Mentre, paradossalmente, «in parte come reazione alla crescita e alla visibilità dei movimenti musulmani in Europa occidentale anche le organizzazioni cristiane ed ebraiche della regione hanno attratto più attenzione da parte dell’opinione pubblica negli ultimi anni. In questo senso i gruppi musulmani, collettivamente, possono essere d’aiuto nel creare più spazio per la religione in generale nella sfera pubblica europea» 10.
5. Dal punto di vista del metodo l’atteggiamento dei governi e delle istituzioni è comprensibile: il tutto si risolve in una ricerca, magari molto accurata, di referenti. Ma, come spiegano diverse ricerche, ciò porta a rappresentare i musulmani nella loro unica dimensione di credenti. Soprattutto in assenza di una valutazione su come le comunità e i singoli interagiscono o non interagiscono nelle realtà in cui si trovano. Insomma si insegue una chimera. Vedi a questo proposito un’intervista a Hamid Dabashi 11 che contiene anche una critica a quegli intellettuali, come ad esempio Tariq Ramadan, che si fanno titolari del «discorso sull’islam»: trascurando quello che Nadia Jeldtoft definisce «islam vissuto» 12.
Per dare un’idea di quanto le realtà organizzate che ambiscono a rappresentare gli interessi di tutti musulmani siano solo una delle facce della realtà sul territorio possiamo rivolgerci alle stime per l’Italia secondo le quali il 74% dei fedeli musulmani non pratica, il 10% pratica in luoghi privati e solo il 16% pratica in luoghi pubblici, cioè moschee o sale di preghiera più o meno ufficiali, più o meno afferenti ad associazioni e gruppi formali di musulmani. Di quel 26% di praticanti in luoghi pubblici o privati un 70% non dichiara la propria appartenenza a organizzazioni religiose. Il restante 30% è così ripartito: 19% praticanti filo-tabligh, 4% missionari tabligh, 4% aderenti a organizzazioni politiche (quali i Fratelli musulmani), 3% sufi 13. È ovvio che se, come fanno diversi islamofobi, tendiamo a percepire l’islam come un’entità politica e ci concentreremo sul 4% di quel 26%, ignorando non solo l’intero universo dei non praticanti ma anche quella fetta di praticanti «non politici» che non desidera dialogare – in special modo i tablighi nella cui organizzazione si coltiva un’idea di islam che difficilmente si concilia con la laicità – allora avremo una visione profondamente errata della realtà.
6. Riassumendo e concludendo: gli ordini di problemi/tematiche elencati hanno risvolti su tutti i livelli, da quello sociale e culturale a quello politico a quello della sicurezza. Si pone, urgente, il problema di chi parla a nome di chi, se coloro che sono stati individuati come referenti di questo dialogo siano davvero rappresentativi e, infine, a quale livello (locale, nazionale, europeo) sia più fruttuoso operare. Le scelte su questo tema andrebbero fatte con la consapevolezza dei limiti strutturali dei quali si è trattato finora. E, come d’altronde in molti altri campi e in molti altri casi, le soluzioni meno tranchant le troveremmo scegliendo di dialogare con le singole comunità di musulmani. Non si può pensare che, ad esempio, i problemi di integrazione posti dai lavoratori musulmani di una ricca città industriale tedesca possano essere simili a quelli delle realtà autorganizzate dello hinterland destrutturato e privo di risorse di una città come Roma.
Parallelamente, questo tipo di operazioni andrebbero fatte superando i particolarismi nazionali, cioè al livello europeo, in un alveo sommariamente «federativo», in un quadro di riferimento normativo comune. Ciò permetterebbe, anche sul piano della sicurezza, di «vedere chiaro». La strada giusta è quella più lunga e impervia. Sui territori, entrando nelle moschee e nelle sale di preghiera, interrogando le istituzioni locali, affidandosi al dettaglio demografico e socioeconomico area per area, la grande domanda «chi parla a nome di chi» trova risposte forse non perfette ma ampiamente accettabili. Ci vuole la volontà politica di farlo, a livello europeo.
Note:
1. O. Roy, Global Muslim. Le radici occidentali del nuovo Islam, Milano 2003, Feltrinelli, pp. 52 ss.
2. O. Roy, «Religious Revivals as a Product and Tool of Globalization», Quaderni di Relazioni Internazionali, Ispi online, 12, 2010, pp. 22-34.
3. Ibidem.
4. Ibidem.
5. Muslim Networks and Movements in Western Europe, Pew Forum on Religion & Public Life, pewrsr.ch/1kB8x4Z
6. Ivi, p. 9.
7. J.S. Nielsen, J. Otterbeck, Muslims in Western Europe, The New Edinburgh Islamic Surveys, 4a ed., 1992-2016, Edinburgh University Press.
8. Ivi, p. 136.
9. Ibidem.
10. Ibidem.
11. H. Dabashi, «Islam is an Abstraction», Qantara.de, bit.ly/2rz9nxE
12. N. Jeldtoft, «Lived Islam: Religious Identity with “Non-organized” Muslim minorities», Ethnic and Racial Studies, vol. 34, 2011; più in generale cfr. N. Jeldtoft, J.S. Nielsen (a cura di), Methods and Contexts in the Study of Muslim Minorities: Visible and Invisible Muslims, London 2012, Routledge, 2012.
13. Cfr. A. Caragiuli, Islam metropolitano, Roma 2017, Edup, 2017, p. 67.
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