Gli attori del mercato “islamico” e i calcoli di Washington
Sono giorni in cui si disegnano scenari geopolitici, ci si divide fra amanti della rivoluzione e prudenti, ci si mette su pulpiti più o meno cartonati per insegnare o disdegnare, si descrivono complotti, si lanciano invettive, si fanno o non si fanno prigionieri.
E’ forte la tentazione, specialmente per i qwerty addicted di mezzo mondo, di esprimere il proprio personale punto di vista attraverso meta-discorsi (l’Egitto diventa il Mondo, la rivoluzione egiziana diventa la Rivoluzione tout court): un’esplosione dell’ego che spesso provoca rumore, espone i protagonisti di questo moto entropico a un crollo tragico di autorevolezza, a un abbassamento drastico dell’intelligenza collettiva.
Personalmente vivo questi giorni con il cuore in gola e un forte mal di testa.
Non vado a letto tranquillo e passo il tempo a scervellarmi, scavando in quello che so e proiettandomi in quello che potrei sapere se solo riuscissi a volgere la mia attenzione nella direzione giusta.
Stamattina sono convinto che un contributo all’analisi lo posso dare con il lavoro che ho compiuto nei mesi passati col mio blog.
Ho iniziato a interessarmi di quello che chiamo “islamercato” quasi subito, rimestando nel web e passando in rassegna una serie di pubblicazioni, libri o report o articoli o semplici news, che in un modo o nell’altro trattano l’argomento.
Tuttavia non ho mai citato direttamente un libro, L’islam de marché: l’autre révolution conservatrice (che oggi scopro essere uscito nel 2008 in italiano per “Città aperta”). Il suo autore, Patrick Haenni, apre una finestra su un mondo, quello della nuova borghesia imprenditoriale musulmana, a molti sconosciuto. Per amor di brevità, cito la descrizione del libro che si trova su anobii:
Il libro analizza il fenomeno crescente denominato l’islam di mercato: un modello americano conservatore, che associa democrazia istituzionale e pressioni contro la pluralizzazione degli stili di vita, che si profila all’orizzonte dell’incontro tra la reislamizzazione borghese e il suo concomitante affrancamento dalla matrice islamica.
“L’islam del mercato” per certi versi è già vecchio. E’ stato scritto nel 2003 e non tiene conto di una serie di sviluppi che tracciano un picco del fenomeno dal gradiente molto accentuato per l’entrata in campo – la definirei quasi un’irruzione – di attori importantissimi che Henni non aveva preso in considerazione: i paesi del Golfo, con la loro “finanza islamica” e con la loro peculiare “reislamizzazione”.
Il ricercatore svizzero, tuttavia, fornisce un importante – seppur ridotto – background metodologico e casistico parlandoci della propaggine occidentale della borghesia musulmana ma, soprattutto, di Turchia ed Egitto, due paesi che in questi mesi hanno assunto un’importanza fondamentale.
Il primo, in special modo dopo la crisi della Mavi Marmara, è apparso a tutti per ciò che è: un fondamentale attore politico-economico che si comporta, sulla spinta dei capitalisti musulmani “illuminati” e “democratici” di Erdogan, come una nuova potenza regionale, prendendo le distanze da Israele.
Il secondo, al centro delle vicende di queste ore, che mostra di volersi spogliare del suo vestito autocratico e che – qui sta il punto – ospita da molto tempo alcuni dei protagonisti di questo islam delle merci.
Il fatto non sarebbe di qualche rilievo se non si considerasse che la nuova borghesia musulmana d’Egitto, così come la descrive Henni, si sviluppa all’interno del contesto politico-culturale della Fratellanza Musulmana.
Il nostro ci spiega – quasi incidentalmente – che il fenomeno dell’islamercato, in Egitto, nasce proprio sulle ceneri di una sconfitta politica de facto dell’islam politico, quell’islam politico che proprio in questi giorni procura un sovraccarico di ansia nelle menti e nei cuori di tanti osservatori più o meno titolati, più o meno in buona fede.
La nuova borghesia musulmana, vi invito per la seconda volta a leggere perlomeno alcuni dei post che ho scritto sul tema, non chiede altro che fare affari, vede nel mercato una via d’uscita (l’islam come “strumento”, non come “soluzione”), e per questo prende come modello di riferimento la Turchia: un paese in cui ha vinto un partito demoislamico (guardate, ad esempio, cosa dice il leader della Nahda tunisina, Rachid Ghannouchi).
E, forse paradossalmente, è un fattore secolarizzante perché mercifica l’identità religiosa, relegandola a una dimensione privata (un fenomeno che è ben visibile non solo nel contesto islamico, vedi ad esempio qui).
Ma ora andiamo oltre – solo con un cenno – perché questa borghesia agisce, ovviamente, per sé, per i propri interessi. E, come recita il sottotitolo del libro di Henni è protagonista di una “rivoluzione conservatrice”, laddove per “conservatore” si intende qualcuno che ritiene di poter coltivare i propri interessi senza modificare un certo status quo (vedi ad esempio qui).
Forse, rileggendo le prese di posizione degli ultimi anni dei Fratelli Musulmani egiziani in questa luce, potremo capire molto di più su ciò che sta succedendo e su ciò che davvero potrebbe succedere nei prossimi anni.
Un’ultima considerazione, frutto del mio lavoro: comunque la si pensi, per “il mercato” una borghesia musulmana conservatrice è certamente più affidabile, visti anche i capitali del Golfo, di tanti altri attori oggi in campo in Egitto e altrove.
Gli americani sanno bene tutto questo se è vero che Vali Nasr, un ricercatore certamente molto meno partisan di Henni, scrive nel 2009 “Forces of Fortune” (vedi anche qui).
Ritengo che l’Amministrazione americana stia facendo i propri calcoli in base a queste considerazioni in Tunisia, in Egitto e altrove, forse a spese di quella parte di Israele che in un futuro così disegnato risulterebbe perdente.
Chiudo consigliando questo lungo articolo.
https://in30secondi.altervista.org/2011/02/04/gli-attori-del-mercato-islamico-e-i-calcoli-di-washington/https://in30secondi.altervista.org/wp-content/uploads/2011/02/1537_0.jpghttps://in30secondi.altervista.org/wp-content/uploads/2011/02/1537_0-150x150.jpgFuori misuraIn fiammeIslamercato2011.01.25,egitto,islam,islamercato,israele,stati uniti,turchia
D’accordo su quasi tutto. La tesi della sconfitta dell’Islam politico, cara a Haenni e Roy, non convince. Cioé: la vedono come una sconfitta perché “fissano” le caratteristiche e gli obiettivi dell’Islam politico. E siccome quegli obiettivi non sono stati raggiunti allora è il progetto dell’Islam politico viene dichiarato sconfitto tout court.
In questo modo si nega ancora una volta la dimensione storica del fenomeno. Una critica buona alla tesi di Haenni e Roy l’ha fatta Salwa Ismail: The Paradox of Islamist Politics (http://www.jstor.org/stable/1559338).
Leggerò l’articolo, grazie dell’indicazione (mamma mia se siamo forti :-)) ). Domande: potremmo definirla una “sconfitta temporanea” o “strategica” o semplicemente una “ritirata” o un “cambio di strategia”? Voglio dire: la cosa si potrebbe evolvere in una presenza stabile all’interno di un panorama politico dotato di strumenti democratici. Ma ciò non elimina il “potenziale rivoluzionario” dell’islam politico?
ouch, JSTOR… nn ho l’accesso
ce l’ho io scarico e te lo mando…
Secondo me “cambio di strategia” è la definizione che ci si avvicina di più: Bayat parla di “svolta post-islamista”. L’Islam politico sconfitto secondo Roy e Haenni è quello di Qutb e Mawdudi per intenderci. Ma questo deve essere visto all’interno di una traiettoria politica che implica un prima (es. riformismo fine ‘800) ma anche un dopo (es. partecipazione all’interno delle istituzioni/attività politiche: elezioni, movimenti di protesta e/o riformisti, associazionismo etc.).
Se si dice, come fanno Haenni e Roy, che l’Islam politico ha fallito non si spiega come mai i suddetti movimenti godano ancora di ampio consenso e siano ancora ben radicati nel territorio. Quello di cui parlano loro (in soldoni: avanguardia rivoluzionaria>stato islamico>islamizzazione dall’alto) deve essere visto come a) una specifica fase storica e b) una specifica strategia, appunto, rivista e criticata soprattutto dall’interno. Così si spiega la divisione tra islamismo radicale à la Jihad/Jama3ah/Al Qaeda e quello moderato à la Ikhwan consumatasi negli anni ’70. Ma soprattutto si spiega il successo degli Ikhwan che hanno optato per un cambiamento graduale, dal basso e dall’interno. L’attivismo all’interno di associazioni studentesche e professionali, la fornitura di servizi sociali hanno permesso agli Ikhwan sia di sopravvivere che di entrare in politica nel ’84.
In questo senso è un cambio di strategia e non un fallimento definitivo. Non si vedono più come un’avanguardia rivoluzionaria, ma un segmento della società: ricordi il messaggio di Badie a novembre (“Participation not confrontation”)? Questo è ancora Islam politico, ma diverso. Così si riesce a “storicizzare” il fenomeno evitando generalizzazioni e essenzialismi vari.
Più o meno …
Sono piuttosto dáccordo.